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Sentenza

È stalking anche costringere qualcuno a chiudere il proprio profilo Facebook
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Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 22/02/2023) 07-06-2023, n. 24360


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SARNO Giulio - Presidente -

Dott. DI NICOLA Vito - Consigliere -

Dott. GALANTI Alberto - Consigliere -

Dott. ANDRONIO Alessandro M. - Consigliere -

Dott. ZUNICA Fabio - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 22-04-2022 della Corte di appello di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ZUNICA Fabio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SECCIA Domenico A.R., che ha concluso per il rigetto del ricorso del ricorrente e per l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale, con annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente ai punti evidenziati, con affermazione della responsabilità penale dell'imputato per i fatti ascrittigli;

lette le conclusioni trasmesse dall'avvocato BRANCA Anna Maria, difensore di fiducia della parte civile B.B., che ha depositato conclusioni scritte e nota spese.

udito l'avvocato MILONE Claudia, difensore di fiducia di A.A., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso e ha chiesto il rigetto del Procuratore generale.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 22 dicembre 2020, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere condannava A.A. alla pena di anni 9 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole dei reati, tra loro unificati dal vincolo di continuazione, di violenza sessuale (capo A), tentata estorsione (capo B) e atti persecutori (capo C); in particolare, secondo l'impostazione accusatoria recepita dal Tribunale, l'imputato costringeva B.B., cui era stato legato da una breve relazione sentimentale, a subire in più occasioni rapporti sessuali completi in luoghi appartati, minacciandola di diffondere tra i suoi conoscenti una serie di foto intime scattate in costanza della relazione affettiva (capo A, commesso in (Omissis)); inoltre, sempre dietro la minaccia di divulgare a persone a lei vicine immagini che la ritraevano in atteggiamenti intimi, A.A. compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere la B.B. a restituirgli un Iphone e delle somme di denaro che egli le aveva regalato (capo B, commesso in (Omissis)). Infine, l'imputato si rendeva protagonista di atti persecutori in danno della sua ex, minacciandola, umiliandola, denigrandola pesantemente con altre persone e seguendone gli spostamenti, così cagionandole un perdurante e grave stato di ansia e di paura, costringendola a cambiare le sue abitudini di vita, in particolare a cambiare numero di telefono, a chiudere il suo profilo Facebook e a evitare di accompagnare il figlio agli allenamenti sportivi (capo C, commesso in (Omissis)).

A.A. veniva altresì condannato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidare in separata sede, oltre che a pagare una provvisionale, liquidata nell'importo di 10.000 Euro.

Con sentenza del 22 aprile 2022, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, riduceva la pena inflitta all'imputato ad anni 6 di reclusione, confermando nel resto la decisione del Tribunale.

2. Avverso la sentenza della Corte di appello partenopea, hanno proposto ricorso per cassazione sia il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di appello di Napoli, sia A.A..

2.1. Il Sostituto Procuratore generale ha sollevato due motivi, tra loro sovrapponibili, con i quali è stato censurato il trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento al riconoscimento delle attenuanti generiche, osservandosi in proposito che i giudici di appello hanno omesso di indicare gli elementi positivi che avrebbero giustificato la mitigazione della pena, tale non potendosi qualificare la mera condizione di incensurato di A.A.. Peraltro, non è stato preso in considerazione dal giudice di secondo grado che, nelle more del processo di appello, l'imputato è stato raggiunto da provvedimento di aggravamento della misura, fino a quel momento non detentiva, essendo stata documentata dalla parte civile la reiterazione di analoghe condotte persecutorie poste in essere dopo l'arresto e l'esecuzione della misura detentiva domiciliare, ciò a ulteriore riprova della non meritevolezza delle attenuanti generiche.

Del resto, conclude il ricorrente, le due parti della sentenza di appello, quella riservata alla descrizione della gravità dei fatti e quella dedicata al trattamento sanzionatorio, sarebbero tra loro inconciliabili, posto che la necessità di adeguare il fatto alla pena si scontra con la realtà di una condotta contraddistinta da una pluralità di atti intrusivi e violenti durati circa sette mesi.

2.2. A.A., tramite il difensore di fiducia, ha sollevato sei motivi.

Con il primo, molto articolato, la difesa ha censurato la valutazione di attendibilità della persona offesa, evidenziando in primo luogo che nel caso di specie non è corretto parlare di una "doppia conforme", posto che il criterio di valutazione del principale teste di accusa non è stato omogeneo tra primo e secondo grado, nel senso che mentre il Tribunale ha applicato la regola di giudizio di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3, stante la veste della B.B. di indagata in procedimento connesso, la Corte di appello ha considerato la denunciante come testimone ordinario, applicando pertanto un differente regime di valutazione della prova.

