Attivisti dell'Ass. d'Arma Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale e dall'Associazione Nazionale Arditi d'Italia, organizzazinoe una manifestazione con comportamenti usuali del disciolto partito fascista, nell'ambito di una pubblica manifestazione commemorativa dei caduti della "rivoluzione fascista", coincidente con l'anniversario della fondazione dei "fasci di combattimento".
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-11-2021) 03-02-2022, n. 3806
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IASILLO Adriano - Presidente -
Dott. LIUNI Teresa - Consigliere -
Dott. BINENTI Roberto - Consigliere -
Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere -
Dott. APRILE Stefano - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
B.D., nato a (OMISSIS);
D.T.L., nato a (OMISSIS);
D.G., nato a (OMISSIS);
S.F., nato a (OMISSIS);
M.P., nato a (OMISSIS);
SO.ST.TO., nato a (OMISSIS);
BE.NO., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 13/02/2020 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
fissata la trattazione con il rito scritto;
udita la relazione svolta dal Consigliere STEFANO APRILE;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ZACCO Franca, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso di D. e l'inammissibilità degli altri ricorsi;
lette le conclusioni scritte dell'avv. Andrea BENZI, difensore degli imputati D.T.L., D.G., S.F., M.P., SO.ST.TO. e BE.NO., che ha concluso per l'accoglimento dei ricorsi.
Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'appello di Milano, in totale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 13 giugno 2019, affermava la responsabilità di B.D., D.T.L., D.G., S.F., M.P., SO.St.To., BE.No., E.A.B.P., G.M. e ST.Ba. per il concorso nel delitto aggravato di compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista (art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, D.L. 26 aprile 1993, n. 122, art. 2, convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1993, n. 205; fatto commesso in data 23 marzo 2017) nell'ambito di una pubblica manifestazione commemorativa dei caduti della "rivoluzione fascista", coincidente con l'anniversario della fondazione dei "fasci di combattimento", iniziativa promossa dall'Associazione d'Arma Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale e dall'Associazione Nazionale Arditi d'Italia, condannandoli alla pena di un mese e dieci giorni di reclusione ed Euro 220,00 di multa, ciascuno, e prosciogliendo SA.Ar. per morte del reo.
1.1. Premesso che la sentenza è divenuta irrevocabile nei confronti di SA., G., ST. ed E., la materiale ricostruzione dei fatti risulta dal giudizio di fatto, sul punto concorde, formulato da entrambi i giudici di merito.
In data (OMISSIS) l'Unione Nazionale Combattenti R.S.I. e l'Associazione Nazionale Arditi d'Italia organizzavano una manifestazione (di cui informavano il Questore, il quale concedeva l'autorizzazione) presso il Cimitero Monumentale di (OMISSIS) per commemorare i cd "protomartiri della rivoluzione fascista".
I manifestanti (50 circa) si riunivano direttamente - senza cioè far precedere il raduno da un corteo o altra sfilata, così come prescritto nel provvedimento di polizia - dinnanzi al monumento funebre (Sacrario dei Martiri fascisti edificato nel Cimitero Monumentale di (OMISSIS) nel 1925) ed uno di essi, poi individuato nel ricorrente BE., procedeva alla lettura dei nomi dei caduti, cui seguiva la risposta del "presente" con conseguente "saluto romano" da parte degli altri manifestanti, identificati negli odierni ricorrenti, oltre agli altri imputati per i quali la sentenza di secondo grado è già divenuta irrevocabile.
1.2. La divergenza emersa tra il primo e il secondo grado ha per oggetto la rilevanza penale della condotta, cioè la questione di diritto se il rituale sopra descritto sia qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice dianzi richiamata (L. n. 205 del 1993, art. 2) ovvero se ricada piuttosto sotto la L. n. 645 del 1952, art. 4, (legge Scelba): a tali questioni il Tribunale rispondeva in modo articolato, ma escludendo in ogni caso il pericolo concreto che la condotta posta in essere abbia avuto capacità di diffusione di idee fasciste o in altro modo discriminatorie; la Corte d'appello affermava, invece, la rilevanza penale del fatto e la correttezza della qualificazione giuridica compiuta dal pubblico ministero L. n. 205 del 1993, ex art. 2, evidenziando la concreta pericolosità della condotta in ragione dell'esposizione degli emblemi che riportano il simbolo della Repubblica Sociale Italiana.
2. Ricorrono B.D., D.T.L., D.G., S.F., M.P., SO.St.To., BE.No., a mezzo dei rispettivi difensori.
3. B.D., con ricorso a firma dell'avv. Gabriele Leccisi, denuncia:
3.1. - la violazione di legge, in riferimento alla L. n. 205 del 1993, art. 2, art. 15 c.p., L. n. 645 del 1952, art. 5, L. n. 654 del 1975, art. 3, art. 21 Cost., e art. 10 CEDU. Il ricorso sottolinea che "alle numerose sentenze di assoluzioni pronunciate nel merito ora si aggiunge l'arbitraria interpretazione della Corte di appello che, appoggiandosi alla sentenza della Corte di Cass., Sez. 1, n. 1475 del 7 maggio 1999, che definisce la norma contenuta nella legge Mancino avente carattere sussidiario rispetto alla legge Scelba, si avvale della decisione della Cass., Sez. 1 del 27 marzo 2019 n. 315 pronunciata nei confronti dello scrivente (sic) per ritenere che il saluto fascista o saluto romano costituisca manifestazione gestuale che rimanda all'ideologia fascista e ai valori di discriminazione raziale e di intolleranza sanzionati dall'art. 2 della legge Mancino".
Tuttavia, ad avviso del ricorrente "la tesi della Cassazione si colloca in relazione ad una vicenda completamente diversa rispetto a quella qui in contestazione in quanto il B. ha partecipato ad una commemorazione di eventi storici antecedenti all'emanazione delle leggi raziali da parte del regime fascista".
Prosegue il ricorso: "Se il reato contestato appartiene alla categoria dei reati di pericolo astratto senza alcuna considerazione del luogo, dei modi e dei tempi in cui la gestualità si manifesta, vuoi dire che stiamo trasformando la nostra democrazia in una tirannide di pochi in nome della delega loro concessa dalla maggioranza. Questo è il vero significato che si vuole far prevalere con l'interpretazione secondo la quale la differenza tra le due leggi consisterebbe nell'applicazione della legge Scelba allorchè concreto sarebbe il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista attraverso gestualità capaci di impressionare l'opinione pubblica mentre la Mancino vieterebbe sempre e comunque riti e gestualità capaci di richiamare forme di esaltazioni razziste secondo una formula che definirebbe razzista per antonomasia il regime fascista senza alcun rispetto dei contrastanti giudizi in materia da parte degli storici".
Il ricorso sottolinea: "Il concetto di sussidiarietà della norma rispetto ad un'altra, nel caso in esame maschera soltanto una svolta autoritaria, una presa di posizione della magistratura, che rischia, probabilmente senza rendersene conto, di perdere la propria autonomia e indipendenza, ponendosi, di fatto, al servizio di una minoranza che con delega legittima può governare abusando della discrezionalità che norme oggettivamente liberticide offrono loro per reprimere, come nel caso in esame, il diritto alla commemorazione di morti secondo determinati riti e senza che ciò sia pubblicizzato nei confronti di un pubblico indifferenziato ovvero preordinato ad esaltazione del vecchio regime".
Si stigmatizza, inoltre, che: "Appare di tutta evidenza che nel caso in esame sia stato fatto un "processo alle intenzioni" dal momento che non sussistono elementi che consentano di ritenere, al di là di ogni ragionevole dubbio, provata la volontà d'incitamento da parte dell'agente. Pertanto, la norma può trovare applicazione sia che si consideri o meno che abbia una "funzione preventiva"".
