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Sentenza

Un sottufficiale di ispezione rivolge ad un subordinato l'epiteto
Un sottufficiale di ispezione rivolge ad un subordinato l'epiteto "coglione".
Cassazione penale, sez. I, 22/01/2014, (ud. 22/01/2014, dep.18/02/2014),  n. 7575
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE PRIMA PENALE                         
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. SIOTTO    Maria Cristina -  Presidente   -                     
Dott. ZAMPETTI  Umberto        -  Consigliere  -                     
Dott. LOCATELLI Giuseppe       -  Consigliere  -                     
Dott. LA POSTA  Lucia          -  Consigliere  -                     
Dott. MAGI      Raffaello -  rel. Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da: 
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI ROMA; 
nei confronti di: 
          T.M. N. IL (OMISSIS); 
avverso  la sentenza n. 107/2012 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA,  del 
19/12/2012; 
visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 22/01/2014 la  relazione  fatta  dal 
Consigliere Dott. RAFFAELLO MAGI; 
Udito  il  Procuratore Generale in persona del  Dott.  Flamini  Luigi 
Maria che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; 
Udito  il  difensore  Avv. Bruno P. che ha  chiesto  il  rigetto  del 
ricorso. 
                 


Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 19 dicembre 2012 la Corte Militare di Appello mandava assolto T.M. dal reato di ingiuria ad inferiore di cui all'art. 196 c.p.m.p., comma 2.

In ciò la Corte ribaltava l'esito del giudizio di primo grado (sentenza emessa dal tribunale Militare di Verona il 17 aprile 2012) che era consistito nella affermazione di penale responsabilità.

Il capo di imputazione formulato nei confronti del T., quanto alla specifica condotta, testualmente recita "a seguito di una discussione vertente la effettuata sostituzione del personale precedentemente comandato di servizio disposta dall'inferiore P.M., offendeva il prestigio l'onore e la dignità di quest'ultimo pronunciando al suo indirizzo e in sua presenza frasi del tipo coglione, sei un lottatore di sumo, fammi vedere cosa sai fare". Il fatto risulta avvenuto in (OMISSIS).

Ad avviso della Corte di Appello, nel ricostruire l'intera vicenda che aveva portato al contrasto tra i due, da un lato va affermato che la prova circa l'effettiva attribuzione al T. dei contenuti verbali descritti nella imputazione appariva frutto essenzialmente della versione fornita dal P., non supportata da adeguati riscontri ed in taluni punti non affidabile, dall'altro pur se dette espressioni (ed in particolare il termine "coglione" ritenuto più significativo) fossero state effettivamente pronunziate dal T. verso il P. (come, invero, risulterebbe confermato dalla testimonianza resa dal teste A.M.) ciò non sarebbe espressivo di un retrostante elemento psicologico teso ad offendere l'inferiore.

Il fine perseguito dal T. non sarebbe stato, in sostanza, quello di offendere l'onore o la dignità del P..

Ciò perchè andava valutato l'intero antecedente causale del contrasto insorto tra i due. Il P., infatti, aveva poco prima destinato - senza averne il relativo potere - un marinaio in servizio di guardia allo svolgimento di altro servizio, senza renderne edotto il T. (Capo Sezione Unità e Sottufficiale di Ispezione). Da ciò la reazione del T. verso il P., dovuta anche al fatto che la condotta di quest'ultimo era stata convalidatà dal superiore del T. - il comandante L.G. - in ciò verificandosi uno scavalcamento anomalo del ruolo svolto dal T. nella gerarchia e nelle competenze funzionali. Ciò conduce la Corte ad affermare - almeno sotto il profilo probabilistico, che l'epiteto coglione, ben lungi dall'assurgere a strumentalizzazione del rapporto di subordinazione gerarchica esistente tra il T. e il P. abbia costituito semplice, pur se volgare e colorita, manifestazione di dissenso in ordine alla mancata tutela di un tale stesso rapporto, del tutto ragionevolmente vissuta dal T. come una vera e propria quanto ingiusta mortificazione dello stesso. Tra l'altro, tale espressione - a giudizio della Corte - sarebbe stata pronunziata in un animato contesto, durante il quale è verosimile ritenere che lo stesso P. abbia utilizzato epiteti volgari, tra cui l'espressione vaffanculo. Pertanto, si sarebbe al più trattato di una colorita rimostranza rivolta dal T. al P. per il comportamento tenuto, non rispettoso del vincolo di subordinazione, il che escluderebbe la volontà di recare offesa.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale Militare presso la Corte di Appello.

Nel ricorso si deduce erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione per illogicità manifesta.

Le argomentazioni muovono dalla considerazione della obiettiva connotazione ingiuriosa del termine adoperato (la parola "coglione") e contestano fermamente l'asserita carenza di elemento psicologico del reato.

Si reputa, in particolare, del tutto illogica la qualificazione operata dalla Corte d'Appello - in termini di semplice "rimostranza" - dell'elemento volitivo, contestandone la razionalità anche in punto di pretesa tutela del rapporto gerarchico, dato che il P. era stato autorizzato dal comandante L..

In casi del genere l'utilizzo dell'espressione ingiuriosa è di per sè indicativo della retrostante volontà di offendere, come costantemente ritenuto in giurisprudenza e, peraltro, innegabile risulta il collegamento tra l'offesa recata e le ragioni inerenti al servizio.

Le eventuali mancanze attribuibili al P. andavano infatti perseguite attraverso contestazioni disciplinari lì dove applicabili e non certo mediante l'utilizzo di termini lesivi dell'onore e della dignità dell'inferiore.

Da qui la erroneità, in fatto e in diritto, della decisione assunta.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato e va accolto, per i motivi che seguono. La decisione impugnata nella parte ricostruttiva manifesta alcune incertezze circa l'esatta attribuzione all'imputato delle frasi reputate ingiuriose, salvo poi ritenere provato che il T. apostrofò l'inferiore P. con l'epiteto "coglione". Inoltre, si ritiene probabile l'esistenza di un atteggiamento provocatorio tenuto dallo stesso P., sia durante la fase immediatamente antecedente il litigio che nel corso del medesimo, attraverso l'uso dell'espressione "vaffanculo".

Tuttavia tali aspetti, salvo ciò che si dirà in seguito, non consentono di ritenere - attraverso una ardita ricostruzione dell'elemento psicologico operata in sentenza - assente la valenza di ingiuria (nel senso di offesa alla dignità) nell'uso del termine "coglione", rivolto al P. nel corso della discussione. Come questa Corte ha già avuto modo di precisare in caso analogo (Sez. 1 n. 12997 del 10.2.2009, rv 243545) la posizione di supremazia gerarchica dell'autore rispetto alla persona offesa non consente di considerare prive di contenuto lesivo espressioni volgari, pur oramai prive - nel linguaggio comune e tra pari - di effettive connotazioni offensive, e solo indicative di impoverimento del linguaggio e dell'educazione, in quanto esse, se rivolte a un sottoposto, in violazione delle regole di disciplina e dei principi che devono ispirarle in forza dell'art. 53 Cost., comma 3 riacquistano appieno il loro specifico significato spregiativo, penalmente rilevante.

Si è precisato inoltre (sez. 1 23.10.1997, rv 209439) che lì dove un superiore gerarchico voglia esprimere una critica ad un comportamento del sottoposto, senza sconfinare nell'insulto, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell'errore, sottolineino l'eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi adoperate si limitino a recare offesa non può sostenersi l'assenza di potenzialità ingiuriosa, pur se in ipotesi le stesse siano ricollegabili ad un comportamento scorretto. La valenza offensiva del termine in questione è, dunque, direttamente ricollegabile al suo significato e, pertanto, non può accettarsi una ricostruzione dell'elemento volitivo (come quella operata in sentenza) tesa ad attribuire all'agente, in virtù delle particolari circostanze di fatto, una volontà diversa. Pacifica infatti è la punibilità della condotta in riferimento al dolo generico, con irrilevanza dei motivi per cui l'offesa viene rivolta.

Nel pronunziare l'epiteto "coglione" l'agente vuole, in tutta evidenza, offendere il prestigio e la dignità del soggetto destinatario, non risultando altrimenti ragionevole l'utilizzo dello specifico termine, se non in ipotesi di condivisa e comune (tra i due colloquianti) scherzosità del contesto, tale da azzerare del tutto l'ordinario significato spegiativo del termine.

Sul punto, pertanto, va accolto il ricorso proposto dal Procuratore Generale Militare presso la Corte d'Appello.

E' evidente tuttavia che l'annullamento della decisione di secondo grado - nei cui confronti, trattandosi di sentenza assolutoria non vi era interesse dell'imputato a ricorrere - determina la necessità, nel nuovo giudizio di appello, di una completa rivisitazione degli elementi di fatto che avevano determinato la condanna del T. nel giudizio di primo grado.

Ciò soprattutto in relazione alle evidenziate discrasie ricostruttive e alla possibile individuazione di una condotta del P. che, se ritenuta sussistente, potrebbe dar luogo, in ipotesi, all'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 198 c.p.m.p..

Il giudice di rinvio, pertanto, fermo restando il vincolo circa il principio di diritto qui espresso, potrà liberamente determinarsi in punto di valutazione piena delle emergenze probatorie.
PQM
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte Militare di Appello.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2014.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2014
Avv. Antonino Sugamele

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