Ciò premesso, la difesa sottolinea la carenza dei requisiti della spontaneità, della precisione e della coerenza del racconto della persona offesa, contraddistinto da palesi contraddizioni, che erano state evidenziate dalla difesa rispetto a 4 specifici punti: 1) il pedinamento di A.A. nel settembre 2018 tramite l'installazione di un GPS da parte di un investigatore privato, vicenda da cui era scaturita l'imputazione ex art. 615 bis c.p. a carico della B.B.; 2) la simulazione della gravidanza da parte della presunta vittima e della sua interruzione allo scopo di allontanare l'imputato; 3) la predisposizione di messaggi da parte della B.B. e C.C. finalizzati a consentire a A.A. di fare pace con la moglie; 4) le visite psichiatriche presso lo specialista di fiducia di A.A., Spa cciandosi per sua cugina; si tratterebbe, infatti, di iniziative non tipiche di una vittima del reato e inconciliabili con i fatti descritti.

A tali specifiche censure, la Corte di appello avrebbe omesso di fornire risposta.

Anche il tema dei presunti "regali", molto controverso in sede di merito, non sarebbe stato adeguatamente esplorato, rilevandosi in proposito che ciò che la B.B. imputava a mera liberalità, A.A. qualificava come prezzo della estorsione ai suoi danni.

Con il secondo motivo, è stata censurata, sotto il profilo della contraddittorietà della motivazione, la valutazione dei riscontri alla narrazione della persona offesa, osservandosi che i riscontri sono stati elencati in maniera complessiva e generica, mentre, ove fosse stata adottata la regola di giudizio ex art. 192 c.p.p., comma 3, i riscontri avrebbero dovuto assistere la narrazione della persona offesa rispetto a ogni singolo segmento accusatorio.

La contraddittorietà della motivazione sarebbe ravvisabile, comunque, tra la parte della sentenza in cui viene espressa la volontà della Corte di appello di attenersi alle argomentazioni del primo giudice, e quella in cui, in contrasto con i principi di diritto espressi dal Tribunale, la Corte di appello ha ritenuto di modificare il canone di valutazione della principale prova a carico, avendo i giudici di secondo grado qualificato la B.B. come teste semplice e non come imputato in procedimento connesso ex art. 210 c.p.p., come ritenuto dal Tribunale.

Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia il difetto di motivazione della sentenza impugnata rispetto al giudizio sulla configurabilità del delitto di violenza sessuale, rilevando che, rispetto ai due episodi indicati dal Tribunale, ovvero quello del settembre-ottobre 2018 e quello del 23 febbraio 2019, la difesa nell'atto di appello aveva formulato specifiche censure, anche rispetto all'esistenza dei riscontri, che sarebbero state ignorate dalla Corte di appello.

In particolare, quanto al primo episodio, era stato sottolineato che lo stesso si confondeva con i molteplici fatti che lo stesso Tribunale non aveva ritenuto sufficientemente circostanziati nel tempo e nello Spa zio, mentre, in ordine al secondo episodio, era stato rilevato che non poteva essere qualificato come teste neutro D.D., che aveva un legame molto stretto con la denunciante, tanto è vero che è stato il predetto ad accompagnare la donna a presentare la prima querela e scortare la B.B. fino a 3/4 mesi dopo, alternandosi con E.E..

Con il quarto motivo, oggetto di doglianza è il giudizio sulla configurabilità del reato di tentata estorsione, avendo la Corte di appello omesso di confrontarsi con le doglianze difensive, con le quali era stato rimarcato, da un lato, che quelli compiuti da A.A. non erano regali e, dall'altro, l'errore dell'imputato, rilevante ex art. 47 c.p., sulla circostanza che fossero elargizioni ripetibili; in definitiva, la difesa aveva contestato l'elemento materiale del reato e aveva chiesto di derubricare la fattispecie in esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, ma i giudici di secondo grado hanno mancato di motivare sul punto.

Con il quinto motivo, è stato contestato il rigetto della richiesta di procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale finalizzata all'acquisizione dei dati identificativi della sim card contenuta nel dispositivo Gps Tracher consegnato dalla moglie dell'imputato agli inquirenti con la correlata verifica del tempo di funzionamento e validità della stessa: si osserva in proposito che l'argomento Gps è stato ritenuto centrale in sede di merito ai fini della versione offerta dalla B.B., sia per affermarne l'attendibilità, sia per contestare la veridicità dell'opposta ricostruzione difensiva. Ora, poichè dall'istruttoria di primo grado era emerso il numero della sim card collocata all'interno del dispositivo Gps consegnato dalla moglie di A.A. agli inquirenti, la difesa aveva chiesto alla Corte di appello di accertare la riconducibilità, seppur indiretta, della sim a F.F. che a dire della B.B. lo avrebbe installato su sua richiesta sull'autovettura del ricorrente; l'accertamento, peraltro, era idoneo a superare il contrasto tra la versione della persona offesa e quello dell'imputato, atteso che la prima aveva riferito che il pedinamento sarebbe avvenuto per circa 5-7 giorni nel periodo compreso tra maggio e giugno 2018, mentre A.A. ha sostenuto che il dispositivo era presente nella sua auto nel mese di settembre 2018, prospettando al riguardo che il pedinamento sarebbe stato propedeutico a una richiesta estorsiva della B.B.. Orbene, l'approfondimento istruttorio sollecitato dalla difesa, sebbene in grado di fare luce su aspetti essenziali e non secondari della vicenda, è stato ritenuto superfluo dalla Corte di appello con motivazione solo apparente, tale da impedire di comprendere l'iter logico sotteso alla mancata assunzione della prova decisiva.

Il sesto motivo, infine, è dedicato all'omessa motivazione rispetto alla sussistenza delle aggravanti di cui all'art. 609 ter c.p., n. 5 quater e art. 612 c.p., comma 2, ravvisandosi sul punto l'omessa risposta della Corte di appello alle censure svolte nell'atto di appello, con le quali era stato sottolineato che quella instauratasi tra A.A. e la B.B. non era qualificabile come una vera e propria "relazione affettiva", trattandosi di un mero legame extraconiugale improntato su incontri clandestini, sorretti da finalità quasi esclusivamente sessuali.

3. In data 10 febbraio 2023, il difensore della parte civile ha trasmesso memoria, con cui ha chiesto di dichiarare inammissibile o di rigettare il ricorso di A.A., mentre ha chiesto l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale in punto di trattamento sanzionatorio.
Motivi della decisione

Sia il ricorso del Procuratore generale che quello di A.A. sono infondati.

1. Iniziando per ragioni di coerenza logica dal ricorso di A.A. e premesso che i primi quattro motivi sono suscettibili di essere trattati in maniera unitaria, perchè tra loro sovrapponibili, deve osservarsi che la conferma del giudizio di colpevolezza dell'imputato in ordine ai tre reati di cui egli è stato ritenuto colpevole non presenta alcun vizio di legittimità. Ed invero le due conformi sentenze di merito (più diffusamente il Tribunale, più sinteticamente la Corte di appello, che tuttavia non mancato di confrontarsi adeguatamente con le deduzioni difensive, fermo restando che le motivazioni delle due pronunce sono destinate a integrarsi per formare un apparato argomentativo unitario) hanno innanzitutto compiuto un'esauriente disamina delle fonti dimostrative acquisite, valorizzando in particolare le dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio della persona offesa B.B.; costei, dopo aver premesso di aver conosciuto l'imputato A.A. nel gennaio 2018 in una palestra di Cardito, ha riferito che tra i due, tra la fine di marzo e gli inizi di aprile di quell'anno, nacque una frequentazione anche di fuori della palestra, divenuta ben presto relazione sentimentale. L'imputato, che aveva detto di vivere da separato in casa con la moglie, da cui aveva avuto tre figli, l'ultimo dei quali di un anno, si mostrava premuroso e presente con lei (a sua volta separata con figli), tanto da iniziare ad andare in palestra in orari compatibili con gli impegni lavorativi di lei, essendo ella un'operatrice FTA in servizio presso l'Azienda Napoletana Mobilità, dove lavorava preferibilmente come autista della funicolare. Dopo essersi visti fuori la palestra inizialmente per un aperitivo o un caffè, i due intraprendevano si recavano talora presso strutture alberghiere nei pressi del (Omissis), dove consumavano rapporti sessuali.

Tuttavia, la B.B. iniziava a nutrire sospetti nei confronti di A.A., sia rispetto alla sua reale vita lavorativa, avendo egli raccontatole di essere un imprenditore con cantieri edili nella zona di (Omissis), ma le sue rivelazioni sul punto si erano rivelate poco chiare e specifiche, sia in ordine alla sua vita familiare, posto che, quando rientrava in casa, l'imputato diventata irrintracciabile, non rispondendo ai messaggi e talora rifiutando le telefonate di lei. In tutto ciò, A.A. aveva cominciato a farle regali molto costosi, o a darle somme di denaro (100 o 200 Euro), invitandola a comprarsi una borsa o ad andare a mangiare una pizza con i suoi figli.

A quel punto (aprile 2018), assalita dai dubbi, la B.B. decideva di rivolgersi a un amico di vecchia data, G.G., titolare di un'agenzia investigativa, che, dovendo trasferirsi a (Omissis), indirizzò la donna da un suo conoscente, F.F., al quale veniva conferito dalla denunciante l'incarico di monitorare per qualche giorno gli spostamenti dell'imputato.

Sull'auto di A.A. veniva installato quindi un GPS e dalla relazione consegnatagli da F.F. la B.B. apprendeva che in quei giorni l'imputato non si era recato in alcun cantiere, ma si era limitato a girare tra (Omissis), venendo ritratto spesso insieme alla moglie.

La B.B. affrontava dunque A.A., il quale si giustificava dicendo che gli avevano bloccato i cantieri per dei mancati pagamenti, per cui non stava lavorando, aggiungendo che le uscite con la moglie erano funzionali solo al compimento di commissioni riguardanti i figli e precisando che, avendo una bimba molto piccola, voleva mantenere segreto il loro rapporto.

Dopo questo chiarimento, la denunciante decideva di proseguire la relazione, essendo ciò avvenuto fino all'estate del 2018, sebbene ella nell'ultimo periodo avesse cambiato atteggiamento, nel senso che, mentre nella fase iniziale del loro rapporto, lei era consenziente alle riprese fotografiche dei momenti intimi operate da A.A., in questa nuova fase aveva iniziato a essere più fredda e a trovare alquanto insistenti le richieste di rapporti sessuali dell'imputato, anche se non poteva escludere che, fino all'agosto 2018, fossero state scattate dal ricorrente alcune fotografie con il suo assenso durante il compimento degli atti sessuali.

In ogni caso, il rapporto tra i due si incrinava nel settembre 2018, al rientro dalle vacanze.

La B.B., infatti, aveva detto a A.A. di non volere uscire più con lui, ma questi, rimasto irritato dai rifiuti, diveniva aggressivo e, nel pretendere alcune uscite, le aveva ricordato di avere conservato le foto scattate durante i loro momenti di intimità; la donna, nella speranza che il ricorrente si allontanasse, arrivò anche a dirgli che era incinta, circostanza non vera, che però ottenne l'effetto di respingere per qualche settimana A.A., almeno fino a quando ella, non potendo più sostenere quella menzogna, le aveva detto di aver interrotto la gravidanza.

In un successivo incontro, avvenuto tra il settembre e l'ottobre 2018, l'imputato disse alla denunciante di aver rivelato alla moglie la loro relazione, manifestandole il proposito di voler "stare con lei", ma la persona offesa gli manifestò la sua ferma contrarietà, al che A.A. reagì male, minacciandola di far vedere le immagini dei loro rapporti sessuali alla madre e all'ex marito di lei, oltre che presso il suo luogo di lavoro, e così la B.B., temendo che alle minacce del suo interlocutore seguissero i fatti, cedeva alla richiesta di A.A. di consumare con lui altri rapporti sessuali completi, compiuti senza preliminari. Il "ricatto" dell'imputato, in particolare, consisteva nel dirle che, fino a quando egli, in un anno-un anno e mezzo, non avesse recuperato il rapporto con la moglie, rapporto a suo dire rovinato a causa sua, ella avrebbe dovuto "stare con lui", altrimenti egli avrebbe divulgato le foto dei loro incontri intimi.

Nell'ottobre 2018, la B.B. si confidava con la cugina H.H., cui raccontò la situazione, mentre, tra il novembre e il dicembre 2018, essendo ormai ella molto dimagrita e soffrendo di insonnia, A.A., dicendole che in quella condizione lei non le "serviva", decise di portarla da un neuropsichiatria dell'ASL di (Omissis), il Dott. I.I., rimanendo presente al loro primo incontro, mentre al secondo, cui per volere del medico l'imputato non presenziò, la persona offesa potè raccontare tutto, scoppiando a piangere, al che il Dott. I.I. le consigliò di parlare con la madre e con l'ex marito e di denunciare A.A. ai Carabinieri, cosa questa che la donna all'epoca non fece, perchè in quel momento le minacce e gli atteggiamenti possessivi dell'imputato erano molto frequenti, tanto è vero che nel dicembre 2018 il ricorrente le aveva mandato, tramite WhatsApp, le foto che la ritraevano in pose intime, evidentemente come promemoria di quello che avrebbe potuto fare, diffondendo in giro queste immagini, nel caso in cui ella non avesse acconsentito ad avere rapporti sessuali con lui.