3.2. - la violazione di legge, in riferimento alla L. n. 205 del 1993, art. 2, artt. 4 e 5 Convenzione di New York e art. 10 CEDU. Ad avviso del ricorrente: "il legislatore non ha inteso vietare qualunque manifestazione del pensiero, bensì quelle usuali del disciolto partito fascista e pertanto quelle che possano determinare il pericolo di ricostituzione in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute (Corte Cost. del 1958 n. 74 e n. 15 del 1973 - art. 21 Cost., ed art. 10 CEDU). Appare di tutta evidenza che anche la succitata normativa non sia stata correttamente interpretata in quanto non si è tenuto presente il carattere commemorativo della cerimonia che si è svolta con modalità pacifiche ed ordinate, in assenza di armi, inni o canti evocativi o di comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti nei confronti dei presenti".
3.3. - il vizio della motivazione, anche sotto l'angolo visuale del travisamento della prova, con riferimento alla testimonianza dell'Isp. C.;
3.4. - la violazione della legge processuale, per inosservanza delle norme sull'inutilizzabilità degli atti, con riferimento ad una informativa della DIGOS non inserita nel fascicolo dibattimentale, ma sulla quale il giudice di appello ha fondato la decisione, e l'omessa motivazione circa la negata concessione dei doppi benefici per un novantaquattrenne.
4. D.T.L., D.G., S.F., M.P., SO.St.To. e BE.No., con unico cumulativo ricorso a firma dell'avv. Andrea Benzi, denunciano:
4.1. - la violazione di legge, in riferimento alla L. n. 205 del 1993, art. 2, art. 15 c.p., L. n. 645 del 1952, art. 5, L. n. 654 del 1975, art. 3.
La difesa "ritiene di avvalorare il principio giuridico secondo il quale tra la L. n. 205 del 1993, art. 2, e la L. n. 645 del 1952, art. 5, non sussiste un rapporto riassumibile in quello tra norma generale e norma speciale (desumendo ciò dalle loro differenti fonti sovranazionali e costituzionali, oltre che dei rispettivi contesti storici di genesi normativa). Conseguentemente il c.d. saluto romano, astrattamente disciplinato dall'art. 5 della legge Scelba come manifestazione usuale del disciolto partito fascista, può acquistare rilevanza ex art. 2 della Legge Mancino solamente laddove posto in essere in accertati contesti e ambienti che lo rendano inequivocabilmente indicativo della finalità di propaganda razzista o di incitamento all'odio razziale, (circostanza desumibile da elementi ulteriori rispetto alla pubblicità della condotta e al mero richiamo all'ideologia fascista)".
Ad avviso della difesa: "In diritto, la sentenza ha sostanzialmente statuito che la L. n. 205 del 1993, art. 2, costituisce una norma generale rispetto alla L. n. 645 del 1952, art. 5, avvallando la formulazione giuridica del capo d'imputazione... Le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista costituiscono oggetto della specifica disciplina dettata dalla L. 20 giugno 1952, n. 645, (Norme di attuazione della XII Disposizione transitoria e finale comma 1, della Costituzione). Non appaiono dubbi sul fatto che il legislatore, forte anche di una riserva di legge costituzionale, abbia voluto disciplinare esclusivamente entro la cornice normativa della c.d. Legge Scelba le fattispecie penali inerenti al divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista".
Del resto, secondo la difesa "del tutto differenti e distinti sono, invece, la sistematica collocazione normativa ed i riferimenti sovranazionali della c.d. Legge Mancino. Partendo da quest'ultimo profilo, la fonte sovranazionale della L. n. 205 del 1993, è costituita dalla Convenzione internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale firmata a New York nel 1966. La stessa datazione permette agevolmente di non riferire la disciplina in essa contenuta al fenomeno storico del fascismo... La Convenzione del 1966 nel nostro ordinamento ha trovato attuazione in due momenti legislativi: la Legge 654 del 1975 (c.d. Reale) e il D.L. n. 122 del 1993, convertito mediante la Legge 205 del 1993. Pur ritenendo che questa distinzione di contesti storici e di fonti nazionali e sovranazionali possa già apparire idonea a sostenere la tesi della non possibile interferenza delle due norme rispetto alla medesima condotta, vi sono anzitutto due elementi di diritto positivo ai quali conferire rilevanza. La L. 22 maggio 1975 n. 152, art. 7, (Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico) ha modificato la L. n. 645 del 1952, art. 1, inserendo lo svolgimento della propaganda razzista nell'elenco delle condotte mediante la quali possono essere perseguite le finalità antidemocratiche del partito fascista. Il D.L. n. 122 del 1993, all'art. 4 modifica l'art. 4 della Legge Scelba (Apologia del fascismo) prevedendo un'aggravante, ovvero "se il fatto riguarda idee o metodi razzisti": anche in questo caso quindi l'esaltazione di idee o metodi razzisti è solo uno dei modi che la legge definisce come integrante l'apologia del fascismo. Considerati questi interventi legislativi, possiamo razionalmente affermare che condotte di riorganizzazione del partito fascista e di apologia del fascismo possono realizzarsi anche, ma non necessariamente mediante (rispettivamente) lo svolgimento della propaganda razzista e l'esaltazione di idee e metodi razzisti. Lo stesso utilizzo della locuzione "oppure" all'art. 1, e la previsione di una distinta aggravante all'art. 4 sono inequivocabilmente indicativi di ciò. Sul punto già la giurisprudenza in materia immediatamente successiva alla norma del 1975 aveva ben recepito questa distinzione ed escluso ogni possibile interferenza (cfr. Cfr. Cass. Pen. Sez. II n. 3929 02.12.1977- 08.04.1978, Venezia)".
Proseguono i ricorsi: "Così inquadrate le due normative nella loro collocazione storica e sistematica, è da disattendere il ragionamento secondo il quale l'ambito oggettivo dell'art. 5 della Legge Scelba e quello dell'art. 2 della Legge Mancino costituirebbero una materia regolata da più leggi penali con conseguente applicabilità dei criteri dell'art. 15 c.p.. Tale ragionamento potrebbe farsi solo rispetto agli articoli della Legge Scelba modificati nel 1975 e nel 1993 di cui si è dato atto sopra, ma non rispetto ad articoli che non sono stati oggetto di tali interventi. La stessa lettura della Relazione al DDL n. 2576 del 27.04.1993 (Conversione in legge del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) non offre alcun elemento per giungere ad una diversa, ancorchè più punitiva, interpretazione. La condotta sanzionata è quella "(...) dei soggetti che, in base a comportamenti obiettivamente rilevanti, si ritenga facciano parte delle suindicate associazioni, movimenti o gruppi (quelli indicati dalla L. n. 654 del 1975, art. 3) ovvero che in pubbliche riunioni, quali ad esempio gli spettacoli pubblici o le competizioni sportive, ostentino simboli ed emblemi tradizionalmente in uso a formazioni con scopi dello stesso tipo (...)". Il partito fascista e le sue manifestazioni usuali non sono menzionati nè dal testo della legge, nè dalla relazione parlamentare alla stessa. Improprio è parso il costante richiamo fatto nella sentenza qui impugnata a precedenti giurisprudenziali tratti da altre sentenze rispetto alle quali, una lettura che vada oltre la mera massima, non sembra avvalorare l'interpretazione della norma fatta propria dalla Corte d'Appello di Milano. Dalle stesse si evincerebbe semmai, come si argomenterà infra, che il compimento di manifestazioni esteriori del disciolto partito fascista può assumere rilevanza sotto il profilo della L. n. 205 del 1993, art. 2, piuttosto che ai fini della L. n. 654 del 1952, art. 5, laddove il contesto e l'ambiente (termini utilizzati da questa Suprema Corte) in cui si inserisce la manifestazione incriminata rendano quest'ultima inequivocabilmente diretta a propagandare un'idea razzista e discriminatoria; quid pluris per nulla deducibile dal solo richiamo gestuale all'ideologia fascista in luogo pubblico... Altrettanto inesatto in questa prospettiva può dirsi il riferimento a Cass. Pen. Sez. I 27.03.2019 n. 21409 (Leccisi). In detta pronuncia la descrizione del contesto, dell'ambiente e del requisito dell'inequivocabilità della caratterizzazione del gesto, si fondavano sulla collocazione della condotta dell'imputato nell'ambito di una seduta di un consiglio comunale avente ad oggetto tematiche relative alla presenza di cittadini extracomunitari sul territorio. Una lettura attenta di queste pronunce permette di dedurre che il compimento di manifestazioni esteriori del disciolto partito fascista può eventualmente assumere rilevanza sotto il profilo della L. n. 205 del 1993, art. 2, piuttosto che ai fini della L. n. 654 del 1952, art. 5, solo laddove il contesto e l'ambiente in cui si inserisce la manifestazione la rendano inequivocabilmente volta a propagandare un'idea razzista e discriminatoria. Requisiti questi ultimi oggetto di accertamento giudiziale e non desumibili da una presunzione ex lege".
