c.p. art. 185 - Restituzioni e risarcimento del danno
c.p. art. 185 - Restituzioni e risarcimento del danno
Sommario . Le conseguenze civili del reato. Cenni introduttivi - . Natura giuridica dell'art. 185 -3. Rapporti tra art. 185 e art. 2043 c.c. -4. Il concetto di "reato" di cui all'art. 185 - . Art. 185, comma 1°: l'obbligo delle restituzioni - . Art. 185, comma 2°: il risarcimento del danno patrimoniale - 7. (Segue) Il risarcimento del danno non patrimoniale -. I soggetti obbligati «a norma delle leggi civili»1. Le conseguenze civili del reato. Cenni introduttivi
Da un comportamento che costituisce, al tempo stesso, sia un illecito penale che un illecito civile possono derivare conseguenze di diversa natura: oltre alle pene e alle misure di sicurezza la commissione di un reato può comportare, infatti, anche conseguenze sul piano civilistico.
Il legislatore del 1930 ha dedicato un intero Titolo del Libro I del codice penale - il Titolo VII - alle «sanzioni civili», all'interno del quale si fa riferimento alle obbligazioni civili verso le vittime del reato (restituzioni e risarcimento del danno), alle obbligazioni civili nei confronti dello Stato (rimborso delle spese per il mantenimento del condannato) e agli strumenti per assicurarne l'adempimento (sequestro e azione revocatoria). Negli ultimi articoli del Titolo VII è contemplata, infine, la disciplina delle obbligazioni civili per le multe e per le ammende aventi carattere sussidiario a carico di persone fisiche o giuridiche. Fatta eccezione per quest'ultima tipologia di obbligazioni, l'estinzione del reato o della pena non determinerà l'estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato (v., tuttavia, sub artt. 188 e 198 a proposito dell'obbligo di rimborso delle spese di mantenimento del condannato e dell'intervenuta morte del reo dopo la sentenza o il decreto penale irrevocabili di condanna).
Le conseguenze civili del reato non si esauriscono in quelle contemplate all'interno del codice penale, cui si è appena fatto riferimento, ma è possibile individuarne diverse all'interno del codice civile o delle leggi civili speciali. A titolo esemplificativo, si pensi all'indegnità a succedere (art. 463 c.c.), alla revocazione della donazione per ingratitudine (art. 801 c.c.), alla revoca dell'adozione (art. 51, L. 4.5.1983, n. 184), alla possibilità per il coniuge di domandare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 3, L. 1.12.1970, n. 898).
Occorre segnalare, inoltre, che nel nostro sistema penale l'adempimento dell'obbligazione restitutoria e risarcitoria può incidere sulla commisurazione della pena. Si pensi a quanto disposto dall'art. 62, n. 6, il quale prevede come circostanza attenuante l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento e, quando possibile, mediante le restituzioni.
L'adempimento dell'obbligazione in discorso può influire, altresì, sull'esecuzione o sulla durata della pena stessa. A tal proposito è possibile richiamare, ad esempio, quanto disposto dall'art. 165 secondo cui la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all'adempimento dell'obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno. Inoltre, l'art. 176, 4° co. subordina la concessione della liberazione condizionale all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, a meno che il condannato non dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle.
È possibile, allora, affermare che l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 185 rappresenta anche uno degli elementi di valutazione dell'illecito penale e del suo autore.
C., Sez. II, 19.4.2017, n. 29713: al risarcimento del danno non è applicabile la disciplina di cui all'art. 2, ma quella di cui all'art. 11 disp. prel. c.c., secondo cui agli effetti civili la legge non dispone che per l'avvenire.
2. Natura giuridica dell'art. 185
L'art. 185, dedicato alle restituzioni e al risarcimento del danno, svolge un ruolo di primo piano nell'ambito della disciplina delle sanzioni civili conseguenti al reato, ponendosi come «ponte fra sistema penale e sistema civile colorando, una misura (il risarcimento), tipicamente rientrante in quest'ultimo, di connotazioni sanzionatorie proprie del primo» (Zeno Zencovich, Sanzioni civili conseguenti al reato, in Digesto pen., XIII, Torino, 1997, 5).
Sebbene il risarcimento del danno da reato presenti dei tratti punitivi che, in talune ipotesi, possono apparire maggiormente incisivi delle sanzioni penali, la dottrina non è unanime sulla sua natura giuridica.
Si registrano, infatti, opinioni oscillanti tra la riconducibilità di tale istituto alla categoria delle sanzioni civili e la ricostruzione del risarcimento del danno da reato come sanzione penale. La maggior parte della dottrina opta per la prima soluzione, riportando l'istituto in discorso nell'alveo delle sanzioni civili. Ciò, in primo luogo, perché lo scopo del risarcimento consiste nella riparazione di un danno, mentre la pena assolve alla funzione di retribuzione, e di prevenzione generale e speciale; in secondo luogo, perché accanto all'autore del fatto, è obbligato al risarcimento anche il responsabile civile, mentre il destinatario della pena può essere soltanto il soggetto attivo del reato; infine, un'ulteriore conferma della natura civile del risarcimento conseguente al reato sembrerebbe confermata, in un'ottica letterale e sistematica, dalla sopravvivenza delle obbligazioni derivanti dal reato, nonostante l'avvenuta estinzione del reato o della pena (Manzini, III, 226; Palmieri, Le "sanzioni civili" del reato nel processo penale, Milano, 2002, 102; M. Romano, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in RIDPP, 1993, 875). Chi opta per la natura civile dell'obbligazione, negando che il risarcimento del danno da reato possa definirsi una pena, neppure privata, auspica che anche in futuro il legislatore mantenga la struttura del risarcimento del danno nell'ambito civilistico (Romano, sub art. 185, in Comm. Romano, Grasso, Padovani, PG, III, 336).
