Contestata ad un maresciallo della GDF la condotta di accesso abusivo riguardante 629 soggetti, in relazione ai quali vi furono plurime acquisizione di informazioni nella banca dati Serpico, 7 soggetti per la banca SDI, 6 soggetti per la banca dati Schengen, 3 soggetti per la banca dati Hidra di Telecom /Tim, in conrso con altro soggetto, già condannato ma non ricorrente.-
Corte di Cassazione sez. Penale Sent. Sez. 5 Num. 12653 Anno 2025
Presidente: MICCOLI GRAZIA ROSA ANNA Relatore: CANANZI FRANCESCO Data Udienza: 04/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.G. nato a M. il ....
avverso la sentenza del 26/09/2024 della CORTE D'APPELLO di MILANO
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO CANANZI;
lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale TOMASO EPIDENDIO, che ha chiesto dichiararsi
inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza emessa il 26 settembre 2024
riformava, quanto alla pena, quella del Tribunale meneghino dell’11 luglio 2023,
confermando la responsabilità penale di G.P..
In particolare P. è stato ritenuto responsabile di plurime condotte di
accesso abusivo aggravato al sistema Serpico e ad altre banche dati, quale
maresciallo aiutante della Guardia di Finanza, accessi finalizzati a verificare la
posizione anagrafica e fiscale, nonché ad estrarre le dichiarazioni dei redditi di
S.R. , per gli anni 2013-2015 (capo a - art. 615-ter, commi 1, 2 e 3
cod. pen.), con conseguente rilevazione illegittima di tali informazioni alle società
di investigazioni indicate nell’imputazione (capo b - art. 326 cod. pen.).
Analoghe contestazioni, ma a fronte di ben più significativi accessi alle banche
dati, erano contestate ai capi c) e d): al primo capo d’imputazione viene descritta
la condotta di accesso abusivo riguardante 629 soggetti, in relazione ai quali vi
furono plurime acquisizione di informazioni nella banca dati Serpico, 7 soggetti per
la banca SDI, 6 soggetti per la banca dati Schengen, 3 soggetti per la banca dati
Hidra di Telecom /Tim; condotte tutte contestate a P. in concorso con S.
L., condannata ma non ricorrente, quest’ultima amministratrice della società di
investigazioni Kronos S.r.l.. Ad entrambi veniva contestata e ritenuta la
responsabilità per il delitto di rivelazione di segreto ex art. 326 cod. pen.
contestato al capo d).
2. Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di G.P.
consta di un unico articolato motivo, enunciato nei limiti strettamente necessari
per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Il ricorso denuncia con unico motivo, vizio di motivazione e violazione di
legge, in relazione agli artt. 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost.
La Corte di appello avrebbe travisato la prova tratta dal documento rinvenuto
nel computer della coimputata L.: si tratta della annotazione di polizia giudiziaria
prot. n. 182057, che risultava contenere informazioni confidenziali e della quale
apparivano essere autori altri due appartenenti al corpo della Guardia di finanza,
L. e M..
Deduce la difesa che, rispetto a tale documento, la motivazione impugnata fa
riferimento ai foll. 211 e 227 all’ipotesi alternativa che vi fossero soggetti estranei
al Corpo che avessero avuto accesso al computer in uso all’imputato, mentre
invece la difesa sollecitava una valutazione del documento quanto all’accesso
abusivo da parte di due militari della Guardia di finanza, quindi soggetti non
estranei.
Difettava un approfondimento da parte della Corte di appello sul punto, come
anche da parte della autorità inquirente, pur essendo il documento nella
disponibilità della stessa: la Corte di appello, in sostanza, avrebbe escluso
erroneamente tale ‘pista’ alternativa dell’accesso abusivo da parte di altri militari,
fondandosi solo sulla dichiarazione dello stesso imputato, che negava del tutto il
coinvolgimento dei colleghi. In tal senso, osserva la difesa ricorrente, la Corte di
appello ha omesso di valutare l’annotazione citata a favore dell’imputato,
affidandosi a una opinione dello stesso P., mentre la teste L. ebbe a
dichiarare che non fu mai accertato se il citato allegato n. 6 fosse effettivamente
riconducibile ai due militari.