La difesa prosegue: "Codesta Suprema Corte (cfr. Cass. Pen. 07.05.199902.06.1999 n. 1475 Freda, citata a pp. 4-5 della sentenza) ha affermato il principio secondo cui qualora una condotta di propaganda razzista accertata in fatto e in diritto non sia inseribile nella fattispecie di riorganizzazione del partito fascista per assenza di elementi specializzanti della fattispecie tipica la stessa condotta può acquistare rilevanza penale (in luogo di quella attuativa della XII Disp. Att.) come "incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi". Il richiamo operato dalla Corte d'Appello risulta indebito in quanto la sentenza cosiddetta "Freda" presenta differenze strutturali rispetto a quanto oggetto del presente procedimento. In primis, l'analisi da essa dispiegata, riguarda i rapporti tra l'art. 1 della Legge Scelba e l'art. 1 della Legge Mancino (e non tra le rispettive condotte di manifestazioni usuali). In secondo luogo, non meno importante è il profilo del materiale probatorio sul quale si era fondato l'accertamento dei fatti nei gradi precedenti dell'allora giudizio. Vi era stato un minuzioso accertamento documentale effettuato dai giudici di merito che puntualmente aveva riscontrato l'attività di propaganda razzista, tuttavia slegata da altri elementi tipici della riorganizzazione del disciolto partito fascista".
La difesa soggiunge: "Decisamente più congruente al caso di specie dovrebbe pertanto considerarsi il richiamo che s'intende qui fare alla giurisprudenza di legittimità, che ha definito la qualificazione giuridica delle condotte di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista quali il c.d. saluto romano e la c.d. chiamata del "presente" L. n. 645 del 1952, ex art. 5, e l'irrilevanza penale delle medesime, pur astrattamente così definibili ma inserite in contesti, quali quello commemorativo dei defunti, contesti giudicati inidonei a cagionare la lesione del bene giuridico protetto (cfr. Cass. Pen. Sez. 1 del 02.03.2016 n. 11038: "Deve escludersi la rilevanza penale di manifestazioni quali il saluto romano, la chiamata del presente e l'uso di croci celtiche che, pur essendo certamente di carattere fascista, sono state poste in essere esclusivamente come omaggio ai defunti commemorati, non avendo alcuna finalità di restaurazione fascista")".
4.2. - la violazione di legge, in riferimento agli artt. 4 e 5, Convenzione di New York per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, L. n. 85 del 2006, art. 13, art. 10 CEDU e circa l'asserita non applicabilità alla L. n. 205 del 1993, art. 2, dei principi della giurisprudenza costituzionale in tema del reato di manifestazioni fasciste (Corte Cost. 06.12.1958 n. 74).
La difesa denuncia che: "i vigenti principi costituzionali sui quali il Giudice delle leggi è intervenuto con la sentenza n. 74 del 1958 appaiono oggi rafforzati (e non certamente attenuati o superati) dall'adesione dell'Italia alla CEDU e dalla giurisprudenza Europea in tema di libertà d'espressione, nonchè dallo stesso dato testuale della fonte sovranazionale e Europea della normativa antirazzista e dall'intervento del legislatore in tema di reati d'opinione nel 2006. Ciò implica che anche alla L. n. 205 del 1993, art. 2, debbano essere applicati i principi che la Corte Costituzionale ha enunciato in merito alla L. n. 654 del 1952, art. 5, a fortiori nelle ipotesi (come quella del caso di specie) in cui un'identica condotta di manifestazione usuale (quali il c.d. saluto romano e la "chiamata del presente") appare potersi regolare da entrambe le fattispecie, seppure sotto l'asserita prospettiva della tutela di un differente bene giuridico. Per assumere rilevanza penale, la condotta dovrebbe essere compiuta in condizioni tali da favorire la costituzione e l'attività di organizzazioni razziste, anche solo in uno stato prodromico e di antecedenza causale. Si devono al contrario riferire all'ambito della libertà d'espressione e dell'irrilevanza penale manifestazioni usuali che, seppure astrattamente per percezione soggettiva diffusa o per filoni storiografici più o meno dominanti, possono essere percepite come razziste, ma che si rivelano inidonee a ledere il bene giuridico protetto dalla norma. Questo proprio perchè la libertà di manifestazione del pensiero "vale non solo per le idee accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti, ma soprattutto per quelle che offendono, indignano o turbano lo Stato o una qualsiasi parte della popolazione". Una differente interpretazione, quale quella fatta propria dalla Corte d'Appello di Milano in sentenza, porrebbe una problematica relativa al bilanciamento tra le esigenze di prevenzione generale a tutela dell'ordine pubblico e la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero in netta soccombenza di quest'ultima, questione che in tema di reati d'opinione appariva già superata e risolta nei primi decenni di vita dell'ordinamento giuridico repubblicano".
Segnala la difesa: "l'art. 4 la Convenzione di New York, imponendo agli Stati di sanzionare penalmente la diffusione di idee razziste prescrive un vincolo ben preciso, cioè quello di perseguire l'obiettivo: "tenendo conto a tale scopo dei principi formulati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e dei diritti chiaramente enunciati dall'art. 5 della Convenzione". Tra questi ultimi è espressamente menzionato alla lett. D n. VIII dell'art. 5 il "diritto alla libertà di opinione e di espressione". La problematicità dell'adempimento di tale obbligo nel rispetto dei diritti internazionalmente riconosciuti emerse già nel 1968, allorchè venne adottata in ambito comunitario la Risoluzione (68) 30 dei delegati dei Ministri Europei (31.10.1968), con specificazione dell'obbligo a carico degli Stati membri della Comunità Europea di attuare il dettato della Convenzione di New York nel rispetto delle norme CEDU. La ratio della Risoluzione risiedeva nel timore per cui un'applicazione (legislativa e giurisprudenziale) imprecisata della criminalizzazione della diffusione di idee razziste avrebbe potuto provocare un'indebita ingerenza diritto alla libertà di manifestazione del pensiero. In questa direzione il legislatore nazionale si è espresso riformando la L. n. 654 del 1975, art. 3, ex L. n. 85 del 2006, art. 13, (Modifiche al codice penale in materia di reati d'opinione) con la sostituzione del termine "diffonde" con quello di "propaganda". Lungi dal rappresentare una mera modifica formale, significando invece una scelta legislativa che investe l'intera normativa, la riforma dei reati d'opinione ha ristretto la fattispecie originaria: la nuova formulazione implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi intorno all'idea divulgata verso un vasto pubblico. Già prima facie, nell'affermare la penale responsabilità degli imputati asserendo che le loro condotte si sarebbero concretizzate in "(...) gesti inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità e sull'odio razziale ed etnico" (laddove invece la condotta punibile consisterebbe semmai nella propaganda) la sentenza rivela l'inosservanza dei predetti riferimenti normativi (a partire dalla stessa riforma del 2006). Si richiama a riguardo la casistica giurisprudenziale della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, esposta nella memoria depositata dallo scrivente in data 06.02.2020 al paragrafo 3 che s'intende integralmente qui trascritto. La Corte EDU ha censurato il ragionamento secondo il quale mere esigenze di prevenzione generale possano giustificare la limitazione della libertà d'espressione in relazione a opinioni favorevoli ad esperienze totalitarie, in assenza di ulteriori elementi indicativi di una lesione diretta alle persone".
4.3. - la violazione della legge processuale, per inosservanza delle norme sull'inutilizzabilità degli atti, con riferimento ad una informativa della DIGOS non inserita nel fascicolo dibattimentale.
La difesa stigmatizza: "La rilevanza che l'utilizzo di questo contenuto a fini deliberativi ha assunto nella sentenza della Corte d'Appello è manifestata dal seguente passaggio. Emergerebbe dall'asserita "informativa DIGOS" (sempre a p. 6 della sentenza) che "(...) entrambe le associazioni, attraverso i rispettivi partecipanti, avevano esposto davanti al Santuario i propri stendardi e labari, esteriorizzando la propria identità"; si deduce da ciò che le condotte degli imputati si sarebbero così svolte in un contesto "(...) di esposizione di simboli, emblemi e richiami alla Repubblica Sociale Italiana". La deduzione della Corte d'Appello contraddice esplicitamente le risultanze dell'esame testimoniale dell'Ispettore C.G., il quale escludeva (a specifica domanda dello scrivente) l'esposizione di simbologie del partito fascista durante la commemorazione (e gli emblemi identici o similari a quelli della RSI indubbiamente rientrano nella predetta categoria simbolica). L'elemento dell'esposizione di simbologie legate alla Repubblica Sociale Italiana emergerebbe così unicamente dal riferimento ad un'informativa della polizia giudiziaria non assunta in dibattimento. Pur contraddicendosi inequivocabilmente con le risultanze istruttorie dibattimentali, il contenuto di una fonte di prova non acquisita al fascicolo del dibattimento ha costituito il fondamento del diverso convincimento rispetto a quello espresso nel giudizio di primo grado, per giungere alla differente conclusione sul profilo commemorativo dei defunti della manifestazione del 23.03.2017. Medesimo o analogo contenuto, infatti, non si riscontrano nelle deposizioni testimoniali e nelle produzioni documentali delle udienze di primo grado. Sia dal punto di vista del quid che del quantum (considerato lo spazio che il tema dell'esposizione dei simboli e degli emblemi della RSI occupa nel testo della sentenza) il provvedimento impugnato risulta inficiato dall'inosservanza della regola secondo la quale il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente inserite nel fascicolo del dibattimento".
4.4. - la "manifesta illogicità della motivazione (c.d. travisamento della prova) con riferimento all'esame testimoniale".
La difesa stigmatizza che: "La Corte d'Appello di Milano, nel motivare circa la l'idoneità antigiuridica del contesto e dell'ambiente in cui furono poste in essere le condotte ha effettuato un travisamento della prova con riferimento all'esame testimoniale svolto all'udienza del 29.03.2020. Si rinvia a riguardo alla consultazione della trascrizione della deposizione del testimone C.G. ud. 29.03.2019. Lo scrivente si riferisce alla parte della sentenza in cui si asserisce che la condotta degli imputati si sarebbe svolta in un contesto di "esposizione di simboli, emblemi e richiami alla Repubblica Sociale Italiana" e che quindi gli imputati avrebbero espresso un'adesione alla "deportazione di ebrei e di altre persone discriminate per le loro idee politiche o per la loro etnia"(p. 6). Non s'intende proporre una diversa valutazione nel merito, ma rilevare una palese discrepanza tra il significato oggettivo delle risultanze probatorie e gli elementi ai quali ha fatto ricorso la Corte d'Appello. La deducibilità del predetto vizio nel ricorso de qua si rivela ammissibile in quanto non si è in presenza di una c.d. doppia conforme, ma di una sentenza di riforma della pronuncia del Tribunale".
Specifica la difesa che: "In sede di esame testimoniale, l'Ispettore C.G. affermava che durante la commemorazione erano stati esposti esclusivamente gli emblemi delle associazioni organizzatrici, e non simboli fascisti e nazionalsocialisti (e quindi neppure di emblemi della Repubblica Sociale Italiana); al contempo escludeva che durante la commemorazione fossero stati effettuati discorsi di carattere razzista, rimanendo le esternazioni dei partecipanti (e quindi anche degli imputati) nell'ambito della commemorazione dei defunti".
4.5. - la "mancanza della motivazione, delle omesse menzioni e valutazioni delle argomentazioni contenute nella memoria ex art. 121 c.p.p., depositata in data 06.06.2020 e nella sentenza assolutoria di primo grado".
Stigmatizza la difesa che: "A fronte di un appello presentato dalla Procura della Repubblica (assai dettagliato nei riferimenti normativi, giurisprudenziali e fattuali) avverso la sentenza di primo grado, il non avere nemmeno dato atto del deposito della memoria ex art. 121 c.p.p., potrebbe di per sè già ritenersi sufficiente ai fini della fondatezza del motivo che si illustra. La memoria depositata dallo scrivente non ha costituto una mera riproduzione delle argomentazioni esposte con analogo atto processuale in primo grado", ma si è diffusa sulle argomentazioni riproposte con i primi motivi del presente ricorso.
Secondo la difesa, del resto, "La sentenza della Corte d'Appello di Milano risulta carente dal punto di vista motivazionale anche rispetto alla sentenza assolutoria del Tribunale di Milano: nell'affermazione della penale rilevanza delle condotte, i giudici d'appello non hanno nemmeno fatto menzione di quelli che sarebbero gli errori interpretativi e di applicazione effettuati dal Giudice di primo grado. In nessun passaggio della motivazione (pp. 4-6 della sentenza impugnata) si contestano le tesi statuite nel grado precedente (pp. 4-21 sentenza del Tribunale di Milano)".
Motivi della decisione
1. I ricorsi, che presentano tratti di inammissibilità, sono nel complesso infondati.
1.1. Va premesso che, per le ragioni di seguito esposte, risulta inammissibile la doglianza relativa all'omesso esame della memoria difensiva, posto che la Corte di secondo grado, nel complesso e articolato esame dei vari aspetti di merito e di diritto che sottostanno alla decisione assunta, ha invece dato risposta alle argomentazioni sviluppate dalla difesa mentre il ricorso non deduce specificamente la decisività delle argomentazioni.
