La strage di Alcamo Marina. Due carabinieri trucidati. Ora è tempo di risarcire gli errori giudiziari.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IZZO Fausto - Presidente -
Dott. MENICHETTI Carla - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
Dott. MONTAGNI Andrea - Consigliere -
Dott. GIANNITI Pasquale - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
T.M., nata il (OMISSIS);
M.F., nato il (OMISSIS);
M.D., nato il (OMISSIS);
M.G., nato il (OMISSIS);
M.B.M., nata il (OMISSIS);
L.I.M., nata il (OMISSIS);
L.I.D., nata il (OMISSIS);
avverso l'ordinanza del 12/07/2016 della Corte di appello di Catania;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Pasquale Gianniti;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Canevelli Paolo, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali.
Svolgimento del processo
1.La Corte di appello di Catania, quale giudice della riparazione, con la ordinanza impugnata, in punto di an, ha accolto la domanda di riparazione per errore giudiziario e per ingiusta detenzione presentata dagli eredi di M.G. in relazione alla detenzione sofferta da quest'ultimo ed alla sua successiva condanna all'ergastolo per il duplice omicidio aggravato dell'Appuntato dei Carabinieri F.S. e del Carabiniere A.C. (avvenuto il (OMISSIS) in località (OMISSIS)), duplice omicidio per il quale era stata affermata la responsabilità penale del M. (e comminata allo stesso la pena dell'ergastolo) con sentenza 29/12/1980 dalla Corte di assise di Trapani (sentenza divenuta irrevocabile il 12/10/1987), poi revocata dalla Corte di appello di Catania con sentenza 17/2/2014 (divenuta irrevocabile il 3/07/2014), con la quale il M. è stato assolto per non aver commesso il fatto ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 1.
Come risulta dalla attestazione 15/7/2016 della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Palermo (citata nell'ordinanza impugnata: pp. 6 e 7), il M., nel corso del processo di cognizione, è stato sottoposto alla misura della custodia in carcere per un periodo complessivo di anni 7, mesi 1 e giorni 20 (per il cui ristoro è stato applicato il tetto massimo dell'indennità di Euro 516.456,90 prevista dall'art. 315 c.p.p.); mentre ha espiato la pena definitiva dell'ergastolo a decorrere dal 24/11/1988 fino alla data di scarcerazione del 21/3/1998 (per un totale di anni 9, mesi 3 e giorni 26), nonchè un successivo periodo di detenzione domiciliare a decorrere dal 18/6/1998 fino alla data della morte, avvenuta il (OMISSIS) (per un totale di mesi 4 e giorni 27).
In punto di quantum, il giudice della riparazione, ha liquidato a T.M., M.F., M.D., M.G., M.B.M., quali eredi di M. Giovanni e a titolo di equa riparazione per l'ingiusta detenzione e per l'errore giudiziario, la somma di Euro 1.065.332,83 ciascuno, nonchè a L.I.M. e L.I.D., quali eredi di Ma.Gr. (a sua volta erede di M.G.) la somma di Euro 532.666,42 per ciascuno, ponendone il pagamento a carico dello Stato, in persona del Ministro dell'Economia e delle Finanze.
In altri termini, sotto il profilo delle voci di danno la Corte ha complessivamente liquidato a favore degli eredi ricorrenti la somma di Euro 6.391.996,98 così suddivisa: Euro 516.416,90 a titolo di riparazione per ingiusta detenzione, in conformità del disposto di cui all'art. 315 c.p.p., comma 2; Euro 139.800, a titolo di danno patrimoniale (ancorando l'indennizzo ad un parametro di Euro 253,83, previsto per la riparazione dell'errore giudiziario), adeguandolo alla specifica situazione (moltiplicandolo per sette volte); Euro 5.735.740,08 a titolo di danno non patrimoniale (prendendo in considerazione il carattere particolarmente afflittivo della ingiusta detenzione subita, le gravi sofferenze patite dal M., anche in conseguenza delle torture subite nella prima fase delle indagini; il discredito pubblico derivante dall'indicazione del M. come concorrente nel gravissimo duplice omicidio di cui sopra).
Il tutto con compensazione delle spese processuali (salvo quelle della perizia poste a carico del resistente Ministero).
2.Avverso la suddetta ordinanza propongono ricorso, tramite difensori di fiducia, i citati eredi, articolando 3 motivi, tutti concernenti esclusivamente la riparazione per errore giudiziario (essendo stato applicato, a titolo di riparazione per l'ingiusta detenzione subita, il tetto massimo dei Euro 516.456,90 previsto dall'art. 315 c.p.p.).
2.1. Nel primo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di omessa liquidazione del danno biologico, nonchè in punto di omessa liquidazione del danno morale ed esistenziale.