In seguito, il 23 febbraio 2019, dopo aver consumato in zona isolata un rapporto sessuale con le ormai consuete modalità, A.A. e la B.B., mentre tornavano da (Omissis), si imbattevano in un collega di lavoro di lei, D.D., persona di cui l'imputato era stato sempre stato geloso, tanto è vero che il ricorrente, convinto che la persona offesa avesse un appuntamento con lui, lo costrinse a chiamarlo per telefono e a farlo fermare con l'auto vicino a loro.

E, quando ciò avvenne, A.A. disse a D.D.: "me l'aggia appena firnut e chiavà", al che il collega della enunciante, che già aveva notato nei mesi precedenti la B.B. sul lavoro triste e poco lucida, rispose: "ma che è questa schifezza", decidendo di scortarla sino a casa.

Rendendosi conto che A.A. l'aveva ugualmente seguita, la denunciante a quel punto si recò presso la ludoteca dell'ex marito E.E., cui raccontò tutto: vi fu poi anche un confronto tra l'imputato e E.E., cui il primo non ebbe remore a dire che la sua ex moglie doveva assecondare i suoi voleri per almeno un anno, perchè gli aveva rovinato il matrimonio, aggiungendo che la B.B. avrebbe dovuto anche restituirgli i regali che le aveva fatto.

A tal proposito, la denunciante non ha negato di aver ricevuto varie elargizioni da parte di A.A., sia sotto forma di denaro che di regali anche importanti, precisando tuttavia che la maggior parte delle stesse risaliva al periodo in cui il rapporto tra i due andava ancora bene. Intanto, esausta da quella situazione, la B.B. decideva di raccontare tutto a sua madre e, il 2 marzo 2019, sporgeva denuncia nei confronti di A.A., ma questi, non essendo al corrente evidentemente dell'iniziativa della donna, iniziò a tempestarla di chiamate e messaggi anche durante la permanenza della stessa in Caserma, come confermato dal mar. L.L., che invitò la denunciante a bloccare il numero dell'uomo per poter proseguire la verbalizzazione.

Il giorno dopo la denuncia l'imputato, vista la mancata risposta della B.B. alle sue chiamate e ai suoi messaggi, contattò la donna da un'utenza formalmente intestata alla moglie, informandola che, o tramite WhatsApp, o mediante Facebook o tramite Instagram, aveva inviato le "famose" foto sia al suo ex marito, sia al collega D.D., sia alla sua parrucchiera, oltre che alla baby-sitter, alle animatrici che lavoravano presso la ludoteca dell'ex marito, a suo cugina e al marito della cugina; quello stesso giorno, A.A. si presentava a casa della B.B., che si trovava lì con il suo ex marito e la madre, iniziando a bussare insistentemente e a urlare che non se ne sarebbe andato da lì se la donna non avesse sbloccato la sua utenza, al che la denunciante fu costretta a chiamare i Carabinieri, ma nemmeno dopo il loro intervento il ricorrente si placò, tanto è vero che andò da un fotografo lì vicino a far sviluppare le fotografie. Da quel momento, A.A. iniziò anche a chiedere insistentemente la restituzione dei soldi e dei regali che le aveva fatto in precedenza, tramite messaggi dal contenuto offensivo e minatorio.

Stante la frequenza dei comportamenti intimidatori dell'uomo, la B.B., costretta a fare molte assenze sul lavoro, iniziò a essere scortata o dall'ex marito o da D.D., anche perchè l'imputato aveva cominciato a pedinarla ovunque, recandosi o casa o, quando ci andava, sul luogo di lavoro; ciò avvenne in particolare l'8 aprile 2019, allorquando l'imputato le inviò una foto della sua auto parcheggiata per dimostrarle che era lì vicino, accompagnandola con la didascalia: "ovunque stai e con chiunque stai lo vengo e mi prendo l'iphone, fai la brava".

In quei giorni, A.A. non esitò a inviare le immagini erotiche della B.B. anche ai dirigenti dell'Azienda Napoletana Mobilità presso cui la donna lavorava, accompagnando le foto con la didascalia: "questa è una vostra dipendente, è una escort, si chiama B.B.". Le condotte persecutorie dell'imputato, che costrinsero la B.B. a presentare una pluralità di querele tra il marzo e l'aprile 2019, ebbero fine solo il 29 aprile 2019, allorquando A.A., nell'ambito di questo procedimento, venne sottoposto a misura cautelare personale, avendo nel frattempo la denunciante avviato un percorso psico-terapeutico presso l'Asl di (Omissis).