Va, in proposito, ribadito il costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale " In tema di ricorso per cassazione, l'omesso esame, da parte del giudice di merito, di una memoria difensiva può essere dedotto in sede di legittimità come vizio di motivazione purchè, in virtù del dovere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, si rappresenti puntualmente la concreta idoneità scardinante dei temi della memoria pretermessa rispetto alla pronunzia avversata, evidenziando il collegamento tra le difese della memoria e gli specifici profili di carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità argomentativa della sentenza impugnata" (Sez. 5, n. 17798 del 22/03/2019, C., Rv. 276766).
1.2. Va, del resto, segnalato che la deduzione concernente la mancanza della motivazione rafforzata è generica, come meglio si vedrà al momento di analizzare l'inquadramento normativo e le valutazioni di merito compiuti dal giudice di appello.
2. Tanto premesso, è opportuno effettuare una ricognizione normativa delle disposizioni applicabili nel caso di specie.
2.1. Il D.L. 26 aprile 1993, n. 122, art. 2, convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, portante "Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa", stabilisce, sotto la rubrica "Disposizioni di prevenzione", che: "1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila (...1".
2.2. Per parte sua, il richiamato L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, (cd. Legge Mancino), portante "Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966", prevedeva, nel testo vigente all'epoca del fatto (dal 13 marzo 2016 al 11 dicembre 2017), che: "1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell'attuazione della disposizione dell'art. 4 della convenzione, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 Euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 2. (comma soppresso dalla L. 25 giugno 1993, n. 205 che ha convertito il D.L. 26 aprile 1993, n. 122). 3. E' vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. 3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli artt. 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della L. 12 luglio 1999, n. 232".
La disposizione normativa suddetta è ora trasfusa, in forza del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, nell'art. 604 bis c.p. il quale stabilisce, sotto la rubrica "Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa", che: "1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 Euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 2. E' vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. 3. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull'apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli artt. 6, 7 e 8, dello statuto della Corte penale internazionale".
2.3. Se ne deduce che il richiamo operato dalla L. n. 205 del 1993, art. 2, alle "organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3", deve essere inteso come riferito ad "ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi", nonchè a quelli che "si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull'apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli artt. 6, 7 e 8, dello statuto della Corte penale internazionale".
E', dunque, punito dalla L. n. 205 del 1993, art. 2, chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni aventi le indicate caratteristiche e finalità.
2.4. D'altra parte, la L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 5, (c.d. Legge Scelba), portante "Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma 1) della Costituzione", sotto la rubrica "Manifestazioni fasciste", stabilisce che: "1. Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da duecentomila a cinquecentomila Lire. 2. Il giudice, nel pronunciare la condanna, può disporre la privazione dei diritti previsti nell'art. 28, comma 2, numeri 1 e 2, del codice penale per un periodo di cinque anni".
3. Poste tali premesse normative, è utile fare una breve rassegna della giurisprudenza di legittimità allo scopo di individuare i caratteri fondamentali delle fattispecie di cui si è detto.
3.1. La giurisprudenza di legittimità che si è occupata dell'art. 5 della legge Scelba ha sempre affermato che "il delitto di cui alla L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 5, (come modificato dalla L. 22 maggio 1975, n. 152, art. 11) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista in sè, attese le libertà garantite dall'art. 21 Cost., ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi" (Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016 - dep. 2017, P.M. in proc. Goglio, Rv. 269753).
Nella specie, relativa ad una cerimonia commemorativa di alcuni defunti militanti nella R.S.I. ed in formazioni politiche di destra in successive fasi storiche, la Corte di cassazione ha ritenuto immune da censure la sentenza di merito che aveva escluso che l'impiego del "saluto romano", l'intonazione della "chiamata del presente" e l'utilizzo della croce celtica avessero presentato alcuna concreta idoneità offensiva nel quadro di un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma incriminatrice, essendo rivolte esclusivamente ai defunti in segno di omaggio ed umana pietà.
Analogamente, si è chiarito che "non è la manifestazione esteriore in quanto tale ad essere oggetto di incriminazione, bensì il suo venire in essere in condizioni di "pubblicità" tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione" del partito fascista; Sez. 1, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826, ha, infatti, precisato che "il "saluto romano" e l'intonazione del coro "presente" durante una manifestazione integrano il reato di cui alla L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 5, (come modificato dalla L. 22 maggio 1975, n. 152, art. 11) per la connotazione di pubblicità che qualifica tali espressioni esteriori, evocative del disciolto partito fascista, contrassegnandone l'idoneità lesiva per l'ordinamento democratico ed i valori ad esso sottesi".
Nella specie, relativa ad un incontro in memoria delle vittime delle Foibe, la Corte di cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del L. n. 645 del 1952, citato art. 5, per la perdurante attualità dell'esigenza di tutela delle istituzioni democratiche, atta a legittimare limitazioni alla libertà di espressione, secondo quanto previsto anche dall'art. 10 della Convenzione Europea per i Diritti Umani.
La necessaria concretezza del pericolo, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute le manifestazioni esteriori, e dell'attentato alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi caratterizzato dal pericolo di ricostituzione dell'ideologia fascista, costituiscono dei punti fermi nell'evoluzione giurisprudenziale di legittimità che ha recentemente confermato la decisione del Tribunale del riesame che, nel ritenere legittimo il sequestro di alcuni beni, aveva ravvisato il fumus delicti L. 20 giugno 1952, n. 645, ex art. 5, nelle manifestazioni esteriori di carattere fascista, nell'organizzazione di una squadra di militanti, nella predisposizione di armi improprie, nell'uso della violenza contro avversari politici, nonchè nella esplicita rivendicazione del predominio territoriale ed ideologico, quale metodo di lotta politica" (Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526).
3.2. Anche la giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sulla condotta, ora sanzionata dall'art. 604 bis c.p., di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero di istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, ha sempre posto in luce che "ai fini della configurabilità del reato previsto dalla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, comma 1, lett. a), prima parte, e successive modifiche, la "propaganda di idee" consiste nella divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico e a raccogliere adesioni; l'"odio razziale o etnico" è integrato da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, e non da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione; la "discriminazione per motivi razziali" è quella fondata sulla qualità personale del soggetto, e non - invece - sui suoi comportamenti" (Sez. 5, n. 32862 del 07/05/2019, Borghezio, Rv. 276857).
Nella fattispecie, la Corte di legittimità ha riqualificato ai sensi della disposizione indicata la condotta del ricorrente, parlamentare Europeo che, nel contesto di una trasmissione radiofonica, aveva commentato l'incontro avvenuto tra il Presidente della Camera dei Deputati ed esponenti delle comunità Sinti e Rom, attribuendo a questi ultimi "una certa cultura tecnologica dello scassinare gli alloggi della gente onesta" e una tendenziale avversione per il lavoro, e giustificando come "un riflesso pavloviano dettato da un'esperienza secolare" l'istinto "di mettere mano alla tasca del portafogli per evitare che te lo portino via".
Del resto, si è da sempre sottolineato che l'interpretazione degli elementi normativi presenti nella disposizione dianzi citata ("propaganda di idee"; "odio razziale o etnico"; "discriminazione per motivi razziali") deve essere compiuta dal giudice tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, e da valorizzare perciò l'esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto.
In una recente decisione, la Corte di legittimità ha ritenuto estranea alla previsione incriminatrice l'attività di diffusione, nel corso di una competizione elettorale, di un volantino che recava la scritta "basta usurai-basta stranieri" e raffigurava soggetti appartenenti a plurime etnie, razze e nazionalità nel compimento di attività delittuose o contrarie agli interessi economici italiani (Sez. 3, n. 36906 del 23/06/2015, Salmè, Rv. 264376), evidenziando il contesto di competizione politica in cui si è svolto il fatto e il difetto di concrete finalità discriminatorie, ravvisando piuttosto una critica economica, seppure formulata in termini rozzi.
Si è, viceversa, ritenuto "configurabile il reato di propaganda di idee discriminatorie, previsto dalla L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. a), nell'affissione di manifesti sui muri della città del seguente tenore: "No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari"" (Sez. 4, n. 41819 del 10/07/2009, Bragantini, Rv. 245168), per la concreta capacità, alla luce dell'acceso contesto in cui si sono svolti i fatti, di influenzare i terzi.
3.3. Anche quando si è occupata della L. n. 205 del 1993, art. 2, la giurisprudenza di legittimità, pur avendo sancito la idoneità simbolica del "saluto romano o fascista", ha tenuto a chiarire la rilevanza del contesto ambientale, di particolare risonanza mediatica e politica, in cui si sono svolti i fatti, per dedurne la sussistenza del pericolo che l'espressione simbolica utilizzata possa essere percepita come manifestazione od ostentazione simbolica ed emblematica dell'organizzazione vietata.
Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 - 01, ha, in proposito, chiarito che "il cd. "saluto romano" o "saluto fascista" (nella specie accompagnato dall'espressione "presenti e ne siamo fieri") è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205, (recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2, del citato decreto-legge".
Analogamente, ferma la rilevanza simbolica del "saluto romano o fascista", la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato una condotta idonea L. n. 205 del 1993, ex art. 2, nel contesto di aggressione e violenza, costituito dal fitto lancio di oggetti all'indirizzo delle forze di polizia che impedivano l'illecito accesso allo stadio di un gruppo di facinorosi nel quale l'imputato ostentava il saluto a mano alzata.
Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792, è, in proposito, così massimata: "Il cosiddetto "saluto romano" o "saluto fascista" è una manifestazione esteriore propria o usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205, (misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) e inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2, del citato decreto-legge".
4. E' giunto il momento di chiarire, anche per rispondere alle doglianze difensive sul punto, i rapporti tra le condotte di manifestazione esteriore previste dalla L. n. 205 del 1993, art. 2, (chiunque, in pubbliche riunioni, compie manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni... aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, nonchè a quelli che si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull'apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra) e dalla L. n. 645 del 1952, art. 5, ("chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste").
4.1. Una volta chiarito che, per entrambe le fattispecie, è necessaria una concreta idoneità della condotta, è utile precisare che sussiste una ipotesi di specialità ex art. 15 c.p., della seconda fattispecie (L. n. 645 del 1952, art. 5) rispetto alla prima (L. n. 205 del 1993, art. 2).
Va anzitutto evidenziato che il legislatore, quando è intervenuto nel 1993 (D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1993, n. 205) ha chiaramente mostrato di volere introdurre nell'ordinamento la L. n. 205 del 1993, art. 2, mantenendo espressamente in vigore le previsioni della legge Scelba, il cui testo normativo è stato contestualmente emendato e aggiornato alle nuove esigenze punitive, ferma restando la apparente omogeneità delle condotte sanzionate, incentrate sul compimento di atti esteriori simbolici proprie dei gruppi che propugnano le idee vietate.
Infatti, la L. n. 205 del 1993, art. 4, ha espressamente sostituito la L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 4, comma 2, prevedendo che "Alla stessa pena di cui al comma 1, soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni", così ulteriormente omogeneizzando le condotte vietate dalla legge Scelba con quella della legge Mancino (L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3), espressamente richiamate dalla L. n. 205 del 1993.
Ciò, si badi, non è frutto di un intervento legislativo casuale, essendo ben chiara la volontà di emendare entrambi i testi normativi che sono stati mantenuti in vigore, quanto piuttosto l'acquisita consapevolezza che, alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la condotta vietata dalla legge Scelba richiede altresì uno specifico rischio che, invece, non è richiesto dalla fattispecie generale di cui alla L. n. 205 del 1993, art. 2: la L. n. 152 del 1975, art. 7, in piena adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulla L. n. 645 del 1952, ha infatti modificato l'art. 1 della legge Scelba, stabilendo che " Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma 1) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista", così ricomprendendo i gruppi o movimenti fascisti tra quelli caratterizzati da discriminazione, razzismo e violenza politica che rientrano nella previsione delle legge Mancino.
Tale elemento specializzante determina, appunto, il rapporto ex art. 15 c.p., che lega le due norme.
La L. n. 205 del 1993, art. 2, è, in effetti, la fattispecie generale che sanziona le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, dei simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano idee discriminatorie; le medesime condotte sono sanzionate dalla L. n. 645 del 1952, art. 5, ma soltanto allorquando si ravvisa quel particolare pericolo concreto che attiene alla riorganizzazione del disciolto partito fascista.
Del resto, in disparte l'elemento specializzante previsto dalla legge Scelba, le due fattispecie sono identiche dal punto di vista sanzionatorio, come pure sono del tutto sovrapponibili le condotte incriminate.
Ciò che rileva, per selezionare le fattispecie alla luce del principio di specialità di cui all'art. 15 c.p., è la "intenzione del legislatore, il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 Cost., bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare.... La ratio della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta ad attuare la disposizione XII della Costituzione. Il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione" (Corte costituzionale, sentenza n. 74 del 1958).
Con questa interpretazione, coerente a quella che la Corte costituzionale ha dato nella sentenza n. 1 del 1957 in merito all'art. 4 della legge Scelba, la L. n. 645 del 1952, art. 5, si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, nè contravviene al principio dell'art. 21 Cost., comma 1.
Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicchè quando questi requisiti sussistono l'ipotesi di cui all'art. 5, legge citata è costituzionalmente legittima.
Questo principio è, d'altra parte, fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sè ogni singola disposizione di cui si compone la L. 20 giugno 1952, n. 645.
La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque, a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba, riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre, nel caso della L. n. 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicchè, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione della L. n. 203 del 1993, art. 2.
Non sfuggono, a un attento esame da parte dell'interprete, le ragioni storico-politiche che costituiscono la grundnorm della legge Scelba la quale, anticipando i tempi della successiva evoluzione normativa anche di livello internazionale, ha criminalizzato quelle condotte volte a costituire, sostenere, propagandare ed emulare le organizzazioni fasciste e naziste, tant'è che il precipitato storico di dette ideologie, nonchè la scelta repressiva compiuta dall'ordinamento italiano, ha fatto da substrato conoscitivo per individuare quegli elementi che hanno spinto la comunità internazionale (Convenzione di New York del 7 marzo 1966) a criminalizzare la creazione, lo sviluppo, il sostegno, la diffusione, la propaganda, etc., delle organizzazioni caratterizzate da una ideologia discriminatoria, razzista, negazionista, etc., ancorchè non ancora storicamente individuate.
L'elemento selettivo introdotto dalla legge Scelba è costituito dal pericolo di ricostituzione del partito fascista e delle sue idee, pericolo che, come si dirà, è accompagnato dalla presunzione di pericolosità delle organizzazioni fasciste e naziste che consente al giudice di operare una semplificazione del ragionamento probatorio.
4.2. Così chiarito che la manifestazione esteriore osteggiata dalla L. n. 645 del 1952, art. 5, attenta allo Stato democratico attraverso il pericolo di ricostituzione del partito fascista, realizzato attraverso la pubblica diffusione delle sue idee e simboli, è utile sottolineare che la legge Scelba introduce altresì una presunzione iuris et de iure di illiceità di dette idee che trova un duplice fondamento: il primo, di natura normativa super-primaria, nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione); il secondo, di origine storico-sociale, che si poggia sulla condivisa esperienza della disumanità dell'ideologia fascista e nazista, consapevolezza storica che è stata acquisita dalla comunità internazionale nel corso di oltre venti anni di regime tirannico e di guerra mondiale e che è stata specificamente sofferta dal popolo italiano e perciò trasfusa in un divieto espresso contenuto nella Carta costituzionale.
Sotto questo angolo visuale, viceversa, la L. n. 205 del 1993, rimette all'accertamento del giudice la verifica della natura discriminatoria, razzista, negazionista, etc. delle organizzazioni vietate dalla L. n. 654 del 1975.
La presunzione introdotta dalla legge Scelba porta con sè, quindi, un elemento di specialità (la natura fascista e nazista delle ideologie) che opera anche a livello di semplificazione probatoria, essendo indubbio che le ideologie fasciste e naziste, osteggiate dalla legge Scelba e da essa nominativamente individuate come vietate, rientrano ex se, per i contenuti ideologici e le azioni materiali poste in essere nel periodo storico cui si è fatto riferimento, tra quelle indicate dalla L. n. 654 del 1975 (ora art. 604 bis c.p.); viceversa, per le organizzazioni "non nominate" sarà compito del giudice di verificare e dimostrare che sono ispirate da ideologie discriminatorie, razziste, etc., e che compiono o invitano a compiere gli atti illeciti indicati dalla norma.
Ne consegue che allorquando il giudice penale sia chiamato ad applicare l'art. 2 L. n. 203 del 1993, con riguardo a un gruppo od organizzazione che si richiama alle ideologie fasciste o naziste, sarà esonerato dalla necessità di procedere all'accertamento della natura vietata dell'organizzazione investigata - al quale deve invece dedicarsi alla luce delle disposizioni della legge Mancino che non evocano nominativamente le organizzazioni vietate - potendosi affidare alla presunzione legale introdotta dalla legge Scelba.
5. Le conclusioni cui si è giunti consentono, anzitutto, di affermare che fu corretta la qualificazione normativa dei fatti addebitati agli imputati, essendo ai medesimi contestato di avere compiuto delle manifestazioni esteriori simboliche ed evocative del regime fascista, da qualificarsi alla stregua della L. n. 203 del 1993, art. 2, non essendo stata contestata l'idoneità a costituire un pericolo per la ricostituzione del disciolto partito fascista che avrebbe, piuttosto, configurato la violazione della L. n. 645 del 1952, art. 5.
La contestazione fa, appunto, riferimento al compimento di "manifestazioni usuali del disciolto partito fascista (rientrante tra le organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. n. 654 del 1975, art. 3), quali la "chiamata del presente" e il cd. "saluto romano"", così rendendo effettivo il richiamo descrittivo alle organizzazioni individuate dalla legge Mancino tra le quali rientrano, in ragione dell'anzidetta presunzione di illiceità, proprio le organizzazioni fasciste e naziste.
E', perciò, esatto il riferimento, contenuto nell'imputazione, alla circostanza che il partito fascista fa parte delle organizzazioni di cui alla L. n. 654 del 1975: la Costituzione, le norme primarie e la storia hanno sancito tale equiparazione che non può essere posta in discussione.
Infatti, in disparte la fondatezza storica della asserzione che associa il fascismo e il nazismo alle organizzazioni discriminatorie, razziste, etc., la "presunzione" di appartenenza del fascismo e del nazismo al tipo legale vietato è stata introdotta nominativamente dalla legge Scelba, promulgata in attuazione della previsione costituzionale concernente proprio il divieto di ricostituzione del partito fascista, sicchè opera la anzidetta presunzione di illiceità dei gruppi che si ispirano all'ideologia fascista e nazista.
Risulta, del resto, puntualmente illustrata nell'imputazione la corrispondenza al tipo legale cui si riferisce la L. n. 654 del 1975, richiamata dalla L. n. 205 del 1993, art. 2, essendo specificamente indicata la natura vietata di tali gruppi di ideologia fascista.
6. Rileva, ora, verificare l'idoneità della condotta a determinare il pericolo di diffusione delle idee fasciste e perciò discriminatorie, razziste, negazioniste, etc., vietate dalla legge Mancino, in difetto della quale non è dato ravvisare la sussistenza del reato.
6.1. Va da subito chiarito che, contrariamente a quanto asserito nei ricorsi in merito all'ingresso nel fascicolo processuale della "informativa DIGOS" citata dal giudice di secondo grado a conforto della presenza degli stendardi associativi, risulta pacificamente anche dalla sentenza di primo grado - che cita in proposito la deposizione del teste e le immagini legittimamente acquisite agli atti - la circostanza che fossero presenti gli stendardi delle associazioni che hanno organizzato la cerimonia, dopo avere ottenuto la relativa autorizzazione di polizia. Va, quindi, superata la doglianza di inutilizzabilità formulata in modo non decisivo dai ricorsi poichè la prova deriva dall'istruttoria svolta nel contraddittorio (esame dei testimoni; filmati e fotografie acquisite) e non da un'informativa di polizia giudiziaria.
6.2. Tanto premesso, il giudice di primo grado aveva rilevato la carenza del concreto pericolo che il "saluto romano" e l'intonazione del coro "presente" durante la pubblica manifestazione fossero idonei a provocare adesioni o consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli al fascismo.
Secondo il giudice di primo grado, si è trattato di una silenziosa e modesta commemorazione posta in essere da circa cinquanta soggetti che si sono ritrovati, senza sfilare sulla pubblica via, al cospetto del sacrario dei caduti del 23 marzo 1919, che si trova edificato presso il Cimitero Monumentale di (OMISSIS), sotto l'egida dell'Associazione Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale e dall'Associazione Nazionale Arditi d'Italia, che non risultano illegali o illecite.
6.3. Per parte sua, il giudice di secondo grado, a fondamento del riconosciuto pericolo concreto, ha valorizzato il contesto della pubblica manifestazione che risulta caratterizzato, oltre che dai già evidenziati usi fascisti ("saluto romano" e risposta "presente"), dagli scopi statutari delle associazioni organizzatrici dell'evento ("documentare l'azione e i principi della Repubblica Sociale Italiana"; "ricordare alle nuove generazioni la verità storica sulla RSI e sulle sue FFAA") e dall'esposizione degli emblemi e stendardi delle medesime associazioni nei quali compare il richiamo alla Repubblica Sociale Italiana, desumendo da ciò, non solo la significativa adesione ai valori di quel regime, ma la concreta idoneità ad essere percepiti come manifestazione esteriore o simbolica di quelle organizzazioni ritenute responsabili della collaborazione con l'occupante tedesco, in piena condivisione con l'ideologia di questo, nella cattura e deportazione di ebrei e di altre persone discriminate per ragioni etniche o ideologiche.
Del resto, la Corte d'appello ha anche evidenziato in modo logico e coerente, che la pubblica e reiterata chiamata del "presente", alla quale tutti i cinquanta manifestanti rispondevano stentoreamente a voce alta e alzando il braccio nel saluto "romano", ha assunto caratteristiche tali da risultare idonea alla diffusione delle idee fasciste tra le persone che frequentavano il cimitero.
Anche l'occasione scelta per il raduno era stata specificamente individuata dagli organizzatori, alla luce del non contraddetto giudizio di fatto compiuto dalla Corte d'appello, per la pubblica e ostentata celebrazione dei "fasci di combattimento", primigenia organizzazione del movimento fascista che si è sviluppata e consolidata dando luogo al partito fascista; ciò in piena continuità, sia dal punto di vista soggettivo per quanto riguarda larga parte degli individui che hanno fatto parte delle organizzazioni in discorso, sia dal punto di vista oggettivo rispetto alle idee propugnate, sia nella prospettiva storica tenuto conto che le ultime propaggini del fascismo hanno, infine, dato luogo alla Repubblica di Salò che ha confermato e ulteriormente rafforzato, estremizzandolo fino alle più nocive conseguenze, il solido legame già da tempo instaurato con l'alleato nazista che aveva portato il Partito Nazionale Fascista ad abbracciare le idee razziste e discriminatorie sfociate, tra l'altro, nelle leggi razziali del 1938.
Gli apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici di secondo grado sono, del resto, incensurabili in questa sede poichè affatto illogici e aderenti alle non contestate risultanze processuali, tanto che neppure i ricorsi sviluppano censure specifiche sul punto.
Il giudice di secondo grado ha, del resto, soggiunto che l'imputato B. ha reso spontanee dichiarazioni in grado di appello con le quali ha affermato di avere fatto parte dell'esercito della R.S.I. e di non essersi pentito per nulla per ciò che aveva fatto, così palesando l'intento celebrativo e apologetico, condiviso da tutti i manifestanti, di quella che la storia ha giudicato la più fallimentare e orribile esperienza del XX secolo.
6.3. Il percorso logico del giudice di appello è dunque immune da vizi.
Sono stati evidenziati concreti elementi da cui inferire l'esistenza del concreto pericolo richiesto dalla fattispecie in esame.
La circostanza che esistano le due citate associazioni l'Associazione Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale; Associazione Nazionale Arditi d'Italia), le quali propugnano i valori dianzi richiamati, e che esse siano riconoscibili per mezzo degli stendardi che fanno anche richiamo alla Repubblica Sociale Italiana, costituiscono elementi non solo identitari di un gruppo di nostalgici, ma piuttosto l'espressione ostentata di ideologie vietate che sono intenzionalmente sbandierate allo scopo di diffonderle tra il pubblico.
Il giudice di secondo grado ha richiamato, a fondamento del contesto ritenuto idoneo a concretizzare il pericolo preso di mira dalla norma incriminatrice, la non commendevole vicenda storica della RSI, vicenda che, per espressa indicazione dei partecipanti e delle organizzazioni cui i medesimi fanno riferimento, è propria del contesto in cui si è svolta la cerimonia che intendeva onorare i "proto-martiri fascisti" e, in ideale continuità, quella della Repubblica di Salò, con ciò risultando palese non solo l'adesione dei singoli manifestanti all'ideologia fascista e nazista, ma il chiaro intento di porre in essere una condotta che fosse come tale percepibile da un pubblico indiscriminato cui veniva inviato un messaggio di continuità ideale, di eroismo e di presunta persecuzione, in patente contrasto con la verità storica.
Si deve, perciò, convenire con la Corte d'appello nel ritenere che gli odiosi concetti dianzi ricordati sono stati di fatto pubblicamente sostenuti e rafforzati sulla base della esposizione dello stendardo associativo che richiama, nel nome dell'associazione, la Repubblica Sociale Italiana, epigone del regime fascista, Stato fantoccio implementato con l'essenziale contributo del regime nazista per giustificare l'occupazione militare dell'alta Italia e le azioni violente in danno della popolazione civile e delle organizzazioni partigiane.
Sussistono, dunque, tutti quegli elementi di contesto che la giurisprudenza di legittimità richiede per fondare il concreto pericolo che gli usi fascisti ostentati nel corso della commemorazione ("saluto romano" e risposta "presente") assumano l'idoneità a favorire la diffusione dell'ideologia fascista e nazista o comunque fondata sulla superiorità o l'odio razziale o etnico.
7. Sono inammissibili e manifestamente infondate le doglianze sulla libertà di espressione.
7.1. E' anzitutto inammissibile, perchè generica e assertiva nonchè priva di qualunque specifica argomentazione, la censura secondo la quale i gesti usuali rientrerebbero nella libertà costituzionale di cui all'art. 21 Cost..
Il ricorso si limita a qualificare manifestazione del pensiero il gesto del "saluto romano", mentre la sentenza impugnata prende in esame un complesso di comportamenti, espressioni e simboli che ha giudicato convergenti nel costituire la condotta vietata, quando posta in essere pubblicamente e ostentatamente, sicchè risulta inammissibile per genericità e manifesta infondatezza la doglianza difensiva che non considera tali plurimi elementi di fatto.
7.2. D'altra parte, si è da tempo chiarito che "è manifestamente infondata la questione di costituzionalità della L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, (modificato dal D.L. n. 24 aprile 1993, n. 122, conv. con modd. in L. 25 giugno 1993, n. 205 nonchè dalla L. 24 febbraio 2006, n. 85, art. 13) laddove vieta la diffusione in qualsiasi modo di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale, per asserito contrasto con l'art. 21 Cost., in quanto la libertà di manifestazione del pensiero e quella di ricerca storica cessano quando travalicano in istigazione alla discriminazione ed alla violenza di tipo razzista" (Sez. 3, n. 37581 del 07/05/2008, Mereu, Rv. 241071).
La Corte di legittimità ha precisato che la libertà costituzionalmente garantita dall'art. 21 Cost., non ha valore assoluto, ma deve essere coordinata con altri valori costituzionali di pari rango, quali quelli fissati dall'art. 3 Cost., e dall'art. 117 Cost., comma 1.
Il ricorso si limita a richiamare la libertà costituzionale, senza confrontarsi con le specifiche argomentazioni sviluppate dal giudice di merito, alle quali si è fatto poco sopra ampio richiamo, circa il palese contrasto delle condotte poste in essere con i principi costituzionali di uguaglianza e rifiuto di qualunque forma di discriminazione e uso della violenza per l'affermazione delle proprie idee.
Nel bilanciamento delle libertà e dei principi costituzionali deve, infatti, riconoscersi sub-valenza alla libertà di espressione quando essa risulta, per le modalità e i contenuti espressi, in insanabile contrasto con i valori della convivenza democratica costituzionalmente tutelati in via primaria.
7.3. Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ha individuato alcune questioni centrali nell'ambito della riflessione sui reati di opinione, ammettendo, a determinate condizioni, la limitazione della libertà di espressione, tutelata dall'art. 10 della Convenzione.
Vi sono, infatti, precedenti giurisprudenziali della Corte EDU (sentenza Garaudy contro Francia del 1998; sentenza Peta Deutschland contro Germania dell'8 novembre 2012; sentenza della Grande Chambre nel caso Perinek c. Svizzera del 15 ottobre 2016) che hanno ritenuto non in contrasto con l'art. 10 della CEDU la sanzione imposta dagli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d'Europa all'espressione di opinioni che "mettono in discussione i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l'antisemitismo e sono tali da turbare gravemente l'ordine pubblico. Offendendo i diritti altrui, questi comportamenti sono incompatibili con la democrazia e con i diritti umani e i loro autori perseguono obiettivi, quali quelli vietati dall'art. 17 CEDU".
Pertanto, alla luce dell'interpretazione offerta dalla Corte EDU, le opinioni, le affermazioni e le ostentazioni di idee e scopi vietati dall'art. 17 della Convenzione non rientrano nella tutela dell'art. 10 CEDU, nella misura in cui offendono i valori fondamentali della Convenzione della giustizia e della pace espressi nel Preambolo, così come hanno correttamente evidenziato i giudici di secondo grado analizzando la condotta oggetto dell'imputazione.
Le contrarie asserzioni difensive sono perciò manifestamente infondate.
8. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2022
06-02-2022 15:27
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