I ricorrenti premettono di non ignorare che, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'istituto di cui all'art. 643 c.p.p. è privo di quella natura risarcitoria, tipica dell'azione aquiliana, dovendosi porre a base della riparazione (non un fatto illecito, ma) un fatto lecito che ha causato un danno. Rilevano che il caso in esame (nel quale è stata sostanzialmente riconosciuta la illegalità della prova) presenta connotazioni giuridiche che rendono tale coordinata ermeneutica non compatibile con il principio costituzionale di cui all'art. 24 Cost. e con il principio di cui all'art. 3 del Protocollo 7 aggiuntivo della Convenzione EDU e di cui all'art. 9 del Patto Internazionale dei Diritti civili e politici.
Secondo i ricorrenti, il giudice della riparazione nella ordinanza impugnata avrebbe errato nel non sussumere nella previsione di cui all'art. 28 Cost. le condotte criminali ascrivibili ai Carabinieri, in quanto queste erano state compiute nell'esercizio di una funzione propria dello Stato, nei luoghi, sotto l'egida, e con gli strumenti che manifestano all'esterno i caratteri dello Stato apparato.
Così opinando, gli eredi del M. rimarrebbero privi di tutela, non potendo più esercitare (per effetto della intervenuta prescrizione) alcuna azione per responsabilità extracontrattuale nei confronti dei Carabinieri che quelle condotte avevano posto in essere. In definitiva, secondo i ricorrenti, nel caso di specie, l'unico strumento in grado di offrire la dovuta tutela costituzionale sarebbe lo strumento riparatorio previsto dall'art. 643 c.p.p. (di per sè concepito come strumento sussidiario rispetto agli strumenti risarcitori). E al giudice della riparazione non dovrebbe essere ritenuto inibito fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria (come peraltro affermato da questa Sezione 4^ nella sentenza n. 10878 del 2012, che viene espressamente richiamata).
Tanto premesso, i ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale, quale giudice della riparazione:
a) avrebbe immotivatamente respinto la richiesta di risarcimento/riparazione del danno biologico articolata dagli eredi sul presupposto che M. Giovanni era stato arrestato poco più che trentenne, era stato accusato di un delitto infamante, era stato progressivamente espropriato della propria esistenza, si era ammalato in carcere durante la detenzione definitiva ed era rimasto privo delle adeguate cure in un contesto ambientale di forte stress fino alla sua morte (dopo aver ottenuto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute);
b) in maniera parimenti immotivata avrebbe respinto la richiesta di liquidazione del danno morale ed esistenziale, che era stato provocato al M. dall'errore giudiziario, di cui era stato vittima, non potendosi considerare la liquidazione del danno per ingiusta detenzione comprensiva del danno morale, esistenziale e biologico, subiti dal povero M., vittima di una ancora inspiegabile "falsificazione processuale"; tanto più che, per il periodo di detenzione domiciliare, il protrarsi della detenzione non presupponeva un minore danno per la vittima, ma un fisiologico inasprimento della sofferenza dovuta al progressivo avanzare dell'età ed al progressivo spegnersi di ogni speranza di vedere l'epilogo positivo della disgraziata vicenda processuale; in definitiva, secondo i ricorrenti, l'errore del giudice della riparazione è stato quello di considerare quale danno il pregiudizio derivante dalla sola privazione della libertà personale (senza considerare il pregiudizio alla vita) ed il carattere omnicomprensivo della liquidazione, operata dalla Corte territoriale, sarebbe in contrasto con i canoni di giudizio fissati da questa Corte (ad es con sentenza n. 42998 del 2010 della Terza Sezione), in ragione della diversità ontologica delle distinte voci di danno.
2.2. Nel secondo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di liquidazione del danno patrimoniale.
I ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale, quale giudice della riparazione:
a) avrebbe immotivatamente respinto la richiesta di liquidazione del danno patrimoniale derivante da lucro cessante, dovuto all'interruzione di attività lavorativa, nella misura del triplo della pensione sociale, argomentando che nulla era stato provato in punto di quantificazione del relativo reddito e senza indicare le ragioni ostative alla quantificazione di detta voce di danno operata dal consulente di parte Dr. Fe.Fr. (alla luce dell'età anagrafica del M., dell'incremento che negli anni a venire hanno avuto le aziende del settore vitivinicolo e della chance di crescita economica in considerazione dell'iniziativa economica del medesimo);
b) avrebbe liquidato il danno patrimoniale alla luce del criterio di Euro 1200 al mese (da ritenersi già attualizzato), senza esplicitare i parametri di valutazione utilizzati, senza tener conto del lungo lasso di tempo trascorso dalla morte del M. e facendo mal governo della disposizione di cui all'art. 115 c.p.c. (in considerazione della quale, in assenza di contestazioni da parte del Procuratore Generale e da parte del Ministero dell'Economia e delle Finanze, le voci di danno, indicate nella consulenza di parte e nel ricorso, avrebbero dovuto essere considerate provate).
In definitiva, i ricorrenti, sul punto ritengono che l'ordinanza impugnata dovrebbe essