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Sentenza

La violenza sessuale nella giurisprudenza della Corte di cassazione.-
La violenza sessuale nella giurisprudenza della Corte di cassazione.-
La nozione di atti sessuali
Gli atti sessuali compiuti con mezzi telematici
La condotta violenta
Gli atti compiuti nello svolgimento della professione sanitaria
La minaccia
Abuso di autorità
Induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica
La volontaria assunzione di alcool o di stupefacenti
Inganno e sostituzione di persona
La condotta omissiva
Elemento soggettivo del reato
Il rilievo della cultura di origine di chi agisce
Il tentativo
Le ipotesi di minore gravità
La violenza sessuale di gruppo
La procedibilità del reato

Premessa

L'art. 609-bis c.p., come è noto, prevede due fattispecie che si distinguono, sul piano oggettivo, a seconda che la realizzazione di atti sessuali sia l'effetto di un'attività costrittiva ovvero di una induzione. La costrizione deve essere compiuta mediante l'uso della violenza o della minaccia o con l'abuso di autorità; l'induzione deve essere determinata con l'abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto oppure traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Tra queste condotte e gli atti sessuali, compiuti o subiti, deve riscontrarsi un rapporto di causalità.

Nel 2018, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati sul sito istituzionale dell'Istat, le sentenze di condanna in cui il reato più grave è stata la violenza sessuale sono state 1.870, di cui 75 per violenza sessuale di gruppo, in aumento rispetto alle 1.697 del 2017. L'intervallo medio di tempo tra la data del commesso reato e la sentenza, nel primo grado, è stato di 32 e 46 mesi rispettivamente per la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo. Tra i condannati ben 220 hanno un'età compresa tra i 18 e i 24 anni

Nello stesso anno gli indagati per il reato di violenza sessuale sono stati 8605, mentre ulteriori 279 persone sono state sottoposte ad indagine per il reato di violenza sessuale di gruppo.

Gli autori delle violenze sono stati soprattutto maschi. Rispetto agli altri reati ricondotti dall'istituto di statistica alla macro categoria della "violenza di genere" (atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, percosse, lesioni, alcune ipotesi di omicidio), nei casi di violenza sessuale e violenza di gruppo diminuisce la quota degli italiani: in particolare, per la violenza sessuale si ha il 60% di autori italiani per i quali inizia l'azione penale e il 68,4% per i quali è predisposta l'archiviazione; per la violenza di gruppo si hanno rispettivamente i valori del 55,3% e 54,2%.

La nozione di atti sessuali

L'individuazione dell'area operativa della fattispecie penale di cui all'art. 609-bis c.p. presuppone la definizione degli "atti sessuali", oggetto materiale delle condotte di costrizione o di induzione. La giurisprudenza ha attribuito a tale formula un significato di sintesi comprendente una vasta tipologia di condotte in precedenza sussumibili nel reato di congiunzione carnale o in quello degli atti di libidine.

Secondo il principio consolidato, in particolare, per stabilire ciò che può considerarsi atto sessuale non è sufficiente fare riferimento alle parti anatomiche aggredite, ma occorre tenere conto, con un approccio interpretativo di tipo sintetico, dell'intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 8968/2019, dep. 2020, che ha qualificato "atto sessuale" l'azione del conducente di autolinee che, con un gesto repentino, ha leccato il collo di una passeggera mentre saliva nell'autobus; Cass. pen., Sez. III, n. 24683/2015, in una fattispecie in cui, invece, la Corte ha escluso che potesse qualificarsi "atto sessuale" la sodomizzazione di una donna con una chiave nel corso di un litigio, se si fosse accertato che tale condotta fosse stata compiuta non per soddisfare impulsi sessuali ma esclusivamente al fine di umiliare e punire la vittima). Così, il compimento da parte dell'imputato, che svolgeva attività di animatore presso una struttura in cui erano ospitati bambini e adolescenti, di giochi che implicavano un ripetuto coinvolgimento fisico non è stato ritenuto qualificabile solo per questo atto sessuale, essendo necessario verificare la direzione finalistica di tale condotta per accertare se il contatto corpore corpori fosse stato posto in essere per esclusive finalità ludiche o per soddisfare gli istinti sessuali (Cass. pen., Sez. III, n. 51582/2017).

Possono costituire una indebita intrusione fisica della sfera sessuale, pertanto, non solo i toccamenti delle zone genitali e quelli delle zone ritenute "erogene", ossia in grado di stimolare l'istinto sessuale secondo gli approdi conseguiti dalla scienza medica, psicologica ed antropologica-sociologica (Cass. pen., Sez. III, n. 37395/2004), ma anche il contatto con un distretto corporeo della vittima sessualmente indifferente, a condizione che la porzione del corpo che l'agente raggiunge sia connotata da valenza sessuale (Cass. pen., Sez. III, n. 38926/2018).

La durata del contatto, ai fini della configurabilità del reato, non assume particolare rilievo: è ritenuto atto sessuale pure un contatto corporeo fugace ed estemporaneo se pone in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale, che costituisce l'oggetto della tutela penale (Cass. pen., Sez. III, n. 7369/2006).

Alla stregua dei principi illustrati, pertanto, sono stati ricompresi nella nozione di atti sessuali il palpeggiamento dei glutei, anche se fugace o repentino (Cass. pen., Sez. III, n. 5515/2016, in una fattispecie in cui l'imputato, durante un controllo mediante etilometro, aveva palpeggiato il basso gluteo dell'agente di polizia municipale); gli abbracci se, nel contesto relazionale e culturale in cui è avvenuta, l'azione ha inciso sulla libertà sessuale della persona offesa (Cass. pen., Sez. III, n. 964/2014); il "succhiotto" - consistente in un livido causato dalla suzione con le labbra di una parte dell'epidermide o da un bacio molto aggressivo (Cass. pen., Sez. III, n. 47265/2016); lo "strusciamento" del pene contro il corpo della vittima (Cass. pen., Sez. III, n. 17382/2021).

Il bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l'azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 6158/2020; Cass. pen., Sez. III, n. 43423/2019 in una fattispecie in cui è stato ritenuto atto sessuale il bacio sulla guancia di un professore ad una alunna, dopo aver provato a farlo sulla bocca). Va qualificato come "atto sessuale", invece, il bacio sulla bocca, anche se sia limitato al semplice contatto delle labbra, potendosi detta connotazione escludere solo in presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l'atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato, nella tradizione russa, come segno di saluto (Cass. pen., Sez. III, n. 2201/2019, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che il bacio, pure nel corso di un rapporto sessuale a pagamento, integra il reato di violenza sessuale qualora tale modalità di esecuzione del rapporto fuoriesca dalle attività a cui la donna ha prestato il consenso, potendo ritenersi che tale condotta incida sulla libertà sessuale della vittima).

È stato ritenuto che è atto sessuale sia il contatto fisico con una zona del corpo, sia quello simulato, in quanto atto parimenti invasivo dell'altrui sfera sessuale (Cass. pen., Sez. III, n. 51083/2017, in un caso in cui l'imputato, dopo aver fatto sdraiare e dopo aver denudato la vittima, pur in assenza di un contatto fisico diretto con le zone erogene di quest'ultima, le aveva eiaculato sull'addome).

La nozione di "atti sessuali", d'altra parte, implica necessariamente il coinvolgimento della corporeità sessuale del soggetto passivo. Il reato, quindi, è stato ritenuto integrato in una fattispecie in cui l'imputato, per eccitarsi, aveva costretto la moglie a toccare il figlio, ponendosi, rispetto a tale scena, come una sorta "di regista" (Cass. pen., Sez. III, n. 10220/2021) o ancora in relazione a una condotta di auto-erotismo dell'imputato non rimasta entro una dimensione esclusivamente individuale e soggettiva dell'autore, ma che aveva coinvolto anche la dimensione corporea della vittima, colpita sulla maglietta dal liquido seminale (Cass. pen., Sez. III, n. 17382/2021). Al contrario, è stata esclusa la sussistenza del delitto nell'ipotesi di atti di esibizionismo, di autoerotismo in presenza di terzi costretti ad assistervi o di "voyeurismo" che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non coinvolgono la corporeità sessuale del soggetto passivo, nemmeno in termini di tentativo (Cass. pen., Sez. III, n. 33045/2020).

Gli atti sessuali compiuti con mezzi telematici

Il necessario coinvolgimento della corporeità sessuale del soggetto passivo è ritenuto sussistente da parte della giurisprudenza anche nel caso in cui gli atti sessuali siano realizzati a distanza tramite mezzi telematici (e, dunque, senza diretto contatto fisico). Il reato è stato ritenuto integrato, per esempio, nel caso di atti di autoerotismo perfezionatisi mediante una comunicazione telematica per mezzo della quale il reo aveva indotto le vittime minorenni a compiere su sé stesse atti sessuali di masturbazione (Cass. pen., Sez. III, n. 25822/2013; Cass. pen., Sez. III, n. 41951/2019). Di recente, poi, è stato ritenuto integrare il reato di violenza sessuale la condotta consistente nell'invio di una serie di messaggi Whatsapp "allusivi e sessualmente espliciti" ad una minorenne, costringendola a scattarsi fotografie da inviare al soggetto agente, con la minaccia di pubblicare la chat su un altro social network (Cass. pen., Sez. III, n. 25266/2020).

La condotta violenta

La costrizione della vittima a subire o compiere atti sessuali può essere determinata, in primo luogo, con l'impiego della violenza. L'analisi dei repertori giurisprudenziale dimostra che, in relazione al delitto in esame, è stata recepita una nozione "allargata" di violenza, non limitata all'esplicazione di energia fisica direttamente verso la persona offesa, ma comprensiva di qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo costretto a compiere o subire atti sessuali contro la propria volontà

Non si richiede, in particolare, che la violenza sia di tale intensità da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che l'autodeterminazione risulti coartata e che, di conseguenza, il rapporto sessuale, non voluto dalla vittima, sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima stessa è ridotta (Cass. pen., Sez. III, n. 16609/2017), come nel caso nel caso in cui la persona offesa sia stata condotta con un pretesto dagli imputati in un luogo isolato senza conseguente possibilità di opporre una valida resistenza (Cass. pen., Sez. III, n. 6643/2010). Insomma, il contesto ambientale e relazionale può essere tale da rendere violento un atto che, in un'altra situazione, non necessariamente lo sarebbe.

L'indirizzo giurisprudenziale consolidato, seguendo la prospettiva interpretativa indicata, ravvisa la violenza di cui all'art. 609-bis c.p. anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente all'insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso (Cass. pen., Sez. III, n. 31737/2020; Cass. pen., Sez. III, n. 46170/2014): il compimento insidiosamente rapido dell'azione criminosa, pur non determinando una sopraffazione fisica, può valere a sorprendere la vittima, superando la sua contraria volontà (Cass. pen., Sez. III, n. 27273/2010). Così, il delitto in esame è stato ritenuto configurabile anche nel caso in cui un dentista aveva baciato una giovanissima paziente colta di sorpresa dall'estemporanea iniziativa del professionista di fronte alla quale la vittima si era trovata nell'impossibilità di reagire e di esprimere il suo dissenso (Cass. pen., Sez. III, n. 20712/2018).

Anzi, in giurisprudenza si sta affermando un indirizzo secondo cui, per integrare il reato, è sufficiente anche solo la mancanza di consenso, laddove la persona offesa non abbia avuto la possibilità di decidere se prestarlo o meno, come nel caso di atti compiuti nei confronti di vittima dormiente (Cass. pen., Sez. III, n. 22127/2017).

È ormai consolidato anche l'orientamento secondo cui, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il delitto di violenza sessuale la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga "in itinere" una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà (Cass. pen., Sez. III, n. 15010/2019).

Di recente, la Corte ha affermato che gli atti sessuali "non convenzionali" possono essere ritenuti leciti nella misura in cui si svolgano in base al consenso dei partecipanti che si protragga per tutta la loro durata (Cass. pen., Sez. III, n. 3158/2019).

Non è necessario, perché sia configurabile il reato, che l'uso della violenza (o la minaccia) sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall'inizio fino al congiungimento: è sufficiente, invece, che il rapporto sessuale non voluto dalla parte offesa sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta (Cass. pen., Sez. III, n. 19661/2021).

Secondo l'indirizzo consolidato, il dissenso della vittima costituisce un requisito implicito della fattispecie e, pertanto, il dubbio sulla sua sussistenza investe la configurabilità del fatto-reato e non la verifica della presenza di una causa di giustificazione (Cass. pen., Sez. III, n. 52835/2018).

Il mancato rifiuto ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, ad esempio, non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, con conseguente compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell'autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, ai congiungimenti carnali (Cass. pen., Sez. III, n. 36901/2020; Cass. pen., Sez. III, n. 1764/2020; Cass. pen., Sez. III, n. 36901/2020; Cass. pen., Sez. III, n. 17676/2018). In questi casi, la giurisprudenza ravvisa il dissenso implicito, per esempio, nel pianto della vittima (Cass. pen., Sez. III, n. 42118/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 16609/2017) o nel fatto che i coniugi già da tempo non avevano rapporti sessuali e vivevano separati in casa (Cass. pen., Sez. III, n. 1764/2021) o nel contesto familiare compromesso per le precedenti violenze (Cass. pen., Sez. III, n. 3224/2020).

Gli atti compiuti nello svolgimento della professione sanitaria

Il medico, nell'esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito il suo consenso, esplicito e informato, o se sussistono i presupposti dello stato di necessità e deve, inoltre, immediatamente fermarsi in caso di dissenso del predetto (Cass. pen., Sez. III, n. 18864/2019).

Per esempio, con riferimento all'attività di osteopata, trattandosi di terapia medica non convenzionale e dunque ordinariamente non conosciuta, il paziente deve essere previamente informato nel caso in cui il trattamento praticato sia invasivo della sfera sessuale al fine di prestarvi consenso, mancando il quale è ravvisabile il delitto di violenza sessuale (Cass. pen., Sez. III, n. 15219/2019).

La minaccia

La costrizione della vittima può essere determinata anche con una condotta minatoria. La minaccia consiste nella prospettazione di un male futuro ingiusto, ai danni della potenziale vittima o di terzi, cui derivi la limitazione della libertà del soggetto passivo, così costretto a compiere o subire atti sessuali contro la propria volontà.

Secondo la Corte di legittimità, integra una minaccia anche la prospettazione, da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando essa sia finalizzata al conseguimento dell'ulteriore vantaggio di tipo sessuale, non giuridicamente tutelato, ottenendosi per tale via un profitto ingiusto e contra ius (Cass. pen., Sez. III, n. 37251/2008, in una fattispecie in cui la minaccia era rappresentata dal prospettato esercizio di un'azione di sfratto).

È pacifico nella giurisprudenza di legittimità che l'idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale vanno esaminate non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva e soggettiva (Cass. pen., Sez. III, n. 19611/2021). Anche una mera intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza (Cass. pen., Sez. III, n. 1911/1999). È stato attribuito valore di coercizione psicologica, ad esempio, alle "reazioni scomposte" del marito, percepibili di notte dal figlio convivente e dal vicinato, che avevano ingenerato una situazione di disagio e vergogna tale da indurre la moglie ad accettare rapporti sessuali contro la sua volontà (Cass. pen., Sez. III, n. 14085/2013) oppure al generale contesto di abiezione e sottomissione nella quale era costretta da anni a vivere la vittima (Cass. pen., Sez. III, n. 28942/2016)

Abuso di autorità

Le modalità di estrinsecazione della condotta costrittiva sono completate dall'abuso di autorità. Si tratta di una forma particolare di abuso di posizione per mezzo del quale l'agente sfrutta, per costringere la vittima a compiere o subire atti sessuali, una situazione soggettiva di supremazia che detiene nei confronti della persona offesa per vincerne la resistenza.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, l'abuso di autorità ricomprende non solo le posizioni autoritative di tipo pubblicistico, ma anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali. Sulla base di tale impostazione il reato di violenza sessuale sarebbe integrato anche nel settore privato e, quindi, dalla posizione di datore di lavoro dell'agente che, mediante abuso dell'autorità derivante, sfrutti la propria posizione nei confronti di un dipendente (Cass. pen., Sez. III, n. 49990/2014).

Un diverso indirizzo ritiene che l'abuso di autorità rilevante ai sensi dell'art. 609-bis c.p. presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, che determina, attraverso la strumentalizzazione del potere esercitato, una costrizione della vittima a subire il compimento degli atti sessuali (Cass. pen., Sez. III, n. 33049/2016).

La prima posizione è stata recepita dalle Sezioni unite le quali hanno affermato che l'abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall'art. 609-bis c.p., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l'agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Cass. pen., Sez. Un., n. 27326/2020, in seguito Cass. pen., Sez. III, n. 16348/2021).

L'abuso di autorità, ad esempio, è stato ravvisato nella posizione del datore di lavoro rispetto alla dipendente (Cass. pen., Sez. III, n. 49990/2014); nella qualità di convivente della madre del minore rispetto a quest'ultimo (Cass. pen., Sez. III, n. 2119/2009); nella funzione di istruttore di arti marziali della vittima (Cass. pen., Sez. III, n. 37135/2013); nella posizione dell'agente penitenziario (Cass. pen., Sez. VI, n. 5453/2021) o del cappellano del carcere (Cass. pen., Sez. III, n. 33049/2016) rispetto al detenuto.

Induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica

Il delitto di violenza sessuale può essere compiuto anche mediante una condotta induttiva. L'induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell'attività di persuasione esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all'atto sessuale, bensì consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, soggiace al volere dell'autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest'ultimo, in tal modo aderendo ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. pen., Sez. III, n. 38011/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 18520/2018; Cass. pen., Sez. III, n. 38787/2015).

La prima modalità di manifestazione della condotta induttiva del delitto in esame è costituita dall'abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, richiedendosi esplicitamente che il soggetto attivo abusi di tali condizioni, inducendo la persona offesa, che in tali condizioni di inferiorità versi al momento del fatto, a compiere o subire atti sessuali.

È perciò necessario l'approfittamento delle condizioni di inferiorità fisica o psichica, essendo il disvalore penale del fatto incentrato sull'abuso di siffatte condizioni, in maniera che l'agente, dinanzi ad una situazione di menomazione della vittima, la strumentalizza per l'appagamento dei suoi impulsi sessuali, essendo il consenso viziato dalla condizione di inferiorità esistente al momento del fatto.

In questi casi, il consenso all'atto sessuale è viziato dalla condizione di inferiorità della vittima (Cass. pen., Sez. III, n. 18513/2015).

Tra le condizioni di inferiorità psichica rilevanti a norma dell'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p. rientrano tutte quelle che siano tali da determinare una posizione vulnerabile della vittima indipendentemente dall'esistenza di patologie mentali, comprese quelle determinate da credenze esoteriche in grado di suggestionare la persona offesa, delle quali l'agente approfitti spingendo o convincendo quest'ultima ad aderire ad atti sessuali che, diversamente, non avrebbe compiuto (Cass. pen., Sez. III, n. 31512/2020). È stato configurato il delitto in esame, ad esempio, nel caso della persona offesa, da tempo versante in stato di depressione ansiosa e convinta che ciò dipendesse da un sortilegio, indotta dall'imputato ad un rapporto sessuale sul presupposto che ciò era necessario per contrastare il maleficio in atto (Cass. pen., Sez. III, n. 33761/2007) ovvero congiunzione carnale con una donna addormentatasi a seguito di ingestione di sostanze alcooliche (Cass. pen., Sez. III, n. 1183/2012).

L'induzione all'atto sessuale di un soggetto che si trova in condizioni di inferiorità fisica o psichica si distingue dalla fattispecie di violenza per costrizione mediante abuso di autorità in quanto caratterizzata da una condotta di induzione che si realizza quando, con un'opera di persuasione sottile, quanto subdola, l'agente approfitta del soggetto che versa nella ricordata situazione spingendolo ad aderire ad atti sessuali che, altrimenti, non avrebbe compiuto (Cass. pen., Sez. III, n. 38011/2019).

In una fattispecie relativa a minori di etnia romena, clandestine e prive di mezzi di sussistenza, indotte a prostituirsi con la corresponsione di piccole somme di denaro o altre regalie, è stato precisato che la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto può dipendere anche dal limitato processo evolutivo mentale e culturale ovvero dalla minore età accompagnata da una situazione individuale e familiare che rendano la persona offesa vulnerabile alle richieste dell'agente (Cass. pen., Sez. III, n. 52041/2016).

La volontaria assunzione di alcool o di stupefacenti

Tra le condizioni in cui più frequentemente la giurisprudenza ravvisa l'inferiorità psichica o fisica prevista dall'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p. vi rientrano anche quelle conseguenti alla volontaria assunzione di alcolici o di stupefacenti. In tali casi la situazione di menomazione della vittima, a prescindere da chi l'abbia provocata, può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell'agente, sicché deve escludersi che possa sussistere il consenso a compiere o a subire atti sessuali (Cass. pen., Sez. III, n. 32462/2018; Cass. pen., Sez. III, n. 8981/2019).

L'inclusione tra le cause che generano la condizione di incapacità dell'assunzione di alcoolici, tuttavia, è criticata dalla dottrina: fino a quando non si giunge ad un livello di perdita della coscienza, l'ingestione di alcool, se non lo stato di ubriachezza, può comportare la perdita dei freni inibitori da cui una persona si può ritenere condizionata, ma non lo stato di inferiorità richiesto per l'integrazione del delitto.

Inganno e sostituzione di persona

La seconda modalità di estrinsecazione della condotta induttiva del reato in questione è costituita dal fatto di trarre in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituitoad altra persona. La ragione della incriminazione risiede nell'invalidità del consenso prestato dalla persona offesa, indotta in errore dall'altrui inganno a compiere o subire un atto sessuale nell'erronea convinzione di realizzarlo con persona diversa da quella realmente agente. Questa fattispecie è stata raramente applicata. Il reato è stato ritenuto integrato dalla condotta di un soggetto che si attribuisca falsamente la qualità di medico ginecologo per visitare una donna, con la finalità di porre in essere atti sessuali, inducendo la persona offesa a sottoporsi ad una visita alla quale la stessa non avrebbe acconsentito se non fosse stata tratta in errore dall'affermata ed insussistente qualità professionale (Cass. pen., Sez. III, n. 20578/2010).

In un caso in cui l'imputato aveva utilizzato segni distintivi contraffatti, è stato affermato che l'induzione a compiere o subire atti sessuali realizzata traendo in inganno la persona offesa attraverso una falsa attribuzione di una qualifica professionale integra il reato di cui all'art. 609-bis c.p. Tuttavia, se la falsa attribuzione di qualifica consiste nel simulare la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio è configurabile il reato di cui all'art. 609-bis c.p. aggravato dall'art. 609-ter c.p. (Cass. pen., Sez. II, n. 47848/2016).

La condotta omissiva

Il reato in esame può essere commesso, in forza della previsione generale di cui all'art. 40 cpv., c.p., anche a mezzo di una condotta omissiva tenuta da un soggetto titolare di una posizione di garanzia in ordine alla tutela psico-fisica altrui. È il caso del genitore, il quale, pur non presente sul luogo del fatto, sia consapevole e non impedisca la commissione del reato di violenza sessuale materialmente commesso da terzi sul proprio figlio minore (Cass. pen., Sez. III, n. 16503/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 23272/2015; Cass. pen., Sez. III, n. 26369/2011) o della madre che, in caso di violenza sessuale commessa dal padre ai danni della figlia, che, avendone conoscenza, non impedisca che il marito esegua la condotta illecita (Cass. pen., Sez. III, n. 17725/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 39458/2012).

Più precisamente, il genitore esercente la potestà sui figli minori e, come tale, investito, a norma dell'art. 147 c.c., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell'integrità psico - fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all'art. 40. c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti da altri sui figli allorquando sussistano le seguenti condizioni: a) conoscenza o conoscibilità dell'evento; b) conoscenza o riconoscibilità dell'azione doverosa incombente sul "garante"; c) possibilità oggettiva di impedire l'evento (Cass. pen., Sez. III, n. 19603/2017; Cass. pen., Sez. III, n. 4730/2007).

La giurisprudenza, peraltro, è attenta nell'individuazione della sussistenza di una posizione di garanzia, sicché è stata esclusa la responsabilità della nonna che, pur consapevole delle violenze subite dai nipoti, non si era attivata per impedirle, stante l'inesistenza a suo carico di un obbligo giuridico in tal senso (Cass. pen., Sez. III, n. 34900/2011).

Elemento soggettivo del reato

Il dolo del delitto di violenza sessuale è generico (Cass. pen., Sez. III, n. 28815/2008) e consiste nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della vittima non consenziente, mentre è irrilevante l'eventuale fine ulteriore (di concupiscenza, ludico o d'umiliazione) che ha spinto l'agente a commettere il reato (Cass. pen., Sez. III, n. 42118/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 20754/2013). Non è necessario, dunque, che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell'agente, essendo sufficiente che questi, indipendentemente dallo scopo perseguito, sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell'atto posto in essere volontariamente, ed in particolare del suo carattere invasivo o lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente (Cass. pen., Sez. III, n. 9399/2021; Cass. pen., Sez. III, n. 10923/2019). Ad esempio, la circostanza che l'imputato non fosse mosso da un desiderio sessuale, ma abbia agito per scherzo è stata ritenuta espressione solo del movente dall'azione, che, come detto, non incide sulla sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie in esame (Cass. pen., Sez. III, n. 13278/2021).

Ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, più in particolare, è sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico (Cass. pen., Sez. III, n. 49597/2016, S., Rv. 268186). Infatti, è stato correttamente precisato in proposito che non è ravvisabile alcun indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso all'intromissione di soggetti terzi all'interno della sua sfera di intimità sessuale. Al contrario, si deve piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l'esistenza di un consenso, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco (Cass. pen., Sez. III, n. 42118/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 49597/2016). È ben possibile, per esempio, che, nello svolgimento della patologia delle relazioni sentimentali tra uomo e donna, si verifichi la sussistenza di rapporti sessuali consensuali alternati a rapporti sessuali imposti e non può certo presumersi il consenso anche in riferimento ai rapporti sessuali imposti (Cass. pen, Sez. III, n. 37916/2012).

La mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie. L'errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (Cass. pen., Sez. III, n. 2400/2017, dep. 2018). L'errore sulla necessità del consenso del paziente prima del compimento da parte del medico di atti incidenti sulla sua sfera di libertà sessuale, quindi, esclude la colpevolezza solo in caso di ignoranza inevitabile. Si tratta di un errore su legge penale, a norma dell'art. 5 c.p., che non esclude il dolo ed esclude la colpevolezza solo in caso di ignoranza inevitabile.