1.1 Orbene, compiuta questa necessaria premessa ricostruttiva della vicenda storica sottesa alle imputazioni per cui si è proceduto, deve osservarsi che la narrazione di B.B. (sentita ai sensi dell'art. 210 c.p.p., in quanto all'epoca indagata in procedimento connesso a seguito di denunce sporte dallo stesso imputato) è stata ragionevolmente ritenuta credibile dai giudici di merito, i quali, senza operare alcuno stravolgimento sostanziale dei canoni di valutazione della prova dichiarativa, hanno operato le proprie conformi valutazioni sul punto nel solco dei criteri ermeneutici elaborati da tempo dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, Rv. 275312, Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Rv. 265104 e Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, Rv. 248016), essendo stato più volte precisato in proposito che, in tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nè assistere ogni segmento della narrazione.

Tale verifica risulta adeguatamente compiuta nel caso di specie, atteso che sia il Tribunale e che la Corte di appello hanno innanzitutto rimarcato la precisione e la coerenza del racconto della denunciante, la quale ha ripercorso in maniera lucida tutte le fasi del suo rapporto con A.A., senza incorrere in contraddizioni e senza sottacere talune circostanze di cui ella stessa non andava fiera, come ad esempio l'iniziativa di controllare tramite investigatore privato i movimenti del ricorrente, o la simulazione della gravidanza per allontanare l'imputato.

Al riguardo, tuttavia, i giudici di merito hanno evidenziato, in maniera non illogica, come tali iniziative non proprio limpide della denunciante dovevano essere lette alla luce della fase in cui sono state assunte, spiegandosi l'incarico all'investigatore privato con l'esigenza della donna di convincersi della reciprocità del sentimento, nel periodo in cui il suo era forte, mentre la simulazione della gravidanza (e poi del finto aborto) si collocano nella fase in cui il rapporto si era ormai logorato e la B.B. cercava di uscire da quella relazione in cui non credeva più.

Il racconto della persona offesa, oltre a rivelarsi spontaneo e privo di finalità calunniatorie, ha trovato in ogni significativi e molteplici riscontri esterni che ne hanno confermato l'attendibilità. In tal senso sono stati richiamati sia dal Tribunale che dalla Corte di appello i contributi dichiarativi provenienti sia dagli operatori di P.G. (in particolare i testi L.L. e M.M.) che, in momenti diversi, hanno chiaramente percepito il disagio emotivo della B.B. e i contestuali atteggiamenti minatori di A.A., sia dalle persone che hanno ricevuto le prime confidenze della denunciante, a partire dalla cugina N.N., anch'essa destinataria delle foto intime, al Dott. I.I., il quale ha confermato gli incontri avuti con la B.B., le pesanti confidenze ricevute e, in generale, l'atteggiamento morboso dell'imputato. Particolarmente pregnanti, nell'ottica della conferma delle dichiarazioni della persona offesa, si sono poi rivelate le convergenti dichiarazioni sia dell'ex marito della B.B., E.E., il quale ha avuto contezza non solo delle confidenze dell'ex moglie, ma anche dell'approccio possessivo dell'imputato, da cui ha ricevuto le foto della ex consorte in atteggiamenti intimi, sia del collega di lavoro della B.B., D.D., anch'egli destinatario delle foto scabrose e testimone diretto non solo della condizione di profondo malessere della collega, ma anche dell'incontro del febbraio 2019, in cui A.A., in modo volgare, le fece sapere di aver appena avuto un rapporto sessuale con la B.B., che avrebbe dovuto assecondare i suoi voleri.

Di non secondaria importanza si sono poi rivelate, tra le altre, le deposizioni sia di O.O., responsabile del contenzioso lavoro dell'Azienda Napoletana Mobilità, la quale ha confermato l'arrivo in Azienda della mail contenente immagini erotiche e insinuazioni riguardanti l'operatrice B.B., che, con modalità riservate, fu messa a conoscenza del fatto, sia di P.P., parrucchiera in (Omissis), che ricevette dal profilo Facebook di tale Q.Q., riconducibile all'imputato, le immagini ritraenti la sua cliente B.B. in pose intime.

Alla stregua di tali elementi probatori, peraltro corroborati dagli accertamenti tecnici svolti sui dispositivi informatici e sui cellulari in sequestro, il racconto della persona offesa, già di per sè intrinsecamente credibile, è stato ritenuto adeguatamente riscontrato dai giudici di merito.

1.2. Orbene, in quanto sorretta da argomentazioni razionali e coerenti con le fonti dimostrative acquisite, la valutazione sulla credibilità della persona offesa resiste alle censure difensive con cui, peraltro attraverso una visione parcellizzata dell'ampio materiale probatorio acquisito, si sollecita sostanzialmente una diversa lettura delle prove raccolte, operazione questa che non è tuttavia consentita in sede di legittimità, dovendosi richiamare in proposito la consolidata affermazione della giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.

1.3. Parimenti immune da censure è la qualificazione giuridica dei fatti.

Ed invero, premesso che le doglianze difensive sono riferite solo ai delitti di cui ai capi A e B e non anche al delitto di atti persecutori di cui al capo C, occorre premettere, quanto al delitto di violenza sessuale, che il Tribunale ha circoscritto il giudizio di colpevolezza dell'imputato a soli due episodi di quelli riferiti dalla B.B., in quanto sufficientemente circostanziati nel tempo e nello Spa zio: il primo di questi è quello verificatosi nel settembre-ottobre 2018 dopo la simulazione della gravidanza, allorquando l'imputato chiese alla persona offesa un incontro, avvenuto nel vicoletto sito fuori dalla palestra, in occasione del quale A.A. le aveva detto di aver rivelato alla moglie la loro relazione e lei gli aveva risposto di non avere intenzione di stare con lui, al che egli l'aveva minacciata di divulgare le immagini dei loro incontri intimi, per cui ella si vide costretta a cedere alla sua richiesta di avere rapporti sessuali, che a dire del ricorrente avrebbero dovuto avere luogo finchè egli non si fosse riconciliato con la moglie.

Il secondo episodio per cui vi è stata condanna è quello del 23 febbraio 2019, allorquando A.A. portò la B.B. in una zona isolata e la costrinse a consumare un rapporto sessuale, terminato il quale i due incrociarono il collega della vittima, D.D., cui l'imputato disse inequivocabilmente di aver appena consumato con la denunciante un rapporto sessuale, precisando che la donna doveva fare quello che diceva lui, incontro questo che mise in allarme D.D., che in quel periodo aveva notato che la sua collega era particolarmente affranta.

Rispetto a tali episodi, enucleati tra i tanti riferiti, sia pure in maniera più generica, dalla persona offesa, i giudici di merito hanno sottolineato la sussistenza non solo dell'elemento oggettivo, stante la costrizione al compimento di atti sessuali non voluti, ma anche dell'elemento psicologico, avendo la B.B. palesato ampiamente il suo dissenso, per cui alcun consenso putativo era ravvisabile, avuto riguardo alla chiara evoluzione negativa che, quantomeno dopo l'estate del 2018, aveva conosciuto il legame tra imputato e persona offesa.

1.3.1. In ordine al delitto di tentata estorsione, è stato evidenziato dal Tribunale e dalla Corte di appello che A.A., a partire dal 3 marzo 2019, irritato dal fatto che la B.B. aveva smesso di rispondere ai suoi messaggi e alle insistenti richieste di incontro, intensificò le sue minacce di divulgare le immagini dei loro incontri intimi, non più per costringerla a consumare altri rapporti sessuali, ma per ottenere un ingiusto profitto con altrui danno, ossia per ottenere la restituzione dell'equivalente delle somme di denaro elargite alla donna durante la loro relazione, nonchè del cellulare che le aveva regalato nel gennaio 2019, risultando palese, nelle telefonate e dei messaggi di questo periodo, destinati non solo alla vittima, ma anche a persone a lei vicine, il risvolto patrimoniale delle richieste avanzate ("voglio i soldi...vengo e mi prendo il mio iphone...devi dare i soldi che ti sei presa...il tempo sta per finire").

Tali richieste erano del tutto illegittime, non potendo vantare l'imputato alcun diritto alla restituzione dei beni da lui liberamente donati nel corso del rapporto sentimentale con la B.B., venendo in rilievo una mera obbligazione naturale, per cui, avuto riguardo all'intensità e alla frequenza delle condotte minatorie poste in essere dal ricorrente e alla consapevolezza dell'imputato di far valere una pretesa non tutelabile, con modalità chiaramente intimidatorie (essendo l'imputato passato dalle parole ai fatti divulgando in giro le immagini dei suoi amplessi con la vittima), correttamente è stato ritenuto configurabile nel caso di specie non il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che presuppone l'esistenza di una pretesa legittima, ma il delitto di tentata estorsione, delitto qualificato ragionevolmente in maniera unitaria, senza la contestata continuazione interna, atteso che le pesanti minacce proferite dal ricorrente tra i mesi di marzo e aprile 2019 miravano all'unico scopo di ottenere dalla vittima non più i rapporti sessuali, ma la restituzione dei regali, scopo quest'ultimo non raggiunto da A.A. solo perchè la B.B., che nel frattempo si era rivolta alle forze dell'ordine, ha avuto in tal caso la forza di opporsi, anche perchè intanto supportata da persone a lei vicine.

In tal senso, l'impostazione dei giudici di merito risulta coerente con la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 2, n. 3498 del 30/11/2018, dep. 2019, Rv. 274897), secondo cui integra il delitto di estorsione la condotta violenta o minatoria finalizzata a ottenere l'adempimento di un'obbligazione naturale, per la quale non è data azione davanti al giudice.

Di qui l'infondatezza delle doglianze in punto di responsabilità.

2. Alla medesima conclusione deve pervenirsi rispetto al quinto motivo.

La Corte di appello, infatti, ha legittimamente ritenuto (pag. 25 della sentenza impugnata) non indispensabile l'approfondimento istruttorio sollecitato dalla difesa, sottolineando l'irrilevanza sia dell'acquisizione dei dati identificativi della sim card contenuta nel dispositivo GPS consegnato dalla moglie agli inquirenti, sia dell'acquisizione dei tabulati telefonici delle utenze in uso alla persona offesa e all'imputato, al fine di ricostruire gli spostamenti degli stessi la mattina del 23 febbraio 2019, trattandosi invero di attività meramente esplorative e comunque di circostanze non dirimenti alla luce dell'ampio ed esauriente corredo probatorio delineatosi nel giudizio di primo grado, dovendosi al riguardo ribadire il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenza n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266820), secondo cui la rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorchè il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti, il che comporta che il giudice di appello ha l'obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo (cfr. Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, Rv. 259893).

3. Il sesto motivo è invece inammissibile.

La difesa, infatti, si duole del riconoscimento delle aggravanti di cui all'art. 609 ter c.p., n. 5 quater e art. 612 bis c.p., comma 2, senza considerare che in realtà per tali aggravanti non vi è stato alcun aumento sanzionatorio: il primo giudice, infatti, nella determinazione del trattamento sanzionatorio (pag. 90-91 della sentenza di primo grado), non ha tenuto conto delle due aggravanti, ritenute sussistenti, ma di fatto non applicate nel computo della pena. Ciò posto, la Corte di appello ha riconosciuto le attenuanti generiche e, pur affermandone la equivalenza con "la contestata aggravante" (senza precisare quale), di fatto ha operato un giudizio di prevalenze delle attenuanti ex art. 62 bis c.p., posto che, nel partire dalla pena base di anni 6 di reclusione (mitigando in ciò la determinazione del Tribunale che era partito da 7 anni), ha ridotto poi la pena ad anni 5 di reclusione "previa concessione delle attenuanti generiche" (pag. 26 della sentenza gravata), apportando su tale pena gli aumenti per la continuazione interna al reato di violenza sessuale ed esterna rispetto ai reati di tentata estorsione e atti persecutori, così pervenendo alla pena finale di anni 6 di reclusione, per cui deve ribadirsi che il riconoscimento delle due aggravanti censurate dalla difesa è rimasto di fatto privo di ripercussioni concrete nella sfera giuridica del soggetto condannato.

A ciò deve solo aggiungersi, per completezza, che la doglianza è comunque manifestamente infondata nel merito, posto che, come già evidenziato dal Tribunale, quello instauratosi tra l'imputato e la persona offesa è stato un legame che, per quanto connotato da reciproche diffidenze e dall'evoluzione violenta impressa da A.A., è comunque qualificabile come una relazione affettiva, sia per la sua durata non breve, sia per l'intensità dei rapporti intrapresi. Anche nel merito, dunque, la censura difensiva appare manifestamente infondata.

4. In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell'interesse di A.A. deve essere rigettato, con onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento, nonchè di provvedere alla rifusione in favore della parte civile delle spese del grado, liquidate in Euro 3.500, oltre accessori di legge.

5. Rimane da affrontare, a questo punto, il ricorso del Procuratore generale, con cui è stato censurato il riconoscimento delle attenuanti generiche operato dalla Corte territoriale, che per l'effetto ha ridotto la pena irrogata a A.A. da 9 a 6 anni di reclusione.

Orbene, la valutazione compiuta dai giudici di secondo grado appare immune da censure, essendo stata valorizzata nella sentenza impugnata, in maniera non irragionevole, la condizione di incensurato dell'imputato che, pur non essendo di per sè dirimente ai fini della concessione delle attenuanti generiche, secondo quanto previsto dall'art. 62 bis c.p., comma 3, assume comunque una sua valenza positiva, se rapportata, come avvenuto nel caso di specie, a una valutazione globale del fatto, tale da richiedere un adeguamento della pena.

Orbene, a fronte di un percorso argomentativo privo di profili di illogicità, devono escludersi i vizi motivazionali dedotti dal Procuratore ricorrente, dovendosi ribadire in tal senso il consolidato orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269), secondo cui, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione, come appunto avvenuto nel caso di specie. Ne consegue che anche il ricorso del Procuratore generale deve essere disatteso.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Procuratore generale.

Rigetta il ricorso di A.A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.100, oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2023
Avv. Antonino Sugamele

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