Secondo un'altra ottica, riflettendo sull'obbligo al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti al reato come previsto dall'art. 185 - in riferimento ai quali l'art. 2059 c.c., invece, si limita a riconoscerne la risarcibilità nei casi determinati dalla legge - sembrerebbe che la questione del risarcimento di tale tipologia di danni sia integralmente demandata alla sfera penale. Ne consegue che l'intima connessione tra reato e risarcimento dei danni non patrimoniali comporta l'attribuzione della natura di vera e propria sanzione penale (Pagliaro, PG, 721) o di sanzione civile punitiva (Busnelli, Verso una riscoperta delle "pene private"?, Milano, 1985, 3).
In particolare, parte della dottrina osserva che, se le sanzioni della restituzione e del risarcimento del danno patrimoniale hanno natura civile, il risarcimento dei danni non patrimoniali presenta una duplicità di caratteri: un carattere risarcitorio nel contenuto e un carattere afflittivo sul piano teleologico. Ed è proprio quest'ultima caratteristica che consentirebbe di qualificarlo come una sanzione penale e, più precisamente, l'unica sanzione penale applicabile a prescindere dallo svolgimento del processo penale (Pagliaro, PG, 721).
Infine, vi è chi ha disegnato il risarcimento del danno da reato come una sanzione che si connota per una natura mista, presentando sia dei caratteri di diritto civile, sia dei caratteri di diritto penale (Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in RIDPP, 1987, 3).
3. Rapporti tra art. 185 e art. 2043 c.c.
Il richiamo della disposizione in esame alle leggi civili induce l'interprete a interrogarsi sul rapporto tra la disciplina di cui all'art. 185 e quella civilistica di cui all'art. 2043 c.c., secondo cui «qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Se una prima analisi delle due disposizioni potrebbe condurre a ravvisare nell'art. 185 una mera duplicazione del disposto di cui all'art. 2043 c.c., un più attento esame, invece, consente l'individuazione di ulteriori chiavi di lettura. L'art. 185 potrebbe essere considerato una figura particolare di illecito civile, dotata di autonomia ontologica rispetto alle tradizionali categorie civilistiche ed ispirata a principi informatori specifici e differenti: una fattispecie di responsabilità che viene a connotarsi su un rapporto di causalità giuridica tra qualunque fatto dotato di rilevanza penale e qualunque danno, patrimoniale o non patrimoniale, da questo cagionato (Dassano, Il danno da reato. Profili sostanziali e processuali, Torino, 1992, 69). Altri ritengono, poi, che tra le due norme intercorra un rapporto di genere a specie: l'art. 185 si presenta come norma speciale rispetto all'art. 2043 c.c. in quanto al suo interno si specificano i tipi di danno risarcibile, patrimoniale e non patrimoniale, e il fatto ingiusto, costituito dal fatto di reato (Romano, sub art. 185, 348).
La giurisprudenza di legittimità, da un lato, ha affermato che la causa del danno e la fonte della relativa obbligazione restitutoria o risarcitoria debbano essere costituite dal reato, secondo il disposto dell'art. 185 e che la norma de qua, lungi dal rafforzare la tesi del carattere meramente sanzionatorio del diritto penale, costituisce il fondamento delle obbligazioni ex delicto, delineandone la natura autonoma ed originale siccome correlata eziologicamente alla commissione di un fatto costituente reato (C., Sez. I, 26.5.1981); dall'altro, ha affermato che il diritto alla restituzione ed al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale ha natura civilistica e che le disposizioni dell'art. 185 non hanno efficacia costitutiva di tali diritti, ma mera funzione di regole integratrici dei generali principi degli artt. 2043 e 2059 c.c., che ne fanno un'enunciazione ed un'applicazione più ampia di quella penale (C., Sez. VI, 21.1.1992).
L'esposizione volontaria ad un rischio da parte del danneggiato o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole, costituendo un antecedente causale necessario del verificarsi dell'evento ai sensi dell'art. 1227 c.c., è idonea ad integrare una corresponsabilità di quest'ultimo con conseguente, proporzionale, riduzione della responsabilità del danneggiante (C., Sez. III, 20.1.2016, n. 6119).
In caso di annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, devono applicarsi anche in sede civile le regole di giudizio del diritto penale (C., Sez. IV, 5.4-22.6.2018, n. 29083).
4. Il concetto di "reato" di cui all'art. 185
Il riferimento al "reato" contenuto all'interno dell'art. 185 va inteso come delitto (anche tentato) o contravvenzione, compresi i reati di pericolo (C., Sez. III, 12.1.1984; C., Sez. I, 1.7.1980). L'affermazione della penale responsabilità comporta per l'imputato la responsabilità civile per il danno ex delicto che, pur non identificandosi con l'evento, è conseguenza necessaria dell'evento stesso (C., Sez. III, 9.11.2016-12.1.2017, n. 1301). La responsabilità per il danno derivante da reato comprende anche i danni mediati ed indiretti che costituiscano effetti normali dell'illecito secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (C., Sez. V, 21.12.2016, n. 4701).
La legittimazione all'azione civile nel processo penale va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell'azione, in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio ed indipendentemente dalla effettiva titolarità del vantato diritto al risarcimento dei danni, il cui accertamento riguarda il merito della causa (C., Sez. II, 21.10.2014, n. 49038).
La dottrina prevalente ritiene che tale concetto stia a indicare la presenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa da cui è derivato il danno (Romano, sub art. 185, 352; Fondaroli, Risarcibilità del danno non patrimoniale, reato e colpa (civilmente) presunta, in DPP, 2004, 576).
