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Sentenza

Omicidio. Cadavere senza testa.
Omicidio. Cadavere senza testa.
Tribunale Napoli Sez. III, Sent., 20-06-2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L'anno 2013, il giorno 19 del mese di aprile
La Corte di Assise di Appello di Napoli - Sez. III composta dai Signori:
1) Dr. Vincenzo Masrursi - Presidente est.
2) Dr.ssa Amalia Taddeo - Consigliere
3) Assunta Lelio - Giudice popolare
4) Tonino Quaglia - Giudice popolare
5) Stefano Sellini - Giudice popolare
6) Alba Italiano - Giudice popolare
7) Stefania Mosca - Giudice popolare
8) Gaetano Bausano - Giudice popolare
con l'intervento del Pubblico Ministero in persona
del Sostituto Procuratore Generale dr. Gerardo Arcese
con l'assistenza del Cancelliere Maria Coppola
ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa penale a carico di:
C.A., nato a B. il (...)
detenuto - presente
APPELLANTE
avverso la sentenza resa il 7 novembre 2011 dalla Corte di Assise di Napoli con la quale
IMPUTATO
a) del reato p. e p. dall'art. 575 c.p. per avere cagionato la morte di C.C. esplodendo al suo indirizzo almeno un colpo di arma da fuoco con la propria pistola di ordinanza.
b) del reato p. e .p. dagli artt. 61 n. 2, 411 c.p. per avere, al fine di procurarsi l'impunità dal delitto di cui al capo che precede, sottratto dal cadavere di C.C. la testa.
in luogo imprecisato il 24/5/2004
veniva dichiarato colpevole di entrambi i reati ascrittigli e condannato
- per quello sub a) alla pena di anni ventiquattro di reclusione
- per quello sub b) alla pena di anni quattro di reclusione.

Svolgimento del processo

Verso le ore 7,10 del 24/5/2004 C.C. usciva dalla propria abitazione; alle ore 7,50 telefonava alla ditta Novartis, presso la quale prestava servizio, per avvisare che sarebbe arrivato in ritardo in ufficio; intorno alle ore 8/8,10 faceva ritorno a casa per allontanarsene nuovamente dopo pochi minuti. Da quel momento non dava più notizie di sè ed il suo cadavere, privo della testa, veniva rinvenuto alle ore 18,45 circa del 26/5/2004 sul margine esterno della carreggiata al km. 1,900 della SS 7 bis in tenimento del Comune di Frignano in direzione Villa Literno.
In data 11/2/2005 il GIP del Tribunale di Napoli emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di C.A. per i delitti di omicidio volontario del C., di sottrazione di cadavere e di usura in danno di P.R..
Il 28/2/2005 il Tribunale per il riesame confermava il provvedimento cautelare.
Con sentenza 6/7/2005 la Corte di Cassazione annullava tale ordinanza relativamente ai delitti di omicidio volontario e di sottrazione di cadavere, motivando che la valutazione del quadro indiziario risultava inficiata da contraddittorietà e lacune, nonchè dal frequente ricorso ad argomenti congetturali piuttosto che a sicuri elementi di fatto.
In data 26/9/2005 il G.U.P. del Tribunale di Torre Annunziata (nelle more il G.I.P. di Napoli si era dichiarato incompetente) emetteva sentenza di non luogo a procedere nei confronti del C..
A seguito dell'appello proposto dal P.M., la Corte di Appello di Napoli disponeva il rinvio a giudizio del C., argomentando che le risultanze delle indagini erano complesse e suscettibili di diverse interpretazioni e valutazioni, per cui, pur "senza propendere in alcun modo nè per l'innocenza nè per la colpevolezza dell'imputato", appariva opportuno che l'accusa fosse sottoposta al vaglio dibattimentale.
Con sentenza pronunciata il 7/11/2011 la Corte di Assise di Napoli dichiarava C.A. colpevole dei delitti di omicidio volontario in danno di C.C. e di soppressione di cadavere, condannandolo:
- per il primo, alla pena di anni ventiquattro di reclusione
- per il secondo alla pena di anni quattro di reclusione.
Lo condannava, altresì, al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare nonchè al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili, assegnando una provvisionale di Euro 50.000,00 ciascuno a C.E. e C.F.P. e di Euro 5.000,00 a C.F..
Lo dichiarava, infine, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, in stato di interdizione legale e sospeso dalla potestà genitoriale durante l'esecuzione della pena.
Il collegio motivava che a carico dell'imputato gravavano indizi connotati dai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 192 c.p.p..
Dalle deposizioni testimoniali, dalla documentazione sequestrata, dalle espletate consulenze tecniche, dalle analisi del telepass installato sull'auto del prevenuto e dei tabulati relativi ai telefoni cellulari di costui e del C. emergeva, in termini di certezza:
- che il C. aspirava ossessivamente ad essere nuovamente assegnato all'ufficio acquisti della ditta Novartis dal quale era stato estromesso nel gennaio del 2000 e trasferito all'ufficio spedizioni;
- che il C. aveva assicurato il suo interessamento il riguardo, promettendo l'intervento di un alto dirigente di livello nazionale della Novartis;
- che la mattina della sua scomparsa il C. si attendeva di ottenere finalmente l'agognato trasferimento al vecchio posto di lavoro grazie al risolutivo intervento di detto dirigente, con il quale avrebbe dovuto incontrarsi;
- che a tale incontro doveva necessariamente prendere parte anche il giudicabile, il quale l'aveva propiziato ed era l'unico a conoscere il dirigente in questione;
- che il C. ed il C. si erano effettivamente incontrati;
- che le promesse del prevenuto si erano rivelate una mera millanteria, dal momento che egli non conosceva nessun dirigente nazionale della Novartis e che il 24/5/2004 non era programmato nessun incontro con dirigenti nazionali o locali della società;
- che il C. ed il C. avevano intrattenuto un rapporto usuraio con P.R., delitto per il quale il C. era stato condannato dal Tribunale di Torre Annunziata, con sentenza confermata in appello;
- che il C. aveva versato notevoli somme di denaro al C., che risultavano apparentemente erogate a terzi con vantaggi usurari per entrambi ma che in realtà non erano state impiegate per tali finalità;
- che il C. era stato ucciso, o comunque messo in condizione di non potere più comunicare tra le ore 8,10 e le ore 9,36 circa del 24/5/2004;
- che il decesso del C. era stato cagionato da un colpo di arma da fuoco alla testa, esploso verosimilmente da distanza ravvicinata;
- che la decapitazione era avvenuta dopo la morte ed a distanza di decine di minuti da essa;
- che il corpo della vittima era stato collocato nel posto dove era stato trovato non oltre 24 ore prima della sua scoperta (ore 18,45 del 26/5/2004);
Indubbia valenza indiziante assumeva, a sua volta, il fallimento dell'alibi prospettato dal C., teso sia a sostenere che a favorire la soluzione del problema lavorativo della vittima doveva essere un dirigente locale della Novartis contattato da un non meglio indicato esponente sindacale, sia a ricostruire i suoi movimenti nella mattina del 24 maggio al fine di escludere la possibilità di un incontro con l'ucciso, sia a giustificare i suoi spostamenti nella giornata del 25 maggio e delle ragioni che l'avevano indotto ad allontanarsi arbitrariamente dal luogo di lavoro con l'auto di servizio (condotta in relazione alla quale aveva riportato condanna definitiva per il reato di abbandono aggravato di posto ed era iniziato procedimento per il delitto di peculato).
Sintomatica si palesava, inoltre, la sua insistenza nel volere che fosse immediatamente verbalizzata, prima ancora che i sospetti degli inquirenti si appuntassero sulla sua persona, la circostanza che egli aveva toccato il polsino della giacca del C. all'atto del riconoscimento del cadavere presso l'obitorio; invero le risultanze processuali non solo smentivano questo dato, ma comprovavano che, al momento del riconoscimento, l'ucciso non indossava più la giacca che vestiva la mattina del 24 maggio.
Mendace era, ancora, risultata l'affermazione del C. di avere sparato con la pistola di ordinanza in occasione di esercitazioni effettuate presso il poligono di tiro nei giorni precedenti l'omicidio o, al più, nel mese precedente.
Dal suo canto il taglio della testa dell'ucciso trovava la sua unica logica spiegazione nella necessità di impedire che il reperimento del proiettile ivi eventualmente ritenuto potesse consentire di risalire all'arma che l'aveva esploso, di cui il prevenuto non poteva disfarsi trattandosi della pistola d'ordinanza.
La tesi difensiva di ricondurre l'assassinio in un contesto di natura camorristica non meritava credito perchè la testa non sarebbe stata fatta sparire se il macabro rituale della decapitazione doveva avere un significato simbolico.
Il C., infine, era l'unico portatore di un interesse all'uccisione del C..
I due erano soci in attività usurarie, sfruttando le quali l'imputato si era appropriato di ingenti somme di denaro della vittima, alla quale erano state fraudolentemente prospettate come destinate a terzi per un comune guadagno illecito.
Il giudicabile aveva, inoltre, illuso l'amico assicurandogli il soddisfacimento della sua ambizione di rientrare nelle precedenti mansioni lavorative, ma la millanteria del sicuro sostegno al riguardo di un sedicente dirigente nazionale della Novartis era stata scoperta dal C..
L'esigenza di eliminare una presenza divenuta ingombrante e non più controllabile aveva indotto il C. all'insano gesto.
Proposto rituale appello, il difensore del C., nel sollecitarne l'assoluzione per non avere commesso il fatto, ha preliminarmente osservato che la penale responsabilità di costui era stata affermata sulla base di un'interpretazione forzata di ben pochi avvenimenti certi.
Inesattamente in sentenza era stato definito "a sorpresa" il suo arrivo presso l'abitazione del C. all'atto della perquisizione: l'imputato era stato considerato fin dal primo momento un prezioso punto di riferimento investigativo, stanti i rapporti di amicizia intrattenuti con la vittima, sì da partecipare al tentativo di identificazione del cadavere; la perquisizione era stata, poi, effettuata proprio di ritorno dall'obitorio ed egli non vi aveva presenziato, essendo rimasto in attesa nell'antistante cortile.
Nell'attribuire al C. il disordine constatato in occasione della perquisizione dello studio non si era tenuto conto del fatto che la di lui moglie aveva ammesso di essere entrata nel locale, particolare però taciuto alla polizia giudiziaria alla quale non aveva neppure fornito la chiave della porta, tant'è che si era dovuto forzarla.
Quanto alla spontanea dichiarazione del C. di avere toccato la salma in occasione delle attività finalizzate al riconoscimento (dichiarazione di cui il Nevosi era stato messo a conoscenza dal Mastrogiacono, e non viceversa, a sua volta informato dal maresciallo Di Maio) si era trascurato che il Nevosi aveva redatto l'annotazione di servizio in cui si escludeva che il giudicabile potesse avere toccato il corpo della vittima solo il 31/5/2004 ed aveva tutto l'interesse a negare una simile circostanza perchè l'avere consentito ad un estraneo il contatto con il cadavere integrava una sua grave negligenza.
La posizione a pancia in giù in cui era stata posta la salma rendeva, invece, credibile che il C. ne avesse toccato il polso per procedere al riconoscimento, mentre la concitazione dell'operazione faceva apparire ben poco comprensibile la certezza manifestata dal Nevosi circa l'impossibilità di un qualsiasi contatto.
Inoltre il prevenuto aveva chiesto che il particolare fosse verbalizzato allorchè si era reso conto, a seguito del sequestro della sua vettura e della perquisizione dei luoghi di sua residenza, della piega che stavano prendendo le indagini.
Il dato, esaltato in sentenza, che l'imputato, nell'esame dibattimentale, aveva riferito di avere toccato la giacca che il C. non indossava invece più, costituiva frutto di travisamento perchè nelle precedenti dichiarazioni sul punto, quando i ricordi erano più freschi, il C. non aveva fatto menzione di un contatto con tale indumento.
L'assunto che il C. non si fidava del prevenuto, dal momento che aveva registrato alcuni loro colloqui, ometteva di considerare che l'ucciso era solito adottare tale pratica con ogni interlocutore e che le conversazioni in oggetto risalivano a due anni prima dell'omicidio.
In ordine ai movimenti della vittima la mattina del 24/5/2004 non si era dato peso all'affermazione di C.E. che quel giorno il marito era uscito di casa per fare, come di consueto nell'ultimo periodo, colazione con lo S..
Il diniego di quest'ultimo di avere incontrato l'amico risultava contrastato dalla lunga telefonata (201 secondi) intercorsa tra i due alle ore 21,53 della sera precedente, che appariva verosimilmente finalizzata a pianificare l'incontro del mattino seguente.
Ulteriori critiche concernono le conclusioni che il primo giudice ha desunto dall'esame autoptico e dalle consulenze del dott. D.M. e del dott. Gravina.
Il vasto arco temporale (tra le 80 e le 100 ore dall'autopsia) indicato come epoca della morte era dato di scarsa utilità.
Il dott. D.M., nel rappresentare che le condizioni di decomposizione del cadavere risultavano compatibili con l'esposizione ai raggi solari per un periodo non superiore alle dodici ore, aveva tuttavia precisato di non potersi esprimere in termini di certezza; nè si erano approfonditi altri fattori che potevano avere inciso sui fenomeni putrefattivi, quali le condizioni atmosferiche ed il fatto che il corpo dell'ucciso era stato rinvenuto alle spalle di un cavalcavia ed all'ombra di un guardrail.
Neppure poteva condividersi la tesi del dott. Gravina, recepita dalla Corte, secondo cui le poche tracce di sparo rinvenute e la loro collocazione in specifiche parti del corpo della vittima deponevano per l'esplosione di un colpo di pistola alla testa da distanza ravvicinata. Anche in questo caso si era del tutto tralasciata l'influenza che avevano potuto assumere al riguardo le condizioni climatiche e le modalità di ritrovamento del corpo. Nè si era accertato se il C. possedeva armi e le aveva utilizzate.
L'indeterminatezza delle cause della morte era stata, invero, evidenziata dal dott. D.M., il quale aveva rappresentato di non potere stabilire se l'exitus era stato cagionato dalla decapitazione o da altra causa, in quanto il mancato ritrovamento della testa lasciava spazio a diverse ipotesi e modalità, quali lesioni prodotte da arma da fuoco o da corpi contundenti, che potevano avere interessato solo quel distretto corporeo.
Il collegio giudicante, nel collocare la decapitazione nell'ordine di alcune decine di minuti dalla morte, aveva, inoltre, alterato le conclusioni cui era pervenuto il dott. P., il quale aveva dichiarato che all'atto dell'amputazione il C. versava in limine vitae.
L'esecuzione del delitto risultava, conseguentemente, incompatibile con il tempo a disposizione del C., il quale alle ore 8,45 aveva imboccato l'autostrada, per poi svolgere una serie di attività e recarsi al lavoro senza presentare tracce emotive e materiali dell'accaduto, pur non essendosi lavato nè cambiato d'abito.
L'individuazione nell'arco temporale compreso tra le 8,20 e le 9,36, (ora della prima chiamata senza risposta) del momento in cui la vittima sarebbe stata posta messa in condizione di non poter comunicare rappresentava una mera possibilità al pari di altre plausibili alternative. Ad esempio il C. poteva avere rifiutato la telefonata perchè impegnato in affari più urgenti, oppure poteva essersi trovato in zona priva di copertura.
L'affermazione che l'ucciso desiderava spasmodicamente riottenere il posto di lavoro precedentemente occupato non aveva trovato conferma nelle deposizioni dei colleghi di ufficio.
Vero che l'imputato aveva ammesso di essersi occupato delle disavventure lavorative dell'amico, ma altrettanto vero che aveva analiticamente specificato tempi e modalità del suo impegno, che non aveva avuto più alcun seguito fin dall'inizio del 2003 quando l'avvenuto trasferimento dal nucleo di P.G. della Procura della Repubblica al plotone di rappresentanza dei Carabinieri gli aveva precluso la possibilità di avvicinare l'avv. Von Arx per sollecitarne un intervento presso il fratello, direttore generale della Novartis di Torre Annunziata.
Si rivelava, pertanto, priva di fondamento la deduzione che l'interessamento si sarebbe protratto fino al giorno della scomparsa del C., con l'assicurazione dell'intervento risolutivo di un dirigente nazionale della società, e che, conseguentemente, vittima e carnefice si erano incontrovertibilmente incontrati la mattina del 24 maggio.
La Corte aveva, poi, attribuito immeritato credito al racconto del C. circa la prevista visita da parte del dirigente nazionale della Novartis nel pomeriggio di domenica 23 maggio, andata a monte per le avverse condizioni atmosferiche: l'idea che costui aveva potuto credere che un dirigente di alto livello si sarebbe recato a casa sua per accordargli eventualmente il desiderato trasferimento non si conciliava con l'immagine di persona diffidente e dedita all'usura che di lui traspariva dall'istruttoria dibattimentale. Poco convincente, inoltre, che C.E. (l'affidabilità del cui dictum la Corte immotivatamente non aveva mai messo in discussione, pur apparendo verosimile che la donna fosse a conoscenza della pratica usuraria cui era dedito il coniuge) era stata resa edotta di tale importante visita solo all'ultimo momento, senza nemmeno il tempo di organizzare una degna accoglienza.
Peraltro C.E. aveva riferito che, nel corso della cena del sabato, il C. aveva parlato di un incontro con il dirigente previsto per il lunedì successivo, senza menzionare la visita in programma per l'indomani.
A volere comunque ritenere che il C. fosse davvero convinto di ricevere la visita del dirigente nel pomeriggio della domenica non era dato comprendere perchè mai il C. avrebbe dovuto propinargli una simile fandonia, ben sapendo di dovere poi disdire con un pretesto l'incontro, invece di millantare un appuntamento direttamente per il lunedì in ufficio, il cui annullamento sarebbe avvenuto con maggiore semplicità.
Inoltre in base alle dichiarazioni di C.E. e C.E. l'incontro della domenica era stato cancellato in seguito ad una lunga e concitata telefonata che il congiunto aveva effettuato nella propria auto, ma l'unica conversazione intercorsa tra il C. ed il C. domenica 23 maggio era quella delle ore 18,30 ed aveva avuto una durata di soli 57 secondi. Il tabulato relativo all'utenza domestica del defunto documentava, però, una telefonata di ben 25 minuti avvenuta alle 17,56 di quel medesimo giorno, per cui era più logico desumere che fosse questa la conversazione menzionata dalle due donne e gestita dal C. verosimilmente con un telefono cordless; ma nel corso delle indagini non si era neppure provveduto ad identificare il numero chiamante.
Incongruenti si rivelavano anche le argomentazioni con cui era stato negata l'attendibilità della spiegazione fornita dall'imputato in ordine alle ragioni della citata telefonata domenicale (fornire un pretesto all'amico per uscire di casa). Eppure l'istruttoria dibattimentale aveva ampiamente accertato la fase di crisi in cui versavano i rapporti tra i coniugi C. e l'uomo avrebbe avuto certamente maggiori difficoltà a giustificare un allontanamento dal domicilio in giorno festivo.
La Corte di Assise aveva ritenuto provato in via deduttiva, sulla base di mere congetture, che la mattina del 24 maggio il C. doveva presenziare al presunto incontro tra il C. ed il dirigente nazionale della Novartis; eppure nessuno dei testi esaminati aveva fatto cenno di tale partecipazione. Molto più logico, pertanto, ipotizzare che l'incontro mattiniero del C. non aveva attinenza con le vicende lavorative, bensì con l'attività usuraria; in tal senso deponevano il suo affrettato ritorno a casa verso le ore 8, in occasione del quale si era intrattenuto brevemente nello studio senza salire nell'appartamento, ed il disordine riscontrato all'atto della perquisizione dello studio.
Del tutto irragionevole risultava, a sua volta, l'iter motivazionale in base al quale era stata affermata la falsità dell'alibi difensivo.
Il C. sin dall'interrogatorio di garanzia aveva ricostruito i suoi movimenti nelle giornate del 24 e 25 maggio e non esistevano elementi indiziari idonei a smentire le sue parole, che risultavano anzi confermate dai dati registrati dal telepass e dai tabulati telefonici; non aveva, pertanto, necessità di ottenerne ulteriore convalida da parte di compiacenti testi "dell'ultima ora", come sostenuto in sentenza. Nessuna sospetta tardività era dunque ravvisabile al riguardo, dal momento che solo in dibattimento era possibile ottenere l'esame di un tale testimoniale; inoltre il C. non aveva avuto prima l'esigenza di segnalare agli inquirenti i nominativi di persone da escutere, avendo la Corte di Cassazione annullato l'ordinanza di custodia cautelare per assenza dei gravi indizi di colpevolezza ed essendo stata anche emessa sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti.
Peraltro B.C. aveva adeguatamente illustrato le ragioni per cui serbava sicura memoria degli eventi relativi alla mattina del 24/5/2004.
Altrettanto convincenti le spiegazioni fornite al medesimo proposito da G.G., il quale aveva precisato di avere focalizzato il ricordo dell'incontro con l'amico nella mattinata del 24 maggio dopo avere letto gli articoli di stampa in cui veniva riportato il momento in cui il C. avrebbe ammazzato il C..
La genuinità dell'avallo che la protesta di innocenza riceveva dalla dichiarazione di Torrente Salvatore era attestata dalla circostanza che costui era stato sentito a sommarie informazioni alle ore 2,56 del 29/5/2004, cioè proprio contestualmente al momento in cui il C., presente nella caserma dei carabinieri di Castello di Cisterna, assumeva la veste di indagato.
L'assenza di ogni contatto tra i due rendeva impraticabile la tesi di un loro accordo sulla versione da offrire agli inquirenti.
La mancata iniziale indicazione da parte del giudicabile della sosta effettuata presso l'ufficio stranieri di via Galileo Ferraris trovava ampia giustificazione nel fatto che all'epoca il C. non era ancora indagato e non aveva interesse a riferire particolari privi di rilevanza investigativa.
La veridicità dell'assunto circa il rientro a casa per non essere riuscito a contattare G.A. era avvalorata dall'analisi del tabulato telefonico, da cui si rilevava che la cella di via Galileo Ferraris era impegnata una sola volta, alle ore 10,31, che alle successive 11,03 veniva agganciata la cella di Via Volpicella, in corrispondenza dell'autostrada che l'imputato aveva rappresentato di avere imboccato, che la telefonata con il G. delle 12,22 era stata effettuata agganciando la cella corrispondente all'abitazione del C.. Nè andava dimenticato che i tabulati telefonici acquisiti dalla Corte non erano quelli originali del gestore, ma una riorganizzazione degli stessi operata dagli inquirenti, per cui non poteva attribuirsi valenza alla circostanza che non risultava registrato nessuno dei riferiti tentativi di contattare il cellulare del G., tanto più che sui tabulati del C. non figurava nemmeno nessuna delle telefonate effettuate dai familiari e dagli amici allarmati dalla mancanza di sue notizie (idem su quelli di costoro).
Il fatto che il funerale del padrino di cresima del G. era avvenuto alle ore 12,15 non smentiva l'affermazione del prevenuto circa la raccomandazione dell'amico di recarsi da lui al più presto e non legittimava la deduzione che quest'ultimo alle 10,30 non poteva essere già impegnato, essendo notoria la consuetudine di rendere omaggio al defunto prima di partecipare al rito funebre.
Quanto alla mattina del 25 maggio l'arbitrario allontanamento del giudicabile dal luogo di lavoro era circoscritto al periodo 9,34/10,56, come accertato dalla sentenza irrevocabile di condanna per il reato   militare  di abbandono di posto, e le indicazioni fornite circa le attività svolte in questo arco temporale non erano affatto false come sostenuto in sentenza.
L'obiezione che il tempo a disposizione era insufficiente a consentirgli di recarsi in Tribunale per verificare la regolarità di un processo a suo carico fissato per il giorno successivo e di spostarsi poi ad Afragola per incontrare il G. non teneva conto del fatto che l'imputato era giunto in Tribunale con l'auto di servizio, avendo così la possibilità di accedere ai meno affollati ascensori laterali.
La parziale attendibilità delle celle agganciate e la breve durata degli adempimenti da compiere spiegava l'avvenuto impegno di celle diverse.
Del tutto misteriose risultavano, invece, le ragioni che avrebbero indotto al mendacio sul punto il C. ed i compiacenti testi, dal momento che l'omicidio sarebbe avvenuto la mattina del precedente 24 maggio e l'abbandono del cadavere presumibilmente nella serata del 25 maggio.
Analoghe censure concernono la ritenuta falsità della ricostruzione offerta dal C. circa i suoi spostamenti nella sera del 25 maggio, fondata sul presupposto che il racconto era finalizzato a precostituire un alibi per le ore in cui il cadavere sarebbe stato collocato nel luogo di rinvenimento.
Evidenziato che era assolutamente incerto il momento a partire dal quale il corpo dell'ucciso era stato esposto alla luce, la difesa ha sottolineato che l'imputato, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, non aveva mai modificato il resoconto iniziale al fine di farlo collimare con le acquisizioni investigative.
Le ragioni per cui erano stati progressivamente forniti ulteriori particolari era ovvia e pienamente spiegabile: all'atto della prima dichiarazione il C. veniva sentito semplicemente come persona informata dei fatti e non aveva motivo di soffermarsi sull'entità del tempo perso per il problema allo pneumatico; soltanto quando era stato interrogato in qualità di indagato era subentrata la necessità di dettagliare i suoi movimenti. I successivi verbali non erano, perciò, diversi ma concentrici, in quanto contenenti la descrizione sempre più minuziosa dei medesimi movimenti descritti fin dall'inizio.
La tesi che in circa due ore il giudicabile, prelevato il cadavere in un luogo imprecisato, lo avrebbe depositato a Frignano per fare ritorno a Napoli prima di muoversi alla volta di Afragola si rivelava davvero poco verosimile.
Gli elementi di accusa desunti dalle celle alle quali era risultato agganciato in quel periodo il cellulare del prevenuto non tenevano conto della circostanza, chiaramente illustrata dal responsabile della Vodafone ing. M. ed ancora più approfonditamente dal consulente della difesa ing. M., che non vi è una piena corrispondenza tra il luogo in cui un soggetto si trova e la cella che viene agganciata, potendo il collegamento essere influenzato dall'eccessiva congestione della cella di competenza per cui la telefonata viene "rimbalzata" su di una cella adiacente, ovvero dall'orografia delle zone, dall'ubicazione delle antenne e dalla potenza del segnale.
L'appellata sentenza non aveva, poi, minimamente affrontato il problema delle modalità con cui il C. avrebbe provveduto a portare il cadavere in Frignano, dovendo escludersi che il trasporto era stato effettuato con la sua auto sulla quale non erano state riscontrate tracce di sangue o di materiale organico.
Meramente congetturale, altresì, l'ipotesi accusatoria secondo cui il C. era stato freddato con la pistola di ordinanza dell'imputato.
In realtà dalle risultanze processuali non risultava acquisito nessun elemento probatorio che attestava l'uso di tale arma; anzi non vi era nemmeno certezza che era stato esploso qualche colpo di pistola, tanto più che non era stata rilevata presenza di sangue nello stomaco e nei polmoni.
Invero le probabilità che un proiettile sparato con la pistola in dotazione dei carabinieri rimanga conficcato nella testa della vittima sono minime se non addirittura nulle; ciò specie se, come si come si prospetta nella vicenda in esame, il colpo è sparato da distanza ravvicinata.
Il dato, già di per sè, rendeva insostenibile il corollario che la decapitazione aveva lo scopo di impedire di risalire all'arma omicida.
A ciò doveva aggiungersi che l'ing. M. aveva chiarito l'inutilità dell'eventuale repertazione del proiettile ai fini dell'identificazione dell'arma e che l'avvenuta ispezione della pistola del C. aveva verificato la presenza nel caricatore di tutti i proiettili.
Nessuna affidabilità poteva, poi, riconoscersi ai dati macroscopicamente errati ed incompleti riportati sul libretto personale di tiro del prevenuto, che tra l'altro non recava la vidimazione del comandante nel 50 % dei casi.
Il movente del delitto (sostanzialmente una truffa perpetrata dal C. in danno del C.) era stato, infine individuato sulla base di pure illazioni.
La partecipazione del C. all'attività usuraria del C. era stata evinta dalla condanna per usura riportata dall'imputato e dalla presenza del nome "A." su alcuni appunti.
Ma la condanna concerneva un unico episodio e non era indicativa di un sistematico coinvolgimento negli affari dell'ucciso.
L'identificazione di "A." nel C. era, dal suo canto, fondata su elementi tutt'altro che univoci.
L'osservazione che non poteva trattarsi di L.A. perchè quando il C. si riferiva a costui ne menzionava sempre anche il cognome era smentita dalla circostanza che in alcuni scritti concernenti sicuramente il L. era presente il solo nome di battesimo.
Superficiale anche la notazione che il nome "A." risultava associato ad alcuni presunti prestiti elargiti dal C. a tali C. "Pinoli" ed Haravi, soggetti collegabili all'imputato, e che, avendo costoro negato di avere ricevuto denaro dal C., doveva inferirsi che il C. si era appropriato di tali somme.
L'individuazione del C. in certo C., lontano parente del C., si basava sulla semplice assonanza dei due nominativi.
Nè appariva credibile che il C. si lasciasse abbindolare così facilmente dal prevenuto, senza pretendere un qualche riscontro alle sue dichiarazioni.
Non era stata, poi, neppure presa in considerazione l'ipotesi che il C. e l'Haravi avevano negato ogni rapporto con la vittima vista la sorte toccatale.
La Corte di Assise aveva, poi, fatto assiomaticamente proprie le conclusioni della perizia grafologica circa la riferibilità di alcuni scritti all'imputato senza vagliare in alcun modo le contrarie argomentazioni sviluppate dal consulente della difesa.
Nessun concreto elemento consentiva, poi, di affermare che il C. era rientrato in casa per reperire la documentazione inerente ai rapporti con il C. e recuperare il registratore.
Ogni indagine era stata ancora omessa per scoprire la provenienza del denaro che il C. prestava a terzi, malgrado gli accertamenti bancari non avevano evidenziato disponibilità economiche di costui tali da permettergli l'elargizione di svariate decine di migliaia di Euro.
Conseguentemente non erano state prese in esame piste alternative segnalate da qualificate fonti informative, quali la relazione della vittima con la moglie di un pregiudicato detenuto ed il collegamento dell'omicidio ad un giro di usura.
Le subordinate concernono la concessione delle attenuanti generiche, la riduzione della pena e la revoca delle statuizioni civili.
Ai sensi dell'art. 603 c.p.p. è stata richiesta la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale al fine:
A) di espletare accertamenti peritali volti a chiarire, anche attraverso l'esumazione del cadavere:
- la collocazione temporale della morte e della decapitazione rispetto ad essa;
- la tempistica di esposizione del cadavere alla luce del sole, tenuto conto dei dati integrativi rappresentati dalle condizioni climatiche e dalla deposizione del corpo dietro un cavalcavia di imponenti dimensioni ed un guardrail;
- la congruità delle conclusioni formulate in merito alla riconducibilità a polvere da sparo delle tracce rinvenute sugli abiti del C.;
- la determinazione dell'arma usata per la decapitazione;
- la possibilità di ritenzione del proiettile esploso dall'arma di ordinanza all'interno della scatola cranica;
B) di esaminare i consulenti tecnici della difesa professori C.T. (in relazione ai punti oggetto delle domandate indagini peritali) e R.C. (in merito agli spostamenti del C. la sera del 25/2/2004, con riferimento alle celle agganciate);
C) di acquisire il filmato integrale della puntata della trasmissione televisiva "Chi l'ha visto" concernente la sparizione del C..
Il dibattimento di appello, dopo un iniziale rinvio per difetto di notifica, ha avuto inizio il 12/2/2013 e si è sviluppato nelle successive udienze del 19/2/2013 (in cui è stata rigettata la richiesta di rinnovazione istruttoria formulata dalla difesa), del 7/3/2013-18/3/2013-12/4/2013 (in cui le parti hanno rassegnato le rispettive conclusioni) e del 19/4/2013.
All'esito della successiva deliberazione in camera di consiglio è stata resa pubblica la presente sentenza, mediante lettura del dispositivo allegato al verbale di udienza.

Motivi della decisione

La valutazione delle emergenze processuali lascia persistere ragionevoli dubbi sulla sussistenza della responsabilità del C., in quanto gli elementi indiziari acquisiti nei suoi confronti non raggiungono l'indefettibile soglia dell'univocità.
Il compendio probatorio è, invero, pacificamente di natura indiziaria, stante l'assenza di fonti che riferiscano o riproducano la realizzazione dell'azione delittuosa direttamente vista o registrata.
Orbene l'iter argomentativo posto a base della sentenza di condanna si fonda solo in limitata parte su circostanze di fatto connotate dal necessario requisito della certezza, che postula l'avvenuta positiva verifica della reale sussistenza della circostanza stessa, mentre non di rado vengono apprezzati come indizi fatti solo verosimilmente accaduti, se non supposti od intuiti, così inammissibilmente valorizzando il semplice sospetto o la personale congettura.
Tanto premesso osserva la Corte che un dato indiziario a carico dell'imputato è stato ravvisato nella rilasciata spontanea dichiarazione di avere toccato il corpo del C. in occasione delle operazioni di riconoscimento effettuate preso l'obitorio, circostanza esclusa dal tenente Nevosi e da C.E., cognato dell'ucciso.
La difesa ha obiettato che stranamente il tenente Nevosi aveva redatto tale annotazione di servizio soltanto in data 31/5/04, sicchè era lecito opinare che l'atto era finalizzato ad evitargli la contestazione della grave mancanza di avere consentito ad un estraneo il contatto con il cadavere.
L'argomentazione non è convincente perchè non si vede quale irregolarità sarebbe stata nell'eventualità commessa dall'ufficiale, tanto più che il riconoscimento si presentava particolarmente problematico per l'assenza della testa.
Più pertinente l'osservazione che il particolare poteva essere sfuggito al Nevosi (C.E. ha spiegato di essere rimasto sconvolto alla vista del corpo e di essersi allontanato per primo dal locale; "sono stato uno dei primi a scappare, io sono quasi scappato da dentro questa sala ... sono uscito fuori e poi sono venuti tutti quanti fuori") sia per la concitazione del momento, sia per la presenza nella stanza di più persone (vedi dep. C.E., ud. 29/9/2011), sia perchè il contatto era stato di brevissima durata (il C. ha sostenuto di avere toccato per un attimo il polso dell'amico nel tentativo di riconoscere il braccialetto che lo ornava).
La vicenda riveste, comunque, valenza indiziante.
Sicuramente falsa, poi, l'affermazione del C. che l'interessamento da lui promesso al C., per consentirgli di essere nuovamente assegnato all'ufficio acquisti della ditta Novartis, era cessato verso la fine del 2002/inizi del 2003, all'atto del proprio trasferimento dalla sezione di polizia giudiziaria presso la Procura della Repubblica al plotone di rappresentanza dei carabinieri, essendo venuta meno la possibilità di incontrare l'avv. Von Arx per chiedergli di perorare la causa dell'amico presso il fratello dirigente della Novartis.
L'assunto, propugnato anche nei motivi di gravame, è, infatti, smentito da tutte le acquisizioni dibattimentali.
C.E., moglie della vittima, ha riferito che il marito verso le ore 17,30/18 di domenica 23/5/2004 le aveva chiesto di non recarsi dalla zia ricoverata in ospedale perchè di lì a poco sarebbero venuti a casa il C. ed un dirigente nazionale della Novartis ("viene con il signor C.. Venivano tutti e due") per discutere del suo ritorno all'originarie mansioni lavorative.
Dopo avere ricevuto una telefonata il coniuge l'aveva, però, informata che la visita non ci sarebbe più stata in quanto il dirigente era rimasto bloccato in costiera sorrentina per il maltempo; nel contempo le aveva detto che il dirigente sarebbe venuto direttamente in ufficio l'indomani e si era mostrato contento perchè il suo desiderio era ormai prossimo a realizzarsi.
P.R. ha, a sua volta, esposto che, nel corso di una telefonata avvenuta la domenica mattina, il C. gli aveva rappresentato che, grazie all'interessamento del C., il giorno dopo avrebbe avuto un incontro con un dirigente della ditta, il quale gli avrebbe fatto ottenere lo spostamento nell'ufficio occupato in precedenza.
S.G. ha raccontato di essere pienamente a conoscenza che il C. si stava attivando per aiutare il C. a riconquistare il posto presso l'ufficio acquisti della Novartis; che pochi giorni prima della scomparsa il C. l'aveva incaricato di recarsi dall'avv. Chianese per dirgli di non intraprendere nessuna azione legale per la vicenda lavorativa, poichè una simile iniziativa avrebbe potuto vanificare la raccomandazione che il C. era riuscito ad ottenere; che l'amico gli aveva detto che il lunedì 24/5/2004 la sua richiesta sarebbe stata finalmente soddisfatta ("So per certo che C.A. si era interessato già da tempo affinchè C. potesse ritornare all'interno dell'ufficio acquisti... Anche dinanzi a me il C. riferiva al C. che si stava interessando affinchè C. venisse trasferito presso l'ufficio acquisti. Sono a conoscenza che C. avesse consegnato all'avvocato Chianese di Napoli una voluminosa documentazione, ritenendo che il suo trasferimento era ingiusto e che per tale motivo avrebbe intentato causa alla Novartis. Tale azione non è mai stata avviata il quanto C. era sicuro che l'intervento del C. fosse risolutivo ... C. già in passato, ovvero alcuni giorni prima, aveva affermato di essere vicino al tanto agognato trasferimento, tanto che lo stesso mi chiese di interessarmi presso l'avvocato Chianese affinchè non intraprendesse nessuna azione legale che avrebbe vanificato l'eventuale raccomandazione avuta dal C. ... prepara una bottiglia di spumante perchè a mezzogiorno festeggiamo").
Infine C.E. ha ricordato di essere stato edotto dal cognato dei buoni uffici che il C. stava interponendo per favorire un incontro con un dirigente della Novartis e farlo reintegrare nel vecchio ufficio.
La veridicità di tali convergenti dichiarazioni non è revocabile in dubbio, ove si consideri la loro provenienza da soggetti (i due C., il P. e lo S.) non in contatto tra loro e che, come si vedrà in prosieguo, non hanno mostrato la minima ansia accusatoria nei confronti del prevenuto.
Falso, dunque, che quest'ultimo a far data dal 2003 non aveva più promesso al C. il suo interessamento per la risoluzione del problema lavorativo che lo angosciava.
Altrettanto falsa e frutto di millanteria l'assicurazione al C. di avere ottenuto la venuta a Napoli di un dirigente nazionale della Novartis che ne avrebbe caldeggiato il ritorno nell'ufficio acquisti.
Gli accertamenti esperiti presso l'hotel Cavour di Napoli (dove detto dirigente avrebbe alloggiato, secondo quanto C.E. aveva appreso dal marito) hanno escluso che un qualche esponente della Novartis vi abbia dimorato nei giorni 22-23-24-25/5/04; inoltre M.D., dipendente della Novartis, ha spiegato che nessun funzionario della società figurava nella lista delle persone presenti in quei giorni nell'hotel Cavour mostratagli dai carabinieri e che il 24 maggio non si era comunque verificato l'arrivo di un dirigente esterno della ditta.
Non può, invece, affermarsi in termini di certezza che il C. avesse appuntamento proprio con il C. nella prima mattina del 24/5/2004.
Nè i familiari della vittima, nè gli altri testi esaminati hanno riferito di essere a conoscenza di una simile circostanza.
C.E. ha illustrato che quel giorno il coniuge era uscito di casa intorno alle 7,10 a bordo della sua BMW, come era solito da qualche tempo perchè prima di entrare in ufficio si fermava a fare colazione con lo Starace, e che nell'andare via si era limitato a salutarla ("me ne vado. Ciao, Ciao, ci vediamo stasera), senza dirle altro.
Lo Starace ha confermato che negli ultimi tempi si recava a prelevare con la sua vettura il C. verso le 7/7,15 e lo accompagnava in ufficio, aggiungendo che in occasione di una telefonata da lui effettuata intorno alle 21,30/22 di domenica 23 maggio (è la tel. delle ore 21.53.49, risultante dal tabulato in atti) l'uomo gli aveva detto che l'indomani non gli necessitava il passaggio perchè aveva appuntamento con un amico, di cui non gli aveva però fatto il nome.
Il P. ha narrato che il C. gli aveva indicato le 9,30/10 quale orario in cui doveva incontrare la persona che avrebbe favorito il suo spostamento di ufficio, senza specificare se terze persone sarebbero state presenti a detto incontro.
Ebbene appare poco plausibile che il C., se effettivamente aveva appuntamento con il C., non ne abbia fatto il nome ai suoi interlocutori, che erano a conoscenza del coinvolgimento di costui nella vicenda Novartis, ma si sia limitato a menzionare un non meglio specificato amico.
La Corte di Assise ha motivato che la conclusione che imputato e vittima si erano incontrati in prima mattina il 24 maggio era convalidata dalla circostanza che il C. nel telefonare alle ore 7,50 di quel giorno in ufficio, per comunicare il suo arrivo in ritardo, aveva impegnato la cella presso la centrale Telecom di S. Maria la Bruna, cioè la stessa cella agganciata alle ore 18,48 del 22/5/2004 allorchè aveva chiamato il C. ("la brevità di tale telefonata di appena 11 secondi e la vicinanza tra i luoghi in cui si trovavano i due -il C. agganciava, infatti, la cella di via Nuova Tre Case di Torre del Greco, e si trovava, quindi nei pressi di casa sua- lasciano presumere un incontro concordato tra i due verosimilmente proprio laddove i due si sarebbero visti anche la mattina del 24"; fol. 18 sentenza). È tuttavia evidente che l'asserto si fonda su una duplice presunzione (che la telefonata del 22 era finalizzata a fissare un appuntamento e che l'incontro doveva avvenire nella stessa località da cui era partita questa telefonata), peraltro ben poco plausibile visto che il C. aveva promesso di recarsi il giorno 23 a casa del C. con il fantomatico dirigente.
Le perplessità sull'identità della persona con cui il C. si è incontrato quel fatidico giorno è legittimata anche dalle deposizioni di C.E. e di C.E. circa le telefonate ricevute dal congiunto nel pomeriggio del 23 maggio.
La prima ha riferito che il marito aveva intrattenuto un'animata telefonata della durata di una decina di minuti; lei non ne aveva ascoltato il contenuto perchè si trovava in un'altra stanza ed il coniuge era sceso a parlare nell'auto parcheggiata sotto casa, ma l'aveva visto agitarsi e gesticolare.
La seconda ha confermato la circostanza della telefonata "piuttosto lunga", specificando di ricordarla perchè il cognato, chiusosi nella propria vettura a parlare, appariva "piuttosto animato" ed usava un tono di voce alto.
Orbene è di palmare evidenza che la telefonata in questione non può essere quella intercorsa tra il C. ed il C., durata soltanto 57 secondi (tel. delle ore 18.56.56).
Il tabulato dell'utenza fissa installata in casa C. registra, però, una telefonata di ben 1.503 secondi, avvenuta alle ore 17.56.02 del 23 maggio, in relazione alla cui provenienza non è stata sviluppata nessuna indagine (il tabulato presenta la sola annotazione TIM e nulla è stato fatto per accertare il numero chiamante).
Non appare, perciò, possibile concludere con tranquillante sicurezza che il C. il 24 mattina si è incontrato con il C. e non piuttosto con l'ignoto interlocutore dell'accesa discussione del pomeriggio precedente.
Ma a non consentire un'univoca lettura non solamente dei dati sin qui esposti, ma di tutti gli altri elementi in base ai quali il primo giudice ha accreditato l'ipotesi accusatoria, è principalmente l'analisi dei movimenti del C. e del C. nella mattina del 24/5/2004.
La vittima è uscita di casa verso le ore 7/7,10; alle ore 7.50.19 ha telefonato in ufficio per comunicare il suo arrivo in ritardo (vedi tabulato, da cui si rileva che nell'occasione il cellulare ha agganciato la cella di Santa Maria la Bruna); è poi ritornata a casa per prendere qualcosa dal locale sottostante il suo appartamento, adibito a studiolo-deposito, e se ne è nuovamente allontanata dopo pochi minuti (F.G., vicino di casa del C., ha riferito di averlo visto rientrare nell'abitazione intorno alle ore 8 e di non averlo più scorto quando era ritornato in loco dopo una decina di minuti). Da allora se ne sono perse le tracce sino al ritrovamento del cadavere ore 18,45 circa del 26/5/2004.
Il C. ha imboccato l'autostrada Napoli-Salerno al casello di Torre Annunziata nord alle ore 8.45.51 (vedi il tabulato Telepass acquisito all'udienza del 29/9/2011) con direzione Angri dove si è incontrato con T.S. (come pacificamente attestato sia dalle dichiarazioni di quest'ultimo, sia dai tabulati telefonici che documentano l'avvenuto aggancio della cella di Angri in occasione delle telefonate delle ore 9.10.00, 9.25.38 e 9.38.12)
Ora, se si considera che per rientrare a casa dal luogo dove ha effettuato la telefonata delle 7.50.19 il C. ha impiegato circa 15 minuti (cfr. deposizione m.llo D.M., ud. 14/7/2011) e che altro tempo gli è stato necessario per compiere il prelievo dallo studiolo e per ricongiungersi con l'interlocutore, ne consegue che il C. avrebbe avuto a disposizione meno di trenta minuti per commettere l'omicidio, procedere alla decapitazione, occultare il cadavere e la BMW e raggiungere l'autostrada, dopo essersi ripulito delle tracce inevitabilmente prodotte dal taglio della testa.
Al riguardo giova sottolineare che il consulente autoptico dott. Di Meo ha spiegato che per la decapitazione era stato usato uno strumento dotato di lama notevolmente affilata (grosso coltello, falce, sciabola), ma non seghe (motoseghe, seghe a nastro) e che la sezione della metà anteriore del collo era stata eseguita con un unico taglio, mentre la sezione del settore posteriore del collo era avvenuta con più tagli.
A sua volta il consulente tecnico dott. Pierucci ha concluso che il C., all'atto della decapitazione, era in limine vitae con attività cardio-circolatoria attiva, ma a un livello minimo e con attività encefalica correlativamente in fase cessante, e che il tempo intercorso fra lesioni letifere (non precisabili) e la decapitazione era stato relativamente breve, di entità non superiore a quelle delle decine di minuti.
Ebbene è incontrovertibile che le descritte operazioni non possono essere state compiute dal C. nel delineato ristretto arco temporale (ciò senza tener conto che non è dato comprendere come mai l'imputato avesse a portata di mano lo strumento usato per la decapitazione).
L'improponibilità di una simile ricostruzione della vicenda non è sfuggita al primo giudice, il quale l'ha superata con argomenti che questo collegio non ritiene affatto condivisibili.
La Corte di Assise, precisato che il C. "era l'unico in quella specifica fase ad avere un movente" (f. 26 sentenza), ha sostenuto che il movente originario, correlato alla scoperta da parte del C. di essere stato truffato dal prevenuto, appropriatosi di somme di danaro fattesi consegnare con il pretesto di investirle in comuni prestiti usurari, si era arricchito "attualizzandosi nella mattina del 24 con la ulteriore scoperta, da parte della vittima, di essere rimasto vittima di una ulteriore millanteria truffaldina del C. e la cui inevitabile reazione ha indotto, poi, l'imputato ad agire, usando la pistola d'ordinanza..." (f. 79 sentenza).
Ha, poi, così spiegato il rientro del C. nello studiolo: "Ed è presumibile che il frettoloso rientro del C. a casa, dopo il precedente incontro con il C., che, per blandirlo, aveva probabilmente ancora una volta tentato di fargli credere che l'incontro con il dirigente non era annullato, ma solo rimandato, mirasse a reperire la documentazione per i menzionati scopi" (minaccia di una denuncia).
Per rendere questa tesi compatibile con l'incontestabile limitatissimo lasso temporale entro il quale il giudicabile avrebbe dovuto porre in essere il delitto ha, altresì, affermato che "con ogni probabilità" il C. nell'ipotesi "dell'inevitabile reazione del C. di fronte all'ennesimo raggiro, aveva "pianificato ex ante ... di ucciderlo, occultando, poi, vettura e cadavere fino a quando non fu pianificata e compiuta, con l'aiuto di qualche complice, tutta la successiva operazione di decapitazione, collocamento del cadavere nel luogo ove fu rinvenuto e di distruzione della vettura" (f. 31 sentenza).
L'illustrato iter motivazionale, oltre a fondarsi, ad evidenza, su mere congetture, presenta incongruenze di ordine logico e contrasta inesorabilmente con univoche emergenze processuali.
Il giudicante ha basato la tesi del tentativo dell'imputato di convincere ancora una volta il C. circa la veridicità del suo interessamento per il problema lavorativo sull'asserzione del m.llo D.M. che il C., nell'avvisare in ditta del ritardo, aveva rappresentato ai col leghi che sarebbe giunto con un alto funzionario.
Ma l'inconfutabile dimostrazione che le parole del m.llo D.M. sono frutto di un ricordo impreciso è fornita dalle deposizioni di tutti i dipendenti della Novartis esaminati, i quali hanno concordemente escluso di avere ricevuto una simile notizia e che il C. aveva solo comunicato il suo arrivo in ritardo (per la verità lo stesso m.llo D.M. aveva chiarito di non avere identificato lui interlocutore del C. e che gli "sembrava" fosse stato escusso; f. 31 ud. 16/2/2011).
In ogni caso resterebbe, poi, da chiedersi il perchè del ritorno a casa del C. se il C. era comunque riuscito a convincerlo della bontà del suo interessamento e della venuta in mattinata del dirigente nella sede della Novartis.
In realtà il rapido rientro nell'abitazione risulta poco conciliabile con l'impianto accusatorio. Invero:
- il C. era consapevole delle somme ricevute dal C., per cui non vi era motivo che quest'ultimo gli mostrasse la documentazione conservata al riguardo;
- gli appunti da cui è stata desunta l'esistenza di questo rapporto sono stati trovati in occasione della perquisizione dello studiolo, onde dovrebbe presumersi che il C. ne conservasse più copie;
- i presunti beneficiari del prestito usurano, H.A. e C.C., hanno escluso di avere mai conosciuto o parlato con il C., per cui non si comprende in che modo la vittima poteva essere venuta a conoscenza dell'inesistenza del prestito, non ancora venuto a scadenza.
Appare, pertanto, di pari se non maggiore dignità l'ipotesi che il C. sia tornato nello studiolo per essere stato proprio lui richiesto dall'interlocutore, il quale in questo caso non può identificarsi nel C., di esibire documentazione che giustificasse il suo operato (sulle molteplici attività economiche intraprese dalla vittima e sul tema della causale dell'omicidio si ritornerà in seguito).
La prospettata tesi che l'imputato, di fronte alla minaccia del C., abbia fatto fuoco con la pistola d'ordinanza e si sia limitando ad occultare il cadavere e la BWM, per procedere solo in prosieguo di tempo al taglio della testa con l'aiuto di un complice è, poi, categoricamente smentita dalla precisazione del dott. Pierucci che la decapitazione è avvenuta quando il C. era ancora in limine vitae, con attività cardio-circolatoria ed encefalica ancora attiva, sia pure in fase cessante.
È, a sua volta, assolutamente inverosimile che qualcuno sia si reso complice dell'omicidio senza averne il benchè minimo interesse, visto che l'individuata ed accreditata causale riguarda esclusivamente il C.; nè è credibile che costui sia riuscito a coinvolgere altri una così raccapricciante impresa solo in virtù delle sue capacita "affabulatorie" e per le "ragioni non completamente esplorate, ma certamente sospette" adombrate in sentenza.
L'impossibilità di accedere alla ricostruzione di questi salienti e fondamentali momenti dell'azione delittuosa incide inevitabilmente sulla valutazione degli altri elementi esaltati come indiziari dal primo giudice.
L'argomentazione che la decapitazione sia stata l'obbligata conseguenza dell'avvenuto uso da parte del C. della pistola d'ordinanza, per il pericolo che dall'eventuale ritenzione del proiettile scaturisse insormontabile prova di accusa a suo carico, non supera il livello di semplice congettura.
La difesa si è dilungata nel sostenere, anche con la produzione di consulenze di parte, che la presenza di residui dello sparo sugli abiti della vittima (sono state rivenute le seguenti particelle esclusive piombo/antimonio /bario: 1 sul lato anteriore destro della giacca; 3 sul lato anteriore sinistro della giacca; 3 sul lato posteriore della giacca; 1 sul lato anteriore sinistro dei pantaloni; 1 sul lato anteriore della camicia) era frutto di contaminazione, dovuta alla non corretta procedura di repertazione e conservazione degli indumenti, e non idonea a dimostrare che il C. era stato ucciso con un colpo di arma da fuoco, tanto più che l'autopsia non aveva potuto accertare la causa della morte per l'assenza della testa.
Vero che dalla documentazione fotografica in atti è possibile constatare che l'incombente non è stato eseguito con particolare cautela (ad esempio i vestiti sono stati poggiati sul guardrail e maneggiati senza guanti dal personale intervenuto in loco), ma, a parere di questa Corte, siffatte modalità operative possono avere portato alla dispersione di altre tracce piuttosto che all'inquinamento di quelle riscontrate dal consulente m.llo Gravina.
Così pure poco significativa è l'obiezione secondo cui molto difficilmente proiettili cal. 9 parabellum NATO, con i quali sono camerate le pistole del carabinieri, non fuoriuscirebbero dalla scatola cranica, specialmente se esplosi da distanza ravvicinata: innanzitutto una simile eventualità non può totalmente escludersi, come riconosciuto anche dagli esperti della difesa; inoltre lo sparatore ben potrebbe essere stato indotto all'atroce gesto per prevenire qualsiasi rischio.
Assume, invece, peculiare rilievo la circostanza che la pistola di ordinanza del C. è risultata completa di tutti i proiettili in dotazione.
In proposito non può non sottolinearsi una delle non poche lacune di cui è costellata l'attività investigativa: l'arma in questione non è stata sequestrata nè quando gli inquirenti hanno iniziato a nutrire i primi sospetti nei confronti del prevenuto e neppure quando è stata emessa l'ordinanza cautelare nei suoi confronti (come ricordato annullata dalla Suprema Corte), ma è stata ritirata, solo a distanza di tempo, allorchè il C. è stato sospeso dal servizio perchè responsabile di abbandono di posto!
Nel riferire la circostanza il Cap. Mastrogiacomo Domenico (ud. 25/5/2011, f. 18) ha rappresentato che nessun proiettile risultava mancante (altrimenti il C. avrebbe dovuto essere sottoposto ad altro procedimento per  reato   militare ; f. 30 ibidem) e che non era stato effettuato nessun accertamento balistico sulla pistola.
Risultano, pertanto, del tutto privi di significato i controlli svolti per verificare se il giudicabile aveva partecipato ad esercitazioni di tiro uno o più mesi prima del delitto, argomento su cui pure si è soffermata la Corte di Assise.
Il fatto che il C. abbia o meno preso parte ad esse (l'acquisito libretto di tiro, per le plurime assenze di vidimazioni e le imprecisioni che contiene dà ben poca affidabilità) non ha alcun riflesso sul problema che qui ne occupa.
Invero se è stato l'odierno appellante a sparare al C. occorrerebbe spiegare come è poi riuscito a reintegrare la propria dotazione di proiettili, impresa non facile visto che quelli cal. 9 parabellum NATO non sono agevolmente reperibili.
Inoltre i proiettili assegnati a ciascun carabiniere sono annotati sul registro di armeria e nessuna anomalia è stata segnalata al riguardo.
L'analisi dei movimenti del C. nei giorni 24 e 25 maggio 2004 non consente, poi, un loro collegamento alla vicenda omicidiaria.
Dai tabulati del telepass e del telefono cellulare dell'imputato emergono, in particolare, i seguenti suoi movimenti nella mattina del 24 maggio:
- alle 8.45.51 imbocca l'autostrada NA-SA a Torre. Annunziata nord in direzione Salerno;
- alle 9.10.00, 9.05.55 (telefonata in cui contatta G.A.), 9.25.38, 9.38.12, 9.34.34 il suo cellulare impegna la cella di Angri;
- alle 9.40.55 da Telepass imbocca l'autostrada ad Angri con direzione Napoli;
- alle 10.3.16 impegna la cella di via G. Ferraris, Napoli;
- alle ore 11.03.24 da Tabulato impegnata cella via Volpicelli NA;
- alle ore 11.21.09, 11.22.16, 11.34.31, 11.36.36, 11.39.44 (telefonata in cui chiama di nuovo G.A.) impegna celle di Torre del Greco (via Litoranea e via Nuova Tre Case, strada dove è sita la sua abitazione);
- alle ore 13 prende servizio in caserma (turno lavorativo 13-19).
L'ipotesi che questi movimenti e le spiegazioni fornite al riguardo, anche da testi ritenuti compiacenti, sono finalizzati alla precostituzione di un alibi dopo la consumazione dell'omicidio si scontra con l'inoppugnabile dato sopra evidenziato che il prevenuto non può avere commesso l'azione delittuosa contestatagli entro le ore 8,45.
La circostanza che il T. è stato sentito a s.i.t. alle ore 2,56 della notte, venendo prelevato presso la propria abitazione nel momento in cui il C. si trovava nella caserma dei CC di Castello di Cisterna e forniva dichiarazioni sui suoi spostamenti del 24 maggio (assumendo, peraltro, in quel momento la veste di indagato), rende, del resto, difficilmente praticabile l'ipotesi di una concordata intesa fraudolenta tra i due, tesa a confermare l'avvenuto loro incontro verso le ore nove di quella mattina; incontro, peraltro, pacificamente verificatosi come emerge, tra l'altro, dalla consultazione dei tabulati telefonici.
Le argomentazioni svolte per sostenere la falsità delle dichiarazioni sugli ulteriori percorsi effettuati quel giorno prescinde innanzitutto dalla considerazione che i ragguagli in proposito sono stati indicati dal C. in occasione del primo interrogatorio, quando cioè non aveva cognizione degli sviluppi investigativi, in particolare delle acquisite risultanze dei tabulati, e non gli era possibile "aggiustare" la propria versione in base ad essi.
L'affermazione che l'imputato ha mentito nel sostenere che, nel tornare a casa, si era fermato presso il "Punto Blu" per informazioni circa il mancato pagamento di un pedaggio contestato al padre C.L., si fonda, poi, sull'esito delle indagini esperite presso la tangenziale di Napoli, dalle quali era emerso che non risultava rilevata nessuna infrazione al riguardo relativamente alle auto tg. (...) - GR 222403 - GR 084882 - GR 065359 - RM 34943P - PT 216304, nonchè ai nominativi C.A. e C.L..
Anche in questo caso si è, però, in presenza di accertamenti non completi in quanto la difesa ha prodotto documentazione (raccomandata della Autostrade Meridionali inviata a C.L. il 23/4/2004) attestante che effettivamente a costui era stato addebitato il mancato pagamento del pedaggio per il transito avvenuto in data 15/8/2003, ore 20,04, dell'auto Opel Agila tg. (...).
L'assunto che ravvisa un'ulteriore menzogna del giudicabile nella dichiarazione di avere quella mattina desistito dal recarsi a casa di G.A. per avergli costui rappresentato la propria indisponibilità a riceverlo, dovendo recarsi al funerale del proprio padrino morto il giorno precedente, è contrastata dalla circostanza che effettivamente il 23 maggio risulta deceduto E.R. (padrino del G.) e che il funerale ha avuto luogo alle ore 12,30 del 24/5 con partenza del feretro dalla casa dell'estinto alle ore 12,15; ed è pienamente credibile che il G., così come sostenuto, si sia portato, secondo consuetudine in caso di decesso di persona cui si è legata da stretti svincoli di amicizia, a rendere l'estremo saluto all'E. prima dell'inizio del corteo funebre.
Quanto alla mattina del 25/5/2004 è pacifico che il C. si è arbitrariamente allontanato dal posto di servizio dalle ore 9,35 circa (alle alle 9,34 è in caserma ed alle 9,38 il suo cellulare aggancia la cella di piazzale Tecchio) alle 10,56 circa (ora in cui è sicuramente di nuovo in caserma; vedi dep. m.llo D.M., ud. 14/7/2011); per questo  reato   militare ha riportato condanna definitiva.
Non è stato, però, acquisito nessun elemento che consente di connettere questa condotta con il delitto per cui è processo.
Le dichiarazioni reste dall'appellante sugli spostamenti effettuati in questo arco di tempo (essersi recato dapprima in Tribunale per controllare se l'indomani si sarebbe regolarmente celebrata l'udienza preliminare di un procedimento a suo carico, per portarsi successivamente Afragola dove si era incontrato con G.A. dal quale aveva ricevuto una somma di denaro poi consegnata a G.I.) non risulta affatto incompatibile con l'analisi dei dati forniti dai tabulati, come motivato in sentenza, ma appare anzi in linea con essi.
L'uso dell'autovettura di servizio consentiva al C. di accedere alla struttura giudiziaria senza sottopori ad alcun controllo e di raggiungere rapidamente gli ascensori, peraltro non costantemente affollati in specie quelli laterali.
Il m.llo D.M., dal suo canto, ha affermato che nell'arco di tempo 9,55-10,17 (in cui risultano rispettivamente agganciate le celle della tangenziale e di via Brin) è possibile andare all' Euromercato di Casoria e ritornare in via Brin ("sì, si può fare..."; ud. 14/7/2011).
I registrati contatti telefonici con G.I. (ore 9.32.12) e con G.A. (ore 9.44.57) rendono, poi, plausibile la versione dell'imputato di avere concordato con costoro l'appuntamento presso l'Euromercato di Casoria.
Il G., il G. e la moglie I.E. hanno, del resto, confermato l'avvenuto incontro.
Le perplessità espresse in sentenza circa la reale natura di questi rapporti patrimoniali sono più che legittime, ma trovano idonea e logica spiegazione con le molteplici iniziative patrimoniali del prevenuto (condannato per il delitto di usura commesso, in concorso con il C., in danno di P.R.), certamente lesive del prestigio della divisa che ha indossato.
Nulla consente, invece, di mettere in relazione questo episodio con l'assassinio del C..
Le argomentazioni sviluppate in proposito dal primo giudice restano al livello di pura illazione: "Sorgeva, quindi, la necessità di spiegare le ragioni di quel comportamento, tenuto quando, presumibilmente, gli autori dell'omicidio del C. ancora si arrovellavano e si attivavano per cancellare le tracce di quel delitto, far sparire la vettura, stabilire le modalità della collocazione del cadavere nel luogo prescelto" (f. 44 sentenza).
Il C. è stato ammazzato nella prima mattina del 24 maggio: gli assassini (ma, come già detto, l'uso del plurale, decisamente pertinente, esclude la praticabilità della ritenuta causale del delitto) hanno, dunque, avuto quasi un'intera giornata e tutta la notte per decidere il da farsi, per cui è davvero inverosimile che l'abbiano concordato nel breve periodo in cui il C. si è allontanato dalla caserma.
Semplicemente fantasiosa, poi, l'ipotesi investigativa enunciata dal m.llo D.M. secondo cui in questo giro il C. aveva voluto controllare se la BMW del C. era ancora nel parcheggio di via Brin (portata lì da chi?, quando? come?). Lo stesso militare ha, del resto, ammesso che la teoria non si fondava su nessun elemento concreto: "Noi pensavano, ma è una mia ipotesi, che quella mattina abbia potuto controllare se la macchina BMW, fosse ancora lì".
Analoghe considerazioni valgono per quel che concerne le speculazioni relative ai movimenti del C. la sera del 25/5/200.
La Corte di Assise, ritenendo inverosimili le indicazioni fornite dal giudicabile circa i movimenti di quella serata, ne ha dedotto che in quel lasso di tempo egli si sarebbe sbarazzato del cadavere, collocandolo nel luogo di rinvenimento.
Anche in questo caso la conclusione formulata in sentenza è meramente congetturale.
Questi gli spostamenti del C., desumibili dai tabulati:
- alle 21.28 imbocca l'autostrada a Torre Annunziata con direzione Napoli;
- alle 21.52.42 impegna la cella via Brin, settore 7, nel ricevere una telefonata da parte di R.R.;
- alle 23.05.10 aggancia la cella S. Pietro a Patierno - località Locatelli settore 7 e chiama G.;
- alle 23.41.59 impegna la cella Centro Direzionale-palazzo Abaco isola E2 settore 8; - alle 23.44.49 aggancia la cella di via Brin settore 8 e telefona a casa.
Si è, così, argomentato che nel periodo di "buio" di circa 2 ore il prevenuto si sarebbe portato lungo la SS 7 bis del Comune di Frignano ed avrebbe depositato i cadavere del C. al di là del guardrail, per poi raggiungere l'abitazione del G. e crearsi un alibi.
Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che la cella agganciata alle 23.05 copre un tratto della circumvallazione esterna di Casoria, che è una delle possibili strade per ritornare da Frignano a via Brin.
Premesso che accedendo alla propugnata ricostruzione il tempo a disposizione del C. andrebbe ridotto a meno di 1 ora (alle 21.52 si trova ancora in via Brin ed alle 23.05 sarebbe già sulla strada del ritorno da Frignano dopo avere compiuto la lugubre operazione) appare opportuno evidenziare che la cella di Casoria è installata nei pressi dell'aeroporto di Capodichino, non molto distante da via Brin.
Inoltre non è agevolmente spiegabile perchè l'imputato dopo essere andato a Frignano sia ritornato a Napoli, prima di muoversi alla volta della casa del G. sita in Afragola.
Ciò a voler tacere che neppure dai tabulati è stato acquisito un qualche elemento certo che attesti il passaggio dell'appellante in Frignano.
A contrastare ulteriormente ed in maniera determinante l'impianto accusatorio è, poi, la circostanza che gli accurati accertamenti eseguiti dal consulente tecnico del P.M., dott. Cesare Rapone effettivo presso il RIS dei Carabinieri di Roma, hanno escluso in maniera perentoria che all'interno dell'auto del C. fossero presenti tracce ematiche o genetiche ricollegabili al collocamento in essa di un cadavere.
Invero è inconfutabile che le peculiari condizioni della salma e degli abiti del C. (corpo privo della testa con i tessuti del collo da cui fuoriusciva materiale organico, agglomerati di larve di larve bianche in regione clavicolare destra e sulla spalla destra, maglietta vastamente imbrattata di sangue, camicia impregnata di sangue nella parte posteriore, giacca imbrattata di sangue; vedi consulenza autoptica) avrebbero lasciato nell'Opel Astra significative tracce non eliminabili neppure con il lavaggio.
A ciò aggiungasi che il complicato trasbordo del cadavere di un soggetto obeso (cfr. sempre autopsia) avrebbe macchiato ed insudiciato la persona ed i vestiti di colui che l'aveva effettuato.
Infine non è neppure possibile stabilire con sicurezza l'epoca dell'abbandono del corpo del C..
Il dott. Di Meo (s.i.t. 27/11/2004, acquisite all'udienza del 23/3/2011), illustrato che il carattere dei fenomeni putrefattivi risultava compatibile con un'esposizione del cadavere al sole per un periodo di circa 12 ore, ha tuttavia chiarito che, avendo esaminato il cadavere a distanza di più di 24 ore, non era in grado di dire se i fenomeni putrefattivi sarebbe stati più intensi in caso di esposizione del cadavere per un tempo maggiore. Ha, altresì, spiegato che sui fenomeni in questione incidono varie cause ed in particolare la temperatura ambientale.
Ora, dal momento che non è dato sapere dove ed in che modo è stato occultato in un primo momento il cadavere del C. è di tutta evidenza che la tesi di un suo posizionamento al km. 1,900 della SS 7 bis Comune di Frignano nell'arco temporale sopra specificato non può trovare affatto concreto accredito.
Le esposte osservazioni esonerano dal dilungarsi sulla congruità delle spiegazioni fornite dall'imputato in ordine al tragitto compiuto ed al tempo impiegato.
Le dichiarazioni rese in proposito sono analiticamente riportate nella sentenza di primo grado, cui si fa sul punto rinvio.
La Corte di Assise le ha ritenute inaffidabili in quanto progressivamente adattate allo sviluppo delle indagini, smentite dalla perizia medico-legale eseguita dal dott. Paudi (che aveva escluso la riconducibilità della piccola lesione a livello della eminenza tenare della mano destra del C. all'estrazione di un lamierino dalla ruota) e non corroborate dalle dichiarazioni manifestamente compiacenti del G. e della moglie I.E..
In realtà i vari resoconti del prevenuto non appaiono contraddittori, ma coerenti tra loro.
Correttamente la difesa ha evidenziato che il primo racconto è avvenuto quando l'uomo è stato sentito come persona informata sui fatti, per cui non è stato richiesto nè aveva ragione di illustrare in dettaglio i propri movimenti; nei successivi verbali ha offerto una descrizione sempre più particolareggiata ma in linea con le precedenti.
Le conclusioni formulate dal dott. Paludi sono, poi, state aspramente criticate dal consulente di parte dott. Picciocchi, il quale, nel sostenere la piena compatibilità della lesione alla mano destra del C. con le modalità da costui rappresentate, non ha esitato a definire l'elaborato del C.T. del P.M. infarcito da "tante imprecisioni, contraddizioni, affermazioni antiscientifiche, congetture infondate". In particolare, rimarcato che il dott. Paludi aveva riferito di avere riscontrato la presenza di una cicatrice rotondeggiante, non granulare (particolare ribadito anche a fi 5 della relazione), di forma semiellittica, a livello della eminenza tenare della mano destra del C., ha specificato che quando non vi è tessuto di granulazione non vi è cicatrizzazione (che costituisce esito di ferite profonde fino e oltre il derma), per cui la soluzione di continuo traumatica non era una ferita (e l'imputato aveva riferito in sede di anamnesi che non era fuoriuscito sangue) ma una modestissima lesione epidermica superficiale. Ulteriori imprecisioni segnalate riguardano l'ambigua indicazione della forma della presunta cicatrice (definita alternativamente rotondeggiante, ellissoidale, semiellissoidale e lineare), la natura della lesione, la modalità ed mezzo di produzione.
Orbene deve convenirsi che le osservazioni formulate dal dott. Picciocchi sono fondate su argomentazioni di indiscutibile rigore scientifico, come tali idonee a contrastare più che efficacemente i risultati della consulenza del dott. Paludi.
Il dato, in uno quelli esaminati in precedenza, non consente di attribuire valenza indiziaria alle dichiarazioni del G., anche a volerle ritenere di comodo.
Nessun dubbio che le "assolute certezze" da costui proclamate (rectius verbalizzate) nella fase istruttoria ("escludo nella maniera più categorica che lo stesso abbia fatto uso della mia utenza fissa o cellulare"; "Non mi ha fatto presente nel modo più assoluto che aveva avuto un problema con alla sua auto"; "No, nel modo più assoluto il C. si è lavato le mani a casa mia") divergono con la deposizione dibattimentale, in cui il teste ha riferito che l'amico era andato in bagno (pur non potendo precisare se per lavarsi le mani o per un bisogno fisiologico), aveva telefonato in caserma dall'utenza fissa di casa per annunciare il suo arrivo e gli aveva parlato del problema alla ruota che aveva provocato il suo arrivo in ritardo.
Non può, tuttavia, non sottolinearsi come l'unica circostanza su cui è possibile una verifica oggettiva attesta la fallacia dell'originario ricordo e l'esattezza di quanto detto in udienza: infatti il tabulato dell'utenza fissa del G. (081/8695147) registra una telefonata diretta alla Caserma Cesare Battisti, dove all'epoca prestava servizio in C., effettuata alle ore 00.08.21 del 26/5/04; il brig. V.L. ha, dal suo canto, confermato che in tale telefonata il C. gli aveva comunicato che stava giungendo in caserma per dargli il cambio (previsto per le ore 1,00 e tempestivamente avvenuto).
L'insufficiente quadro probatorio sin qui evidenziato risulta anche svilito dall'assoluta inadeguatezza della ritenuta causale, che individua nel C. l'unico titolare di un movente all'eliminazione del C., costituito dal timore che costui lo denunciasse.
Si è già spiegato che:
- è materialmente impossibile che l'imputato, di fronte alla minaccia formulatagli quella mattina stessa dalla vittima (questa è la tesi accusatoria), abbia potuto in meno di trenta minuti sparare all'interlocutore, procedere alla decapitazione (con un arnese fortuitamente in suo possesso), occultare adeguatamente cadavere e BMW ed imboccare l'autostrada, dope essersi ripulito del sangue di cui si era necessariamente macchiato;
- è altrettanto del tutto impraticabile l'ipotesi, formulata in sentenza, secondo cui il prevenuto ha dapprima ammazzato il C. e si è avvalso soltanto in un secondo momento dell'ausilio di un complice per eseguire il taglio della testa e nascondere il corpo e l'auto dell'ucciso, ostandovi la rigorosa precisazione del dott. Pierucci che la decapitazione è avvenuta quando la vittima era in limine vitae;
- è assolutamente inverosimile che taluno si sia prestato a coadiuvare il giudicabile in un così feroce delitto senza averne il minimo interesse;
- non è stato acquisito nessun elemento da cui desumere che la vittima aveva acquisito scienza della truffa patita dall'odierno appellante;
Non appare, poi, neppure plausibile che il C. si sia spaventato a tal punto a seguito della dedotta intimidazione del C. da porre in essere una reazione talmente efferata, tanto più che, grazie all'esperienza maturata nei vari anni di militanza nell'Arma, era ben in grado di rendersi conto che una simile accusa sarebbe stata ben difficile da dimostrare e che l'omicidio avrebbe invece portato alla luce l'attività usuraria che conduceva il combutta con la vittima.
Nè può trascurarsi che il C. per incolpare il C. avrebbe dovuto accusare anche sè stesso, il che rendeva ancora meno credibile l'eventuale minaccia.
Le emergenze dibattimentali hanno, peraltro, evidenziato che il C. era impegnato in una molteplicità di iniziative economiche (vedi il prospetto "Riepilogo depositi al 13/5/03" in atti) in cui non era implicato il prevenuto, come, ad esempio, il prestito usurano nei confronti dello "amico" Starace e l'investimento effettuato tramite L.A. (in occasione del quale il C. aveva preteso che costui sporgesse denuncia-querela contro P.F., presunto promotore finanziario cui era stato consegnato il denaro e che è rimasto vittima di un tentativo di omicidio in data 11/12/2003 per il quale sono stata emesse ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di personaggi del salernitano).
Di tutto ciò si è reso pienamente conto il P.G., il quale nella sua requisitoria ha argomentato che imputato e vittima, privi di grandi disponibilità finanziarie, erano verosimilmente coinvolti in operazioni di riciclaggio di denaro altrui (probabilmente di organizzazioni malavitose) e che inconvenienti nello svolgimento di questa illecita attività erano alla base della spietata esecuzione.
Tesi suggestiva questa, ma sfornita di ogni riscontro processuale in assenza di una qualsiasi indagine al riguardo.
Unica pronunzia in armonia con le analizzate risultanze processuali è, dunque, quella fondata sulla regola di giudizio contenuta nel capoverso dell'art. 530 c.p.p.
All'assoluzione del C. conseguono l'immediata sua liberazione se non detenuto per altro e la revoca delle pene accessorie applicategli. Ai sensi dell'art. 544 c.p.p., in considerazione della complessità della motivazione, il termine per il deposito della presente sentenza va fissato in giorni novanta.

P.Q.M.

Letti gli artt. 605 e 530, comma secondo, c.p.p.,
in riforma della sentenza emessa in data 7/11/2011 dalla Corte di Assise di Napoli ed appellata da C.A., assolve il C. dalle imputazioni ascrittegli e ne ordina l'immediata liberazione se non detenuto per altro.
Revoca le pene accessorie applicategli.
Letto l'art. 544 c.p.p. indica in giorni novanta il termine per il deposito della sentenza.
Così deciso in Napoli, il 19 aprile 2013.
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2013.
Avv. Antonino Sugamele

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