Lamenta il ricorrente anche un omesso confronto della sentenza impugnata
con le deduzioni rivolte in appello quanto a due profili anonimi - denominati public
e KINagSvc - utilizzati per accedere alle banche dati. Tali censure non sostenevano
la possibilità che estranei al Corpo avessero avuto accesso al pc dell’imputato,
bensì che lo stesso fosse stato utilizzato da altri militari con profili anonimi. Né la
tesi dell’estraneo era stata proposta per il documento indicato R. 003, che
riportava la matricola di P.. In sostanza la Corte di appello avrebbe
travisato le tesi difensive, rispondendo sulla impossibilità che estranei potessero
accedere abusivamente, non anche sul punto che l’accesso fosse stato operato da
altri militari.
Altro profilo di censura attiene alla circostanza che sarebbe contraddittoria la
sentenza nella parte in cui, dopo aver ritenuto certo l’accesso alle banche dati da
parte di P., introduca il tema della sufficienza del dolo eventuale per il caso
in cui l’inserimento della password da parte di P., in un file word sul
proprio computer, consentiva l’accesso ad altri componenti del Corpo con la
password dell’imputato: ciò aveva la conseguenza che l’imputato avrebbe assunto
il rischio dell’utilizzazione abusiva delle proprie credenziali da parte di terzi militari.
La Corte di appello si sarebbe però contraddetta: la motivazione sul dolo
eventuale metterebbe in crisi le argomentazioni della Corte di appello in ordine
alla certezza che sia stato P. e non altri ad effettuare gli accessi abusivi.
Lamenta P. anche il ricorso alle massime di esperienza da parte della
Corte territoriale, rilevando come non fosse scontato che al passaggio di qualifica
seguisse anche l’aggiornamento del profilo informatico. Ciò rilevava, in quanto il
mancato aggiornamento della progressione in carriera del profilo di P.
risultava sul file R. del luglio 2017, ove non risultava la qualifica acquisita
dall’imputato a quella data, ma quella precedente che l’imputato aveva ricevuto,
per quanto dallo stesso dichiarato, fin dal 2012.
Anche sul tema della attendibilità dei risultati dei tabulati telefonici per
l’individuazione dell’ubicazione delle utenze del P. e della L., la Corte di
appello trascurava che P. vivesse comunque la propria vita familiare nella
stessa zona in cui sussistevano le celle agganciate e richiamate dalla Corte di
appello. Anche viene dal ricorrente criticato l’uso di massime di esperienza per la
messaggistica istantanea tramite KIK, non conducente a indizi a carico
dell’imputato, in quanto si trattava di una applicazione in uso fra i finanzieri di
pattuglia, a fronte dei crash di whats app, tanto più che l’applicazione Kik non fu
rinvenuta su alcun device della L..
4. Il ricorso è stato trattato senza l’intervento delle parti, ai sensi del
rinnovato art. 611 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 e
successive integrazioni.
5. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott.
Tomaso Epidendio, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte, con le quali ha
chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile, per le ragioni che seguono.
2. Va premesso che la doglianza di violazione di legge ai sensi dell’art. 606
lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli art. 192 e 546 cod. proc. pen. non è
consentita.
Infatti, la deduzione del vizio di violazione di legge in relazione all’asserito
malgoverno delle regole di valutazione della prova contenute nell’art. 192 cod.
proc. pen. ovvero della regola di giudizio di cui all’art. 533 dello stesso codice, non
essendo l'inosservanza delle suddette disposizioni prevista a pena di nullità,
inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come richiesto dall’art. 606 lett. c)
cod. proc. pen. ai fini della deducibilità della violazione di legge processuale (ex
multis Sez. 3, n. 44901 del 17 ottobre 2012, F., Rv. 253567; Sez. 3, n. 24574 del
12/03/2015, Zonfrilli e altri, Rv. 264174; Sez. 1, n. 42207/17 del 20 ottobre 2016,
Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191;
Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027). Né vale in senso
contrario la qualificazione del vizio dedotto operata dal ricorrente come error in
iudicando in iure ai sensi della lett. b) dell’art. 606 cod.proc.pen., posto che tale
disposizione, per consolidato insegnamento di questa Corte, riguarda solo l’errata
applicazione della legge sostanziale, pena, altrimenti, l’aggiramento del limite
(posto dalla citata lett. c dello stesso articolo) della denunciabilità della violazione
di norme processuali solo nel caso in cui ciò determini una invalidità (ex multis
Sez. 3, n. 8962 del 3 luglio 1997, Ruggeri, Rv. 208446; Sez. 5, n. 47575 del
07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404).
3. Tanto premesso, residua la doglianza quanto al vizio di motivazione.
Va premesso che ricorre il vizio di motivazione manifestamente illogica nel
caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse,
nel caso di sillogismo e le conseguenze che se ne traggono, e, invece, di
motivazione contraddittoria quando non siano conciliabili tra loro le considerazioni
logico-giuridiche in ordine ad uno stesso fatto o ad un complesso di fatti o vi sia
disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza, ovvero nella
stessa si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o
più ipotesi formulate dal giudice - conducenti ad esiti diversi - siano state poste a
base del suo convincimento (Sez. 5, n. 19318 del 20/01/2021, Cappella, Rv.
281105 – 01; conf.: N. 12329 del 2010 Rv. 247229 - 01, N. 9539 del 1999 Rv.
215132 - 01, N. 39678 del 2018 Rv. 273816 – 01).
Venendo alle doglianze proposte dal ricorrente, quella di travisamento della
annotazione di polizia giudiziaria è del tutto aspecifica, in quanto prende in
considerazione solo parte della motivazione. Infatti, in altra parte della sentenza
la Corte di appello si confronta con la possibilità che altri militari – dunque non
solo estranei al Corpo - abbiano utilizzato la postazione di P., usandone a
sua insaputa le credenziali.
Va ricordato che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi
non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni
già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti
della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione
impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del
09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849), difettando di una critica
puntuale al provvedimento, che confuti in fatto e/o in diritto le argomentazioni in
virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti (Sez. 6 n. 23014 del
29/04/2021, B., Rv. 281521).
Tornando alla ipotesi che altri militari, e non P., avrebbero effettuato
gli accessi abusivi, si legge a fol. 208 della sentenza che l’esistenza di un uso
diffuso della postazione di P. consentiva certamente l’accesso a ogni
militare, ma per l’accesso alle singole banche dati - dalle quali furono tratti i dati
oggetto dell’imputazione – era necessario l’inserimento di ulteriori password
personali (oltre quelle per l’accesso al computer), da aggiornare periodicamente e
corredate da peculiare complessità, il che escludeva la tesi difensiva.
A questo punto, la sentenza impugnata chiarisce anche che poteva avvenire
l’inverso, cioè che P. avesse utilizzato un profilo attivato da un collega
militare - poi non richiuso - così inserendo le sue credenziali per l’accesso alle
singole banche dati, ovvero si fosse avvalso dei profili Public e KINagSvc dei quali
è rimasto ignoto il titolare, per effettuare le proprie ricerche.
A ben vedere la prima argomentazione è da ritenersi non manifestamente
illogica - a fronte della quantità di accessi alle banche dati avvenuti con il profilo
di P. e con le sue password, nonchè delle ulteriori emergenze probatorie
delle quali si leggerà – per spiegare la circostanza che il documento informatico
contrassegnato come WRA0004, come riferito dal consulente della Loi, risultava
rinvenuto in altro profilo all’interno del computer di P., appartenente a
soggetto recante altra numero di matricola (Q135614) (fol. 208-209).
D’altro canto, al fol. 210 la sentenza della Corte di appello torna sul tema di
censura che il ricorso ritiene erroneamente eluso, affermando esplicitamente che
«non può ritenersi fondata la tesi proposta dalla difesa, secondo cui sarebbero
stati i colleghi dell’imputato ad accedere alle banche dati tramite le credenziali
personali dell’imputato tramite i propri profili, poiché espressa tramite mere
deduzioni generiche e prive di riscontri probatori negli atti di indagine». Dunque,
il tema del quale si duole nuovamente il ricorso è stato ritenuto oggetto di un
motivo di appello generico: sul punto il ricorso non si confronta, non
controdeducendo sulla genericità del motivo di appello.
Ad ogni buon conto la Corte di appello, in aggiunta alla valutazione di
genericità della doglianza di appello, chiarisce che è stato lo stesso imputato a
escludere del tutto il coinvolgimento dei colleghi, anche in relazione ai documenti
trovati nel computer della L. recanti le matricole dei militari L. e M. (il
cd. allegato 6). A dire il vero è lo stesso atto di appello (fol. 7) che in ordine al
documento citato annota: «… è evidente, quindi, che si trattasse di un foglio
sovrascritto nel 2020 da parte di qualcuno che potrebbe avere utilizzato le
credenziali di L. e M., anche perché il M. è emerso, nel 2013, non era
nemmeno arruolato». Ecco la ragione per la quale la sentenza impugnata si
preoccupa (fol. 211 e 227) anche di dare conto della esclusione dell’ipotesi che
estranei al corpo militare potessero aver avuto accesso al computer di P..
Nessun travisamento, quindi, ma un onere di valutazione e argomentazione
adempiuto in modo completo e senza manifeste illogicità dalla Corte territoriale.
Quanto al peso attribuito alla dichiarazione dell’imputato, che escludeva la
colpevolezza dei colleghi - premessa la genericità della doglianza di appello – va
evidenziato come la dedotta responsabilità di altri militari risulta del tutto astratta
e implausibile, nella prospettiva della sentenza impugnata, a fronte della pluralità
degli elementi indiziari gravi analizzati dalle sentenze di merito in doppia
conforme. Cosicché, l’aver richiamato la dichiarazione dell’imputato che scagiona
i colleghi si accompagna a una rigorosa ulteriore verifica degli indizi indicati dal
primo giudice, giungendo alla conclusione che fosse P. e non altri, né
interni al Corpo né esterni, ad accedere alle banche dati e a trasferire le
informazioni.
In sostanza, la Corte di appello ha ritenuto che la gravità degli indizi rendesse
non plausibile, perché astratta, la tesi alternativa dell’utilizzo del computer a fini
illeciti da parte di altri militari o di terzi estranei.
Il che è in sintonia con il principio per cui la regola di giudizio compendiata
nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio", impone di pronunciare condanna
a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote,
pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma
la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché
minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine
naturale delle cose e della normale razionalità umana (ex multis, Sez. 2, n.
2548/15 del 19 dicembre 2014, Pg in proc. Segura, Rv. 262280).
D’altro canto, la sentenza impugnata attribuisce rilievo ai messaggi inviati
tramite l’applicazione di messaggistica KIK, esistente sul telefono di servizio
dell’imputato — applicazione per messaggistica veloce che non consente di
ricollegare il messaggio al numero dell’utente, che così resta anonimo, quindi con
particolare livello di riservatezza.
I messaggi Kik rinvenuti fra i sedicenti A. N. (da identificarsi in
P., nella impostazione fatta propria dalle sentenze di merito) e C.
K. (da identificarsi in L.) risultano essere stati recuperati attraverso il
programma di analisi forense Intella, in quanto in precedenza cancellati.
Il contenuto dei messaggi recuperati sull’utenza di P. risultava
coerente e attendibile, secondo la Corte di appello, riferiva proprio delle richieste
di informazioni a mezzo ricerche in banca dati, il tutto confermato – ai fini della
identificazione dei conversanti — da alcune individualizzanti informazioni tratte
dalla stessa messaggistica, come il riferimento da parte della K. alla società
di investigazione Kronos— che era, appunto, gestita da L. — e al cambio di sede
sociale in atto, circostanza anche riscontrata dalle indagini.
Altro riscontro per l’identificazione dei conversanti avveniva attraverso i
tabulati telefonici, che attestavano che i due interlocutori si trovavano, all’ora degli
appuntamenti datisi, negli stessi luoghi, volta per volta attivando medesime celle
o celle vicine (cfr. fol. 201 in occasione di almeno tre incontri).
In sostanza, lo spostamento del telefono personale di L. e di P.
palesava per la Corte di appello, senza manifeste illogicità, come proprio costoro,
e non altri, fossero gli interlocutori delle chat KIK, che a mezzo messaggi, poi
cancellati, si comunicavano le richieste di informazioni riservate, da parte di L. e
l’avvenuta acquisizione delle stesse, da parte di P..
Anche in relazione all’applicazione Kik e alle doglianze del ricorrente, le stesse
sono del tutto aspecifiche in quanto non si confrontano con tale motivazione.
Comunque, non ne è dedotta la decisività, a fronte della pluralità di dati probatori
anche individualizzanti. Difatti gli accessi avvenivano utilizzando il profilo recante
la matricola dell’imputato; è stato verificato che l’imputato era in ufficio in
occasione degli accessi di cui al capo a), che di Kik non è stata trovata traccia
presso L. in quanto la stessa aveva sul proprio computer un programma di ‘pulizia
informatica’ che non consentiva il recupero avvenuto invece sul telefono di
P.; inoltre, il numero di telefono della Kronos era nella rubrica del telefono
di servizio dell’imputato, pur non essendo mai stato utilizzato, a riprova della
circostanza che i due comunicavano tramite Kik; infine, come si è già evidenziato,
la Corte di appello riscontrava anche che le conversazioni riguardavano il
trasferimento della Kronos, in tempi e modi corrispondenti a quelli reali.
Va ricordato che il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del
provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal
ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a
disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per
la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando
il limite del "devolutum" in caso di cosiddetta "doppia conforme" (salvo il caso della
inedita – e non dedotta nel caso in esame - valorizzazione nel giudizio d’appello di
prove non considerate dal giudice di primo grado) e l'intangibilità della valutazione
nel merito del risultato probatorio (se non nei limiti del sindacato della motivazione
posta a sostegno della stessa)(Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758).
La forza disarticolante richiesta non è dedotta né risulta sussistere, a fronte
degli elementi plurimi comprovanti la responsabilità dell’imputato in doppia
conforme, cosicché la deduzione del vizio da travisamento in relazione a singoli
indizi appare del tutto inconferente.
Il ricorso a massime di esperienze viene censurato. Va richiamato quanto
affermato da Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, dep. 30/04/2021, Romano, Rv.
281385 – 01, che evidenzia come, in materia di prova indiziaria, il controllo della
Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può
estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, costituite da
giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, fondati su
ripetute esperienze, ma autonomi da queste, può però avere ad oggetto la verifica
sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non
fondate sull'"id quod plerumque accidit", ed insuscettibili di verifica empirica, od
anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima
plausibilità (conf. N. 16532 del 2007 Rv. 237145 - 01, N. 31706 del 2003 Rv.
228401 - 01, N. 18118 del 2014 Rv. 261992 – 01).
Deve evidenziarsi come le valutazioni che riguardano l’attendibilità dei tabulati
telefonici per l’individuazione dell’ubicazione delle utenze del P. e della L.
risultano ben argomentate dalla Corte di appello, in relazione a dati di certa
esperienza, quali la densità abitativa e il ristretto ambito territoriale, come anche
la correlata pluralità di celle concentrate in tale contesto. Per altro verso, la
doglianza si fonda su un dedotto travisamento per omissione in relazione alla
circostanza che P. vivesse comunque la propria vita familiare nella
medesima zona in cui sussistevano le celle agganciate e richiamate dalla Corte di
appello. A ben vedere, però, il dato che la vita familiare si svolgesse nella
medesima zona viene affrontato dalla Corte di appello al fol. 202 della sentenza e
valutato senza alcuna manifesta illogicità. La Corte territoriale esclude che il dato
del tabulato sia equivoco, rilevando la distanza esistente fra l’abitazione e il luogo
dell’appuntamento fra P. e L.: in sostanza P. non poteva attivare
le celle dalla propria abitazione, né le stesse furono attivate per aver
accompagnato il figlio a scuola, in quanto, osserva la sentenza impugnata, l’istituto
scolastico aveva cessato le attività per gli studenti nel mese di luglio. Con tali
argomenti non si confronta affatto la doglianza, che dunque resta aspecifica.
Anche la censura in ordine alla massima di esperienza spesa dalla Corte di
appello in ordine all’utilizzo di Kik risulta non decisiva. La doglianza relativa alle
ragioni addotte dall’imputato per l’utilizzo di Kik - ragioni di servizio per
comunicare con i colleghi non utilizzando whats app, che era sottoposta a frequenti
crash – viene ritenuta non logica dalla Corte di appello, in quanto le interruzioni
del servizio del più diffuso sistema di messaggistica risultano rare e limitate nel
tempo. Si tratta di un dato esperienziale richiamato dalla Corte di appello
certamente non congetturale.
La Corte di appello, poi, afferma che comunque le modalità di comunicazioni
fra i colleghi potevano avvenire attraverso messaggi di posta elettronica o a mezzo
di altre più diffuse applicazioni. A riguardo, se certamente la messaggistica a
mezzo posta elettronica non è un mezzo celere, il riferimento ad altre applicazioni
più diffuse non è manifestamente illogico, il che conduce a ritenere non decisiva
la censura.
Quanto alla circostanza che l’applicazione Kik non fu rinvenuta nei device della
Loi, la risposta viene offerta dalla Corte di appello, facendo riferimento all’esistenza
del citato programma informatico che l’imputata aveva nel proprio computer per
la pulizia dei dati e delle applicazioni. Con tale argomento non si confronta il
ricorrente, tanto più che anche in assenza del rinvenimento dell’applicazione altri
sono i dati che identificano L. in C.K..
Per altro, è indubbio che Kik garantiva la natura riservata delle conversazioni
e la non attribuibilità ad una utenza individuabile e, dunque, era funzionale
all’attività illecita oggetto dell’imputazione.
Altro ambito di applicazione di una massima di esperienza è quello che
riguarda il mancato aggiornamento della progressione in carriera del profilo di
P., utilizzato per estrarre il file R. del luglio 2017. Tale profilo
dell’imputato, infatti, non corrispondeva alla qualifica acquisita da P. a
quella data, anche alla luce delle dichiarazioni dell’imputato che riferiva di aver
ricevuto il passaggio di qualifica nel 2012.
Or bene, al di là della massima di esperienza, che non appare rispondente a
una esperienza generalizzata, non essendo certo esperienza diffusa che dopo
cinque anni ancora il profilo informatico non rechi la nuova qualifica — così
argomenta la Corte di appello – la difesa non si confronta con la seconda decisiva
argomentazione. La sentenza evidenzia come non vi sia prova che anche solo per
il passaggio di qualifica da maresciallo capo a maresciallo aiutante dovesse esservi
comunque un aggiornamento della posizione informatica. Si tratta di un
argomento che il ricorso tralascia del tutto e che rende non decisivo, per il resto,
la doglianza.