La giurisprudenza, invece, è di diverso avviso. La Cassazione, in sede civile, ha affermato che la risarcibilità del danno non patrimoniale, a norma dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185, non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come tale (C. civ., Sez. III, 20.7.2002). In un'altra occasione i giudici di legittimità hanno chiaramente sottolineato che alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c. e 185 non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell'autore del danno se essa, come nei casi di cui agli artt. 2051 e 2054 c.c., «debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato» (C. civ., Sez. III, 12.5.2003). E sui medesimi presupposti la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., affermando che in sede civile è possibile avvalersi delle presunzioni di colpa senza che occorra dimostrare l'esistenza in concreto del reato. Il riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 va inteso, secondo la Corte costituzionale, come astratta fattispecie di reato e da ciò ne deriverebbe l'irrilevanza dell'accertamento della colpa e la possibile applicazione dei parametri presuntivi previsti per l'accertamento della responsabilità civile (C. Cost., 11.7.2003, n. 233). La Corte, senza mezzi termini, ha infatti chiarito che «il riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 non postula più, come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge» (C. Cost., 11.7.2003, n. 233).
Parte della dottrina ha posto in evidenza le assurdità che potrebbero derivare da siffatta interpretazione, in quanto lo stesso reato, se esaminato in sede civile, mediante l'applicazione del sistema delle presunzioni, potrebbe dare luogo al risarcimento, mentre, se giudicato in sede penale, potrebbe non raggiungersi il medesimo risultato. Infatti, il titolare del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale costituitosi parte civile nel processo penale, sarà vincolato all'accertamento in concreto del reato, nel rispetto dei principi dell'ordinamento penale, non potendo ricorrere alla «astratta previsione di una figura di reato»: ne deriva che il mancato raggiungimento della prova della responsabilità penale dell'imputato per mancanza di configurazione dell'elemento soggettivo non potrebbe condurre ad una condanna al risarcimento del danno non patrimoniale a favore della parte civile. Invece, il ricorrente che agisca in sede civile potrà beneficiare, sulla base dell'interpretazione dell'art. 2059 c.c., offerta dalla Corte costituzionale, delle presunzioni ammesse dal codice civile (Fondaroli, 578). Tali osservazioni non perdono la loro validità nonostante sia possibile che l'azione di risarcimento abbia un iter autonomo rispetto al procedimento penale e che vi siano esiti contrastanti tra il giudizio penale e quello civile, così come si evince dall'art. 75 c.p.p. Il mutamento dei rapporti tra processo penale e processo civile non giustifica lo svilimento del principio di colpevolezza.
In una recente pronuncia la Cassazione ha nuovamente ribadito che anche nel caso in cui l'accertamento della responsabilità è stato effettuato in base a colpa presunta, senza alcun concreto accertamento e qualificazione del fatto come reato, il danno non patrimoniale è risarcibile, non essendo necessario che il fatto illecito integri in concreto un reato punibile, per concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale, essendo invece sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto come reato e sia conseguentemente idoneo a ledere l'interesse tutelato dalla norma penale, ricomprendendosi in questa ipotesi anche la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c. (C. civ., Sez. III, 18.8.2011).
In tema di reati colposi conseguenti alla circolazione stradale, il giudice del merito deve procedere all'accertamento e alla graduazione delle colpe concorrenti dell'autore del reato e della persona offesa, sia ai fini della determinazione della pena da applicare sia perché la misura del concorso di colpa della vittima nella causazione del danno incide sulla quantificazione del risarcimento (C., Sez. IV, 27.6.2017, n. 38559).
In tema di responsabilità solidale per fatto altrui, come nell'ipotesi di cui all'art. 2054, 3° co., (responsabilità del proprietario del veicolo) la Cassazione ha affermato che detta responsabilità ha pur sempre come limite l'illecito colpevole dell'autore immediato. In tale ipotesi, in tema di danno non patrimoniale, l'accertamento dell'elemento soggettivo del reato andrà sempre effettuato, sia pure con riferimento all'autore immediato e, una volta accertata l'esistenza degli elementi astrattamente costitutivi del reato a carico dell'autore immediato, ne risponde oggettivamente ed indirettamente il soggetto obbligato per fatto altrui (C. civ., Sez. III, 27.10.2004).
La giurisprudenza riconosce la risarcibilità del danno non patrimoniale, a norma dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 anche con riguardo al fatto, configurabile astrattamente come reato (nella specie lesioni colpose), che sia stato commesso da un soggetto non imputabile perché minore degli anni quattordici (C. civ., Sez. III, 20.11.1990; nello stesso senso C. civ., S.U., 6.12.1982; C. civ., Sez. III, 20.11.1990; C. civ., Sez. III, 18.6.1985; C. civ., Sez. III, 30.1.1985). È stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno anche nel caso di estinzione del reato o della pena per amnistia (C. civ., Sez. I, 10.11.1997; C. civ., Sez. I, 19.8.1995), di perdono giudiziale (A. Milano, 21.5.1974), di prescrizione del reato (C. civ., Sez. III, 23.6.1999; C. civ., Sez. III, 2.2.1991). La declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione impone al giudicante di pronunciarsi rispetto agli interessi civilistici sottesi al processo, solo là dove sia già intervenuta in primo grado sentenza di condanna dell'imputato, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato (C., Sez. IV, 19.1.2016, n. 3789). Inoltre, la Cassazione ha ammesso il risarcimento del danno non patrimoniale anche nel caso in cui l'autore non risulti perseguibile stante la presenza di una causa di non punibilità, come quella prevista dall'art. 649 concernente i delitti contro il patrimonio, commessi a danno di congiunti (C. civ., Sez. I, 15.3.2001).
A seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 15.1.2016, n. 7 con abrogazione di numerose fattispecie di reato e loro trasformazione in illeciti civili (v. ad es. sub art. 594) è sorta questione circa la possibilità per il giudice dell'impugnazione, in caso di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato quale illecito civile, di decidere, contestualmente alla dichiarazione che il fatto non è più previsto come reato, sull'impugnazione ai soli effetti civili ovvero se debba revocare le statuizioni civili (nel senso favorevole al mantenimento, in capo al giudice penale della impugnazione contro sentenza di condanna, del potere di decidere il ricorso agli effetti civili: C., Sez. II, 27.4.2016, n. 29603; C., Sez. II, 23.3.2016, n. 14529; C., Sez. V, 15.2.2016, n. 14041; C., Sez. V, 9.2.2016, n. 7124; in senso contrario: C., Sez. II, 10.6.2016, n. 26091; C., Sez. II, 9.6.2016, n. 26071; C., Sez. V, 10.5.2016, n. 32198; C., Sez. V, 1.4.2016, n. 16147; C., Sez. V, 9.3.2016, n. 14044; C., Sez. V, 19.2.2016, n. 15634).
La questione (rimessa alle Sezioni unite da C., Sez. II, 15.6.2016, n. 26092 e da C., Sez. V, 9.2.2016, n. 7125) è stata risolta nel senso che: 1) in caso di condanna o decreto irrevocabili, relativi ad un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, il giudice dell'esecuzione revoca il provvedimento perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili, atteso che il venir meno della condanna non può incidere sulla cristallizzazione del giudicato riguardo ai capi civili della sentenza; 2) È inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile, ai soli effetti civili, avverso una sentenza di assoluzione per un reato abrogato e qualificato come illecito civile dal D.Lgs. 15.1.2016, n. 7, atteso che, in assenza di efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile, non è ravvisabile un interesse della parte civile alla impugnazione finalizzata ad impedirne l'operatività (in senso conforme: C., Sez. II, 27.4.2016, n. 20206; in senso difforme: C., Sez. V, 1.6.2016, n. 32792; C., Sez. V, 24.2.2016, n. 16131); 3) il giudice dell' impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili, fermo restando il diritto della parte civile di agire ex novo nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l'eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile (C., S.U., 29.9-7.11.2016, n. 46688).
5. Art. 185, comma 1°: l'obbligo delle restituzioni
Il primo comma dell'art. 185 stabilisce che «ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili».
La dottrina maggioritaria ritiene che tale obbligo comprenda tanto le restituzioni in senso stretto, intendendovi la traditio materiale o simbolica delle cose, quanto l'eliminazione dell'illecitamente realizzato con il reato. La restituzione, quindi, consiste anche nella restitutio in integrum (Antolisei, PG, 841; Fiandaca, Musco, PG, 851; Pagliaro, PG, 718; Nappi, Zagrebelsky, Restituzioni, in EG, XXVII, 1). Sul punto, però, non vi è unanimità di opinioni. Vi è chi, ad esempio, preferisce optare per un'accezione più ristretta del concetto di restituzione, ritenendo che l'obbligo alla restitutio in integrum non possa essere ricondotto all'art. 185, 1° co. e reputando, invece, più corretta l'interpretazione che lo riporta al secondo comma della medesima norma e che lo ascrive all'ambito del risarcimento (Romano, sub art. 185, 349).
La giurisprudenza ha affermato che l'obbligo alla restituzione di cui al 1° comma comporta a carico dell'autore del reato non solo la riconsegna delle cose sottratte, ma anche la restitutio in integrum, ossia il ripristino della situazione preesistente al reato (C., Sez. VI, 30.11.1989, nel caso di specie l'imputato, chiamato a rispondere del delitto di cui all'art. 392 era stato condannato alla remissione in pristino di una conduttura di cui aveva tagliato il tubo che immetteva acqua potabile in un immobile altrui).
Il giudice penale, nel condannare l'imputato alla restituzione in favore della parte civile del bene immobile il cui trasferimento ha costituito l'oggetto della condotta criminosa, può dichiarare la nullità del contratto di compravendita che lo riguarda per violazione di disposizioni di ordine pubblico, in ragione delle esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale (C., Sez. II, 6.12.2016, n. 54561).
In caso di costruzione abusiva che violi, oltre alle disposizioni incriminatrici, anche le norme civilistiche a tutela dei privati confinanti, la pendenza di procedura amministrativa per il rilascio di provvedimento concessorio non osta al riconoscimento, in favore della parte civile richiedente, del risarcimento nella forma specifica del ripristino dello stato dei luoghi (C., Sez. III, 28.5.2013, n. 37224).
6. Art. 185, comma 2°: il risarcimento del danno patrimoniale
Occorre avvertire che il danno (patrimoniale e non patrimoniale), cui si fa riferimento nell'art. 185, non coincide con l'offesa necessaria per la configurabilità del reato poiché si tratta di due categorie concettualmente distinte: mentre il danno è riconducibile alle conseguenze pregiudizievoli di natura privata, patrimoniali o non patrimoniali, derivanti dal reato e che debbono essere risarcite, per offesa deve intendersi la lesione o messa in pericolo del bene giuridico specificamente tutelato dalla fattispecie incriminatrice.
Legittimato all'esercizio dell'azione civile nel processo penale non è solo il soggetto passivo del reato, ma anche il danneggiato che abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo del reato; tale rapporto di causalità sussiste anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia determinato uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (C., Sez. I, 21.10.2014, n. 46084); di conseguenza, ove un reato si inquadri nel piano criminoso di una associazione per delinquere, la vittima del reato fine di rapina è legittimata a costituirsi parte civile sia per il reato fine che per quello associativo (C., Sez. II, 13.1.2015, n. 4380).
Il risarcimento del danno consiste nel pagamento di una somma di denaro equivalente al pregiudizio cagionato mediante il reato. Tale sanzione troverà applicazione qualora non sia possibile procedere alla restituzione o nel caso in cui questa non sia sufficiente a riparare il pregiudizio arrecato.
Il danno da reato, patrimoniale e non patrimoniale, risarcibile ex art. 185 c.p., non può essere identificato nel mero fatto nell'avvenuta integrazione dell'illecito previsto dalla fattispecie incriminatrice, con la conseguenza che il giudice penale, quando afferma la effettiva sussistenza del danno, non può motivare la condanna, anche generica, al risarcimento con affermazioni da cui è desumibile che il pregiudizio è ravvisato in re ipsa (C., Sez. III, 27.3.2015, n. 33001).
Il danno patrimoniale, cui fa riferimento l'art. 185, 2° co., si identifica nel danno emergente (perdite economiche subite in conseguenza dell'illecito) e nel lucro cessante (mancato guadagno). In materia vige il principio della integrale riparazione: il giudice deve, quindi, provvedere alla liquidazione dell'intero ammontare del danno e, nel caso in cui questo non possa essere determinato con precisione, vi provvederà con valutazione equitativa, così come previsto dall'art. 1226 c.c.
La responsabilità civile derivante da reato ha ad oggetto ogni danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo del reato, e tale rapporto di causalità sussiste anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia prodotto uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (C., Sez. VI, 2.12.2014, n. 11295). La condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile presuppone l'accertamento, secondo le regole probatorie proprie del giudizio penale, della sussistenza del reato e della riferibilità dello stesso all'imputato (C., Sez. IV, 1.7.2015, n. 33815). Nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione, nel conseguente giudizio di rinvio, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità commissiva, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale e non quelle del diritto civile, essendo in questione il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell'art. 74 c.p.p., innanzi al giudice penale (C., Sez. IV, 4.2.2016, n. 27045).
L'obbligazione civile del risarcimento del danno derivante da reato costituisce un debito di valore e non di valuta; tale debito è, quindi, soggetto al fenomeno della svalutazione monetaria allorché sia soddisfatto con apprezzabile ritardo, fenomeno di cui deve tenere conto il giudice nel procedere alla sua liquidazione, poiché il danneggiato ha il diritto di vedere ripristinato il suo patrimonio con riferimento al valore della moneta al momento della pronuncia (C., Sez. II, 24.11.1980; nello stesso senso: C., Sez. IV, 11.4.1983; C., Sez. IV, 18.3.1983). E anche se il danno è stato liquidato con criteri equitativi il giudice dovrà adeguare il quantum alla svalutazione monetaria verificatasi (C., Sez. IV, 22.6.1989).
L'azione civile per le restituzioni e/o il risarcimento del danno nel processo penale non spetta iure successionis ai successibili che non siano eredi e quindi successori universali (C., Sez. II, 5.4.2011, n. 14251, che ha evidenziato come i prossimi congiunti della vittima abbiano però la legittimazione ad agire iure proprio per il ristoro dei danni patrimoniali e soprattutto non patrimoniali sofferti). In caso di uccisione di un familiare, ai congiunti superstiti spettano iure proprio il risarcimento dei danni patrimoniali e morali (essendovi reato), e iure successionis il risarcimento del danno biologico cosiddetto terminale spettante al soggetto deceduto, nei casi in cui il decesso sia intervenuto al termine di una agonia e non sia stato istantaneo o quasi (C., Sez. IV, 14.6.2011, n. 32137). La circostanza di aver intrattenuto rapporti con un congiunto, morto a causa di un fatto illecito costituente reato, solo mediante messaggi sms o sul social network facebook è insufficiente a far ritenere provata la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo con il defunto che consente alla parte civile di ottenere jure proprio il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti (C., Sez. IV, 9.2.2017, n. 11428).
La legittimazione all'azione civile nel processo penale va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell'azione, in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio ed indipendentemente dalla effettiva titolarità del vantato diritto al risarcimento dei danni, il cui accertamento riguarda il merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza, ed è collegato all'adempimento dell'onere deduttivo e probatorio incombente sull'attore (C., Sez. IV, 18.2.2016, n. 14768).
Nel processo instaurato per l'accertamento della responsabilità da reato dell'ente non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l'istituto non è previsto dal D.Lgs. 8.6.2001, n. 231 e l'omissione non rappresenta una lacuna normativa, ma corrisponde ad una consapevole scelta del legislatore (C., Sez. VI, 5.10.2010-22.1.2011, n. 2251; sul tema: C., Sez. IV, 17.10.2014-27.1.2015, n. 3786).
7. (Segue) Il risarcimento del danno non patrimoniale
L'art. 185, 2° co. dispone che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga il colpevole al risarcimento, mentre l'art. 2059 c.c. prevede che il danno non patrimoniale sia risarcibile soltanto «nei casi determinati dalla legge».
Al di fuori dei casi determinati dalla legge, la tutela è oggi estesa dalla elaborazione giurisprudenziale esclusivamente ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. Tuttavia, tale risultato interpretativo è stato raggiunto faticosamente.
La nozione di danno non patrimoniale costituisce, infatti, il frutto di un'evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità che, nel corso degli anni, è giunta a ridurre sensibilmente le distanze tra responsabilità da reato e responsabilità da illecito civile. Occorre, al riguardo, ricordare che, all'epoca dell'emanazione del codice civile, l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale si considerava racchiusa nell'art. 185 del codice penale del 1930 e consisteva nel risarcimento del c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte.
La Cassazione, nel superare tale concezione, ha affermato che nel vigente assetto dell'ordinamento - nel quale assume posizione preminente la Costituzione, che all'art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica (C. civ. 31.5.2003, n. 8828; C. civ. 31.5.2003, n. 8827).
Il danno non patrimoniale è stato distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico (lesione dell'integrità psichica e fisica della persona), morale (patema d'animo interiore) ed esistenziale (lesione di interessi inerenti alla persona, intesa come alterazione peggiorativa delle attività attraverso le quali l'individuo esplica la sua personalità).
Distinzione che ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., ha fornito un espresso riconoscimento alla categoria del danno esistenziale come terza sottocategoria di danno non patrimoniale (C. Cost., 11.7.2003, n. 233).
Le Sezioni Unite civili (C. civ., S.U., 11.11.2008, n. 26972, congiuntamente ad altre tre pronunce in pari data, aventi la stessa motivazione), chiamate a pronunciarsi a proposito della controversa figura del danno esistenziale, hanno fornito una compiuta lettura dell'art. 2059 c.c., affermando a chiare lettere che il danno non patrimoniale deve essere inteso come una categoria unitaria, nel cui ambito non è utile né necessario individuare distinte e autonome sottocategorie di danno se non a meri fini descrittivi e di ausilio per il giudice. Pertanto, la distinzione tra danno morale, danno biologico e danno esistenziale, seguita nel corso degli anni da dottrina e giurisprudenza, può essere mantenuta attribuendole, però, esclusivamente una mera valenza descrittiva.
In particolare, le Sezioni Unite mostrano di condividere la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., così come emersa da precedenti pronunce della Suprema Corte (C. civ., 24.4.2007; C. civ. 31.5.2003, n. 8828; C. civ. 31.5.2003, n. 8827) secondo cui nel nostro ordinamento, in virtù della preminente posizione della Costituzione, che all'art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica. Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri, anche solo astrattamente, come reato il danno non patrimoniale risarcibile (sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati) dovrà essere inteso proprio nell'accezione appena richiamata.
Le S.U. apportano alcune significative precisazioni in tema di danno morale, ribadiscono che la tradizionale figura del danno morale soggettivo transeunte è da considerarsi ormai superata ed evidenziano l'impossibilità di fare riferimento ad essa come ad un'autonoma sottocategoria di danno, trattandosi, invece, di una formula che descrive un tipo di pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata; sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono alcuna rilevanza ai fini dell'esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
In presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti alla persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale (C. civ., S.U., 11.11.2008, n. 26972).
A proposito del danno biologico, tradizionalmente comprensivo del danno alla vita di relazione, le Sezioni Unite ne precisano, poi, i rapporti con il danno morale soggettivo, nel senso che, nell'ottica della Corte, quest'ultimo sarà contenuto nel primo: il danno morale soggettivo sarà risarcibile autonomamente solo qualora si tratti di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Per la configurabilità del danno morale, quindi, il turbamento e la sofferenza morale non possono ridondare in alterazioni patologiche, fisiche o mentali che, invece, rientrano, nel danno biologico.
Quanto alla controversa figura del danno esistenziale, in presenza di un fatto che costituisce reato, la Cassazione ritiene possibile risarcire il pregiudizio non patrimoniale consistente nella sofferenza morale determinata «dal non poter fare»: superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, consistente in un patema d'animo transeunte, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nella sofferenza morale determinata, appunto, dal non poter fare è risarcibile. Se non si tratta di reato o di ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale previsti dalla legge, i pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona (C. civ., S.U., 11.11.2008, n. 26972).
Il riconoscimento della tutela risarcitoria di tale danno risulta ancorato al verificarsi di un pregiudizio che costituisca conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, ricavabile dall'ordinamento, purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica ex art. 2043 c.c. e sicuro indice della piena rilevanza dell'interesse leso è la previsione della tutela penale.
In definitiva, secondo le Sezioni Unite, il danno non patrimoniale potrà essere risarcito in tre ipotesi: nel caso in cui il fatto illecito è previsto dalla legge come reato; negli altri casi stabiliti espressamente dal legislatore, anche al di fuori di una ipotesi di reato; quando l'illecito abbia violato diritti della persona costituzionalmente garantiti (C. civ., S.U., 11.11.2008, n. 26972).
La giurisprudenza maggioritaria si è allineata con tali argomentazioni. Ad esempio, in tema di risarcimento del danno da atti di libidine commessi nei confronti di una minore, la Cassazione ha affermato che il principio dell'unitarietà del danno non patrimoniale, quale categoria omnicomprensiva che include anche il danno biologico ed il danno da reato, impone al giudice di procedere ad una valutazione ponderale analitica che tenga conto del diverso peso dei beni della vita compromessi, e segnatamente della libertà e della dignità umana, pregiudicati da atti di corruzione posti in essere da un adulto con dolo ed in circostanze di minorata difesa, nonché della salute psichica, gravemente pregiudicata in una fase fondamentale della crescita umana e della formazione del carattere e della disponibilità a relazionarsi nella vita sociale, non potendo attribuirsi a priori un maggior rilievo al danno biologico rispetto al danno morale, il quale non si configura esclusivamente come pretium doloris, ma anche come risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (C. civ., Sez. III, 11.6.2009). In caso di lesioni conseguenti a infortunio stradale, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, rientrando tra i diritti fondamentali della persona, in quanto riguardante il diritto alla salute, spetta a tutte le persone, indipendente dalla cittadinanza (italiana, comunitaria ed extracomunitaria) e, quando il fatto illecito integri gli estremi di un reato, spetta alla vittima nella sua più ampia accezione, comprensiva del danno morale, inteso come sofferenza soggettiva causata da reato, del quale il giudice dovrà tener conto nella personalizzazione del danno biologico, non essendo consentita una liquidazione autonoma (C. civ., Sez. III, 24.2.2010).
Occorre avvertire, tuttavia, che la giurisprudenza incontra comunque delle difficoltà nel procedere all'auspicata unificazione del danno ex art. 2059 c.c. La giurisprudenza di merito (T. Milano, 16.12.2009), in un caso di richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali dei genitori di una minorenne che aveva subito atti sessuali da parte di suoi coetanei, pur sottolineando, uniformemente alla citata pronuncia delle Sezioni Unite del 2008, la necessità di evitare duplicazioni risarcitorie, ha affermato che, nel caso di specie, il risarcimento del danno biologico può assorbire solo le sofferenze ad esso intimamente connesse, meritando, invece, autonomo apprezzamento il profilo di danno non patrimoniale consistente nella penosa consapevolezza di essere stata vittima di abuso e nella lesione dell'inviolabile diritto alla libertà sessuale. Il Tribunale ha affermato che la lesione del diritto alla libertà sessuale assume un autonomo rilievo rispetto alle sofferenze e ai turbamenti psichici che quella violenza naturalmente comporta. Il giudice di merito, quindi, non ha ritenuto che tale danno potesse essere ricompreso nel danno biologico (T. Milano, 16.12.2009).
Dunque, non sempre la giurisprudenza successiva al 2008 ha fatto proprie le argomentazioni delle Sezioni Unite sulla natura unitaria di danno non patrimoniale. In qualche pronuncia, infatti, si continua a distinguere tra diverse sottocategorie di danno che vengono tra loro diversamente considerate, sia sotto il profilo delle modalità di accertamento del pregiudizio arrecato, sia ai fini della liquidazione del risarcimento dovuto (C. civ., Sez. III, 3.2.2011).
Per quanto concerne, poi, la liquidazione del danno biologico la Cassazione, recentemente, ha puntualizzato che, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Secondo i giudici di legittimità tale uniformità di trattamento è garantita mediante il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale - e al quale la Cassazione, in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. - salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono (C. civ., Sez. III, 7.6.2011).
La valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (C., Sez. V, 22.6.2013, n. 35104).
Merita di essere brevemente segnalato, infine, come il legislatore, sebbene si tratti di un intervento concernente una materia specifica - quale è quella riguardante i termini e le modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero (D.P.R. 3.3.2009, n. 37) - si sia posto in contrasto rispetto all'orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite del 2008, affermando la diversità tra danno morale e biologico, prevedendo che il primo venga calcolato in aggiunta al secondo.
La liquidazione del danno morale è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, tuttavia, il dovere di dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del risarcimento (C., Sez. IV, 1.4.2015, n. 18099).
In caso di determinazione equitativa del danno morale cagionato dalla commissione di reati sessuali in danno di minori d'età il giudice deve tener conto dell'intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonché dell'incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima (C., Sez. III, 13.2-12.3.2018, n. 10802; C., Sez. III, 9.3.2011, n. 13686). In caso di violenza sessuale nei confronti di minorenne, il danno biologico non deve necessariamente essere liquidato mediante applicazione del criterio tabellare adottato dalla giurisprudenza civile, potendo il giudice ricorrere anche a criteri equitativi in ragione della natura non patrimoniale del pregiudizio sofferto, tenendo conto tuttavia della valutazione medico-legale eventualmente presente in atti ed indicativa anche della percentuale di invalidità riscontrata a carico della vittima (C., Sez. III, 18.7.2014, n. 46170).
È configurabile il danno morale ai danni di un soggetto minacciato nell'integrità fisica e perciò sottoposto a scorta personale, in virtù della patita compressione della libertà di movimento e della vita professionale e di relazione (C., Sez. feriale, 11.9.2012, n. 45002).
L'Agenzia delle entrate costituita parte civile ha diritto al risarcimento sia del danno patrimoniale - che non coincide con la mera misura dell'imposta evasa, ma deve tener conto anche del danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell'attività di accertamento tributario - che del danno morale - inteso come pregiudizio alla credibilità nei confronti di tutti i consociati dell'organo accertatore (C., Sez. fer., 1.8.2013, n. 35729).
L'emissione di rumori e polveri sottili da parte di un impianto industriale comporta un danno morale risarcibile per i soggetti abitanti nelle zone circostanti, stante il pregiudizio arrecato alla vita quotidiana delle persone ed il perturbamento psicologico risentito in relazione alle possibili conseguenze nocive per la salute (C., Sez. I, 28.5.2013, n. 31477).
Il danno subito dalla P.A. per effetto della lesione all'immagine è risarcibile anche qualora derivi dalla commissione di reati comuni posti in essere da soggetti appartenenti ad una pubblica amministrazione (C., Sez. II, 7.2.2017, n. 29480).
Con riferimento al danno ambientale si è affermato che il danno, necessariamente diverso da quello della lesione dell'ambiente come bene pubblico, risarcibile in favore delle associazioni ambientaliste costituite parti civili nei procedimenti per reati ambientali, può avere natura, oltre che patrimoniale, anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all'attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (C., Sez. III, 17.1-23.5.2012, n. 19439).
Le tabelle milanesi costituiscono un valido parametro di riferimento per il risarcimento del danno, il giudice deve esplicitare le ragioni per le quali nel caso concreto la somma in essa prevista quale ristoro del danno patito debba essere considerata maggiore per la particolare gravità delle sofferenze patite dalle parti civili rispetto a quelle che generalmente conseguono ad un similare evento luttuoso (C., Sez. IV, 17.12.2014, n. 3802).
8. I soggetti obbligati «a norma delle leggi civili»
Oltre all'autore del fatto dannoso anche altri soggetti possono, secondo le norme civilistiche, essere obbligati al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale. Questo è ciò che precisa espressamente l'art. 185, 2° co.
Nonostante la lettera dell'art. 185 si riferisca specificamente all'obbligo risarcitorio, la dottrina ritiene ammissibile che l'obbligo ripristinatorio possa gravare anche sul responsabile civile, oltre che sull'autore del reato (De Caro, Responsabile civile, in Digesto pen., XII, Torino, 1997, 96).
Il responsabile civile è il soggetto giuridico tenuto al risarcimento dei danni in quanto obbligato a rispondere per il fatto altrui, ex artt. 185 e 83 c.p.p. (C., Sez. IV, 1.2.2012, n. 10701, che ha dichiarato illegittima la decisione che abbia ritenuto la responsabilità diretta, per fatto proprio, di colui che rivestiva nel processo la qualità di responsabile civile).
Si pensi, in primo luogo, alle norme civilistiche che fissano i criteri di imputazione del danno nei confronti dei genitori e dei precettori (art. 2048 c.c.).
La giurisprudenza ha precisato che la responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c. per il fatto illecito dei figli minori, cui fa riferimento l'art. 185, si fonda non soltanto sul difetto di sorveglianza del figlio, ma anche sulla mancata o trascurata educazione del medesimo. La responsabilità stessa è presunta ed il genitore non può liberarsi da essa se non dimostrando l'assenza di ogni colpa precedente il fatto illecito nell'esercizio dei doveri relativi all'educazione del figlio (C., Sez. II, 28.10.1975).
Si pensi, ancora, a quanto previsto dall'art. 2049 c.c. secondo cui i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
In un caso concernente un impiegato di banca, condannato per aver raggirato un cliente attraverso la falsificazione delle attestazioni bancarie sull'acquisto di titoli, la Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità dell'istituto di credito poiché l'azione criminosa era risultata riferibile alle funzioni legittimamente esercitate all'interno dell'organizzazione dell'ufficio da parte dell'imputato, il quale dei compiti attribuitigli si era giovato al fine di trarre in inganno la vittima, contando proprio sull'affidamento da quest'ultima riposto nell'operato di un soggetto inserito nella organizzazione della banca. In tale occasione la Cassazione ha precisato che ai fini del riconoscimento della responsabilità risarcitoria del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2049 c.c. per il reato commesso dal proprio dipendente, deve restare provato, tra l'evento pregiudizievole e l'ambito delle mansioni attribuite al dipendente, un rapporto di occasionalità necessaria, che si ravvisa quando l'attività svolta dal lavoratore abbia determinato, nella sua estrinsecazione, una situazione tale da agevolare, o comunque rendere possibile, il fatto illecito, anche se, nella condotta delittuosa, il dipendente abbia superato i limiti delle incombenze connesse alle mansioni attribuitegli (C., Sez. II, 7.11.2000). Non è necessaria l'esistenza di uno stabile rapporto di lavoro subordinato, ma è sufficiente che l'autore del fatto illecito sia legato all'imprenditore temporaneamente od occasionalmente e che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso (C., Sez. V, 22.3.2013, n. 32462).
Non è configurabile la responsabilità civile della società per i danni da reato commessi dai soci o dagli amministratori nell'interesse proprio, non potendo essa trovare fondamento né nell'art. 2049 c.c. per mancanza di un rapporto di subordinazione tra società e soci o amministratori, né nel principio di immedesimazione, che presuppone, invece, che gli atti illeciti siano, o si manifestino, come esplicazione dell'attività dell'ente (C., Sez. VI, 22.5.2013, n. 24548).
In tema di responsabilità civile da reato fondata sull'art. 2049 c.c. sussiste la responsabilità del committente per l'attività illecita posta in essere dall'agente anche privo del potere di rappresentanza, quando la commissione dell'illecito sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze demandate a quest'ultimo e il committente abbia avuto la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza (C., Sez. V, 9.2.2016, n. 7124).
La responsabilità civile della P.A. per il reato commesso dal dipendente presuppone un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti svolti, anche se il soggetto ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti (C., Sez. III, 5.6.2013, n. 40613). Non è configurabile responsabilità civile della P.A. quando il dipendente, nello svolgimento delle mansioni affidategli, commetta un illecito penale per finalità di carattere personale, di fatto sostituite a quelle dell'ente pubblico di appartenenza ed, anzi, in contrasto con queste ultime (C., Sez. VI, 27.3.2013, n. 26285).
Il Ministro dello sviluppo economico non può essere considerato responsabile civile per i reati commessi dal commissario liquidatore delle procedure fallimentari relative ad imprese esercenti l'attività di intermediazione finanziaria, non essendo quest'ultimo, ancorché di nomina ministeriale, inserito nell'organizzazione funzionale del dicastero (C., Sez. VI, 27.9.2012, n. 41520).
Il Codice delle assicurazioni private (D.Lgs. 7.9.2005, n. 209) che disciplina l'assicurazione obbligatoria in materia di circolazione dei veicoli a motore e dei natanti - introdotta con L. 24.12.1969, n. 990, modificata con L. 26.2.1977, n. 39 e con L. 19.2.1992, n. 142 oggi abrogata e sostituita dal Codice delle assicurazioni private - all'art. 144 prevede l'azione diretta del danneggiato nei confronti dell'assicuratore, responsabile civile in solido con l'assicurato, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto.
Infine, si è precisato che, in tema di assicurazione obbligatoria per la circolazione dei veicoli, la responsabilità civile dell'assicuratore nei confronti del danneggiato si estende anche al danno derivante da fatto illecito doloso (C., Sez. I, 27.10.2009).
Il contratto assicurativo, volto a coprire i rischi connessi all'attività imprenditoriale del datore di lavoro ed a risarcire i danni che da essa eventualmente derivino, ha effetti vincolanti tra i soli contraenti, tanto è che il danneggiato non ha, in sede civile, azione diretta nei confronti dell'assicuratore, che legittimamente viene estromesso dal giudizio non ricorrendo l'ipotesi di responsabile civile ex lege (C., Sez. IV, 9.2.2017, n. 24910; C., Sez. IV, 22.12.2016-23.1.2017, n. 3335).
14-11-2018 14:35
Richiedi una Consulenza