Il dubbio sul consenso, perciò, non esclude la configurabilità del reato (Cass. pen., Sez. III, n. 52835/2018). È configurabile il dolo eventuale anche nel caso di omesso impedimento dell'evento a condizione che l'accettazione del rischio da parte del garante concerna specificamente proprio l'evento tipico, ossia la costrizione o induzione a compiere o subire un atto sessuale, che con l'azione si sarebbe potuto evitare (Cass. pen., Sez. IV, n. 36399/2013).

Il rilievo della cultura di origine di chi agisce

Secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, in tema di reati sessuali, non assumono alcun rilievo scriminante, né valgono ad escludere il dolo del reato, eventuali giustificazioni fondate sulla circostanza che l'agente, per la cultura mutuata dal proprio paese d'origine, sia portatore di una diversa concezione della relazione coniugale e dell'approccio al rapporto sessuale, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di un diritto fondamentale dell'individuo ai sensi dell'art. 2 Cost. (Cass. pen., Sez. III, n. 7590/2019) ed attesa anche l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Cass. pen., Sez. III, n. 8986/2019).

È stato affermato che lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia e di violenza sessuale non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Cass. pen., Sez. III, n. 14960/2015).

Un indirizzo più aperto, invece, sostiene che, ai fini della valutazione della sussistenza della consapevolezza dell'illiceità penale della condotta, può essere presa in considerazione la categoria dei reati "culturalmente orientati" o "culturalmente motivati", purché all'esito di un rigoroso bilanciamento tra il diritto involabile del soggetto agente a non ripudiare le proprie tradizioni culturali, religiose e sociali e i valori offesi o posti in pericolo dal suo comportamento (Cass. pen., Sez. IV, n. 29613/2018 in una fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di assoluzione dell'imputato che praticava atti nei conforti del figlio come palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali, sostenendo e provando con un documento che, nella località di origine, sita nell'interno dell'Albania, rappresentassero un auspicio di prosperità e di continuità della generazione. Nella motivazione di questa sentenza la Corte ha precisato che, per compiere il bilanciamento giudizio indicato, è utile accertare la matrice religiosa o giuridica della regola culturale in adesione alla quale è stato commesso il fatto, il suo effettivo carattere vincolante nella comunità di origine dell'imputato ed il grado d'inserimento dell'immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d'arrivo).

Il tentativo

Il delitto di violenza sessuale è consumato con il compimento di qualunque atto "sessuale", a prescindere dalla sua intensità. Basta che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente, come si è visto, che il contatto corporeo sia di breve durata o che la vittima sia riuscita a sottrarsi all'azione dell'aggressore o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica (Cass. pen., Sez. III, n. 4674/2014). Il tentativo presuppone che la condotta denoti il requisito soggettivo dell'intenzione di raggiungere l'appagamento degli istinti sessuali dell'agente e quello oggettivo della idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale (Cass. pen., Sez. III, n. 23178/2018).

Il tentativo è configurabile nel caso in cui l'atto indirizzato verso una zona erogena della persona offesa raggiunga invece una zona non erogena per la pronta reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente (Cass. pen., Sez. III, n. 27469/2008) ed anche nel caso in cui gli atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere un abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo o quando il contatto sia stato superficiale e fugace e non abbia attinto una zona erogena o considerata tale dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente (Cass. pen., Sez. III, n. 27762/2008). Integra, ad esempio, il tentativo di violenza sessuale, anziché l'ipotesi di violenza privata, la condotta dell'imputato diretta in modo non equivoco a baciare sulla bocca la vittima, contro la volontà di costei (Cass. pen., Sez. III, n. 43553/2018).

La giurisprudenza di legittimità, più in generale, ha ritenuto configurabile, in forma consumata, il delitto di violenza sessuale solo ove sia accertata l'effettiva e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, cioè il raggiungimento delle parti intime o un contatto corporeo da parte dell'aggressore, anche di breve durata, cosicché, in mancanza di siffatta circostanza, il reato sarebbe configurabile solo in forma tentata (Cass. pen., Sez. III, n. 17414/2016).

In tema di tentativo di violenza sessuale, è stato anche ritenuto che, in assenza del contatto fisico dell'imputato con la persona offesa, la prova della finalità di soddisfacimento dell'impulso sessuale può essere desunta da elementi esterni alla condotta tipica. Sulla base di tale principio è stato ritenuto configurabile il tentativo di violenza sessuale attribuendosi rilievo al rinvenimento, nel "personal computer" dell'imputato, di alcuni video riproducenti pratiche sessuali compatibili con la scena che lo stesso aveva cominciato a ricreare con le vittime minorenni, prima dell'involontaria interruzione dell'"iter criminis" (Cass. pen., Sez. V, n. 39044/2019).

Le ipotesi di minore gravità

Il fatto di minore gravità, previsto nel reato di violenza sessuale dall'art. 609-bis, comma 3, c.p. integra una circostanza attenuante ad effetto speciale e non un'autonoma ipotesi di reato. Ai fini del riconoscimento della diminuente, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre per il diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (Cass. pen., Sez. III, n. 42738/2016). Ai fini del diniego dell'attenuante in parola, è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità, come la reiterazione degli abusi nel tempo (Cass. pen., Sez. III, n. 21458/2015; Cass. pen., Sez. III, n. 6784/2016). Il riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità del fatto non è impedito dalla commissione di una pluralità di episodi illeciti in danno di diverse persone offese, la cui libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave, posto che ogni singola condotta non perde la propria specifica connotazione di gravità attenuata per il solo fatto di costituire una frazione dell'azione complessivamente posta in essere dall'autore in pregiudizio di più vittime (Cass. pen., Sez. III, n. 11108/2014). Analogamente, la circostanza attenuante della minore gravità del fatto non può essere esclusa sulla base della sola reiterazione, da parte dell'imputato, della condotta illecita in danno di diverse persone offese, o della occasionale e non significativa reiterazione della stessa nei riguardi del medesimo soggetto passivo, quando detta condotta non sia tale da compromettere maggiormente in danno del medesimo l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice (Cass. pen., Sez. III, n. 13729/2019).

È stato precisato che l'attenuante in esame non può essere di per sé esclusa per la sussistenza di una o più circostanze aggravanti, occorrendo in tal caso valutare se queste ultime, in relazione al bene giuridico tutelato, incidano sui parametri che rilevano ai fini dell'accertamento della minore gravità del fatto, costituiti dal grado di compressione della libertà sessuale subito dalla vittima e dalla consistenza del danno arrecatole (Cass. pen., Sez. III, n. 6502/2019).

È stata esclusa la possibilità di ravvisare la circostanza attenuante del fatto di minore gravità ove il reato di violenza sessuale sia commesso da un docente all'interno di un istituto scolastico, perché questo è un luogo all'interno del quale l'alunno deve sentirsi protetto e che, però, rende particolarmente vulnerabile la vittima per il rischio di attenzioni sessuali illecite derivanti dall'approfittamento del rapporto fiduciario intercorrente con l'insegnante (Cass. pen., Sez. III, n. 14437/2014).

Non ricorre l'attenuante della minore gravità del fatto nel caso in cui la violenza sessuale sia perpetrata dal genitore ai danni del proprio figlio, trattandosi di condotta, che, da un lato, provoca un coinvolgimento emotivo che incide gravemente sullo sviluppo psicofisico della vittima, dall'altro determina uno sviamento dalla funzione di accudimento e protezione propria della figura genitoriale (Cass. pen., Sez. III, n. 51895/2016).

In tema di tentativo di violenza sessuale, infine, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, non si deve tenere conto dell'azione effettivamente compiuta dall'agente, ma di quella che lo stesso aveva intenzione di porre in essere e che non è stata realizzata per cause indipendenti dalla sua volontà (Cass. pen., Sez. III, n. 51582/2017).

La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., l'art. 69, comma 4, c.p. come sostituito dall'art. 3 L. 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. art. 609-bis, comma 3 sulla recidiva di cui all'art. 99, comma 4, dello stesso codice, sul rilievo che la disciplina censurata, nel precludere relativamente al reato di violenza sessuale la prevalenza dell'attenuante dei casi di minore gravità sulla recidiva reiterata, viola il principio di proporzionalità della pena, perché impedisce il necessario adeguamento della sanzione attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per i suddetti casi e, annullando la diversità delle cornici edittali previste dal primo e dal terzo comma dell'art. 609-bis in relazione alla fattispecie base e a quella circostanziata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di una pena palesemente sproporzionata e quindi lesiva della finalità rieducativa della pena (Corte cost. n. 106/2014).

Sulla base di tale decisione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la diminuente prevista dall'art. 609-bis, comma 3, c.p. concorre nel giudizio di comparazione di cui all'art. 69 c.p. (Cass. pen., Sez. III, n. 17725/2019).

La violenza sessuale di gruppo

Secondo l'indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, la violenza sessuale di gruppo costituisce una fattispecie autonoma di reato necessariamente plurisoggettivo proprio, caratterizzata dalla necessaria presenza di più soggetti al momento e sul luogo del delitto (Cass. pen., Sez. III, n. 36036/2012).

L'elemento che caratterizza la violenza sessuale di gruppo è quindi dato dalla partecipazione di più persone riunite alla commissione degli atti di violenza sessuale: mentre è necessario che costoro partecipino all'esecuzione materiale del reato, non occorre che tutti compiano atti di violenza sessuale (Cass. pen., Sez. III, n. 29096/2020). Ai fini della configurabilità del reato l'espressione "più persone" contenuta nell'art.609-octies c.p. comprende anche l'ipotesi che gli autori del fatto siano due (Cass. pen., Sez. III, n. 52629/2017).

Per la configurabilità del delitto in esame non è necessario che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo, invece, sufficiente da parte del compartecipe un contributo causale, materiale o morale, alla commissione del reato; né tantomeno deve considerarsi necessario che i componenti del gruppo assistano al compimento di atti di violenza sessuale, essendo sufficiente la loro presenza nel luogo e nel tempo in cui detti atti vengono realizzati, anche da parte di un solo compartecipe, poiché la determinazione di quest'ultimo viene rafforzata dalla presenza del gruppo: nella specie, uno degli agenti, presente nel luogo in cui veniva consumata la violenza sessuale per tutta la durata della stessa, imponeva un toccamento del seno della persona offesa e videoregistrava il fatto criminale, manifestando così una chiara adesione alla violenza sessuale che rafforzava il proposito criminoso dell'intero gruppo (Cass. pen., Sez. III, n. 29096/2020; Cass. pen., Sez. III, n. 49723/2019; Cass. pen., Sez. III, n. 2721/2018, dep. 2019).

L'indirizzo consolidato della giurisprudenza ritiene che il concetto di partecipazione rilevante ex art. 609-octies c.p. non limita la responsabilità al compimento di atti violenti tipici da parte di ciascun compartecipe, ma la estende a qualsiasi condotta partecipativa, purché tenuta in una situazione di effettiva presenza sul luogo

e al momento del fatto (Cass. pen., Sez. III, n. 11560/2010, in una fattispecie in cui è stato affermato che costituisce violenza sessuale di gruppo filmare gli atti sessuali compiuti da un complice). Nella medesima prospettiva è stato affermato che risponde del delitto di violenza sessuale di gruppo il genitore che, pur non ponendo in essere atti sessuali sul figlio minorenne, sia presente sul luogo del fatto ed agevoli concretamente l'abuso sessuale commesso dal correo (Cass. pen., Sez. III, n. 23272/2015).

Si è inoltre precisato che il delitto si configura anche nell'ipotesi nella quale l'atto sessuale sia commesso a turno da tutti i partecipanti, nonché qualora venga realizzato da un compartecipe, in presenza, però, di tutte le persone, condizione che è idonea ad eliminare o a ridurre la capacità della vittima di reagire (Cass. pen., Sez. III, n. 40121/2012). Peraltro, l'assenza di una apparente reazione di contrasto da parte della vittima non elide la violenza, né alimenta dubbi circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato (Cass. pen., Sez. III, n. 967/2014, dep. 2015).

La procedibilità del reato

La violenza sessuale, ex art. 609-bis c.p., è procedibile a querela di parte, irrevocabile. Il termine per l'esercizio del diritto di querela decorre dal momento in cui la persona offesa ha acquisito la conoscenza certa del fatto-reato (Cass. pen., Sez. III, n. 54183/2018). È procedibile d'ufficio, invece, nelle ipotesi di cui all'art. 609-septies, comma 4, c.p. tra le quali la connessione con altro reato procedibile d'ufficio. In tale caso, non è necessario che per quest'ultimo sia stata preventivamente esercitata l'azione penale (Cass. pen., Sez. III, n. 383/2020). Nel caso in cui per il reato connesso procedibile d'ufficio sia stata pronunciata sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto, il giudice deve prendere atto della formula terminativa del giudizio e ritenere sciolta la connessione, mentre, nell'eventualità di decreto di archiviazione, deve operare "incidenter tantum" un penetrante sindacato sul contenuto dell'atto per accertare se la dichiarata infondatezza della notizia di reato sia concretamente sostenuta da un'evidente insussistenza del fatto e sia, dunque, idonea a recidere il nesso intercorrente tra il delitto procedibile a querela e quello procedibile d'ufficio (Cass. pen., Sez. III, n. 383/2020). L'estensione del regime della perseguibilità di ufficio ai delitti di violenza sessuale, prevista dall'art. 609-septies, comma 4, n. 4, c.p., viene meno solo a seguito dell'accertamento della insussistenza del fatto di cui alla imputazione per il reato connesso, mentre ogni altra formula di proscioglimento non fa venire meno la perseguibilità di ufficio del reato sessuale (Cass. pen., Sez. III, n. 56666/2018). La perseguibilità d'ufficio per effetto della connessione non viene meno nel caso in cui il reato connesso procedibile d'ufficio si sia estinto per prescrizione (Cass. pen., Sez. III, n. 30938/2019).

La qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio è un'altra condizione che assume rilevanza, ai fini della procedibilità di ufficio. Essa rileva non solo quando si pone in diretta relazione con la condotta criminosa, ma anche nei casi in cui, pur collocandosi il comportamento illecito fuori dall'esercizio delle funzioni, la posizione pubblicistica del colpevole abbia agevolato la commissione dell'abuso, rendendo la persona offesa maggiormente vulnerabile per il "metus" o per la soggezione psicologica derivante dalle funzioni esercitate (Cass. pen., Sez. III, n. 9878/2020). La qualifica di incaricato di pubblico servizio è stata riconosciuta ai fini della procedibilità d'ufficio del reato in esame al militare addetto alla infermeria della caserma con il compito di curare il rifornimento di medicinali, di procedere alla loro catalogazione e di gestire il database della infermeria stessa, trattandosi di mansioni di ordine non meramente esecutivo e materiale (Cass. pen., Sez. III, n. 13733/2018).

Secondo l'indirizzo consolidato della giurisprudenza, l'art. 609-septies, comma 4, n. 2 c.p., ai fini della disciplina delle condizioni di procedibilità, con l'uso della disgiuntiva "ovvero" distingue l'ipotesi in cui il reato è commesso "dall'ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, e dal tutore", che non necessita di querela anche nel caso in cui la vittima sia maggiorenne (Cass. pen., Sez. III, n. 41690/2018), da quella in cui il reato è posto in essere da persona alla quale il minore è affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza, custodia o sia convivente con la vittima, che è procedibile d'ufficio soltanto se la vittima sia minore (Cass. pen., Sez. III, n. 47488/2018). La relazione di convivenza deve essere intesa in senso rigoroso, integrando un'eccezione alla necessità della querela di parte, e consiste in un rapporto di stabile convivenza tra la vittima e un soggetto non appartenente alle altre categorie indicate dalla medesima disposizione (Cass. pen., Sez. III, n. 47467/2018). La condizione di affidamento in custodia del minore, invece, può consistere anche in un affidamento temporaneo od occasionale (Cass. pen., Sez. III, n. 11559/2016). Essa attiene a qualunque rapporto fiduciario, anche temporaneo o occasionale, che si instaura tra affidante e affidatario mediante una relazione biunivoca e che comprende sia l'ipotesi in cui sia il minore a fidarsi dell'adulto, sia quella in cui il minore sia affidato all'adulto da un altro adulto per specifiche ragioni (Cass. pen., Sez. III, n. 5933/2018, dep. 2019; Cass. pen., Sez. III, n. 43705/2019).
Avv. Antonino Sugamele

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