In sostanza, a fronte di due argomenti, sul punto, il ricorso ne attacca uno
solo, il che rende aspecifica la doglianza perché si limita alla critica di una sola
delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe
autonome ed autosufficienti, in quanto da una pronuncia favorevole su di esse non
potrebbe derivare all'impugnante quella modificazione della sua situazione
processuale in cui si sostanzia l'interesse che, per espresso dettato normativo,
deve sottostare ad ogni impugnazione (Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv.
250972; Sez. 3, n. 27119 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bertozzi, Rv. 264267;
Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, Bimonte, Rv. 272448)
Anche non specifica è la censura quanto alla circostanza che sarebbe
contraddittoria la sentenza nella parte in cui, dopo aver ritenuto certo l’accesso
alle banche dati da parte di Palmisano, introduca il tema della sussistenza del dolo
eventuale, per il caso in cui l’inserimento della password da parte di P. in
un file word nel computer consentiva l’accesso ad altri componenti del Corpo con
la password dell’imputato, con la conseguenza che l’imputato avrebbe assunto il
rischio dell’utilizzazione abusiva delle proprie credenziali da parte di terzi militari.
La Corte di appello si sarebbe dunque contraddetta, questa la tesi del
ricorrente, e la motivazione sul dolo eventuale metterebbe in crisi le
argomentazioni della sentenza in ordine alla certezza che sia stato P. e
non altri ad effettuare gli accessi abusivi.
A ben vedere il richiamo al dolo eventuale offre una motivazione in via
subordinata, nel senso che la Corte di appello, dopo aver confermato quella di
primo grado che ha ritenuto P. l’autore degli accessi, a sostegno della non
decisività delle argomentazioni difensive, evidenzia come, anche a voler accogliere
la tesi sostenuta dalla difesa, comunque sarebbe comprovato il dolo eventuale.
Se il vizio logico è inteso come quello «che consegue alla violazione di alcuno
degli altri principi della logica formale o dei canoni normativi di valutazione della
prova ai sensi dell'articolo 192 cod. proc. pen., ovvero alla invalidità (o
scorrettezza) dell'argomentazione per carenza di connessione tra le premesse
della abduzione o di ogni plausibile nesso di inferenza tra le stesse e la
conclusione» (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina Rv. 255141
– 01, in motivazione), nel caso in esame non si verifica alcuna di tali ipotesi di
illogicità manifesta o contraddittorietà logica, in quanto la scansione logica
chiarisce che il tema del dolo eventuale subentra in seconda battuta e non è,
quindi, in contraddizione con la motivazione primaria, offerta dalla Corte di appello
e, prima, dal Tribunale.
Quanto alle ulteriori doglianze il ricorso è versato in fatto e propone
alternative, e non consentite, ricostruzioni in sede di legittimità. Pertanto, in ordine
a tali profili di censura, il ricorso contesta la correttezza della motivazione, posta
a base della dichiarazione di responsabilità, denunciando la illogicità della
motivazione sulla base della diversa lettura dei dati processuali o una diversa
ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di
attendibilità delle fonti di prova, non consentito dalla legge, stante la preclusione
per la Corte di cassazione non solo di sovrapporre la propria valutazione delle
risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare
la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto
tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di
ragionamento mutuati dall'esterno (tra le altre, Sez. U, n. 12 del 31/05/2000,
Jakani, Rv. 216260).
La Corte di merito, con motivazione esente da vizi logici, ha esplicitato le
ragioni del proprio convincimento facendo applicazione di corretti argomenti
giuridici ai fini della dichiarazione di responsabilità e della sussistenza del reato.
4. Ne consegue l'inammissibilità del ricorso e la condanna della parte
ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod.proc.pen. (come modificato ex L. 23 giugno
2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della
somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso il 04/03/2025
13-04-2025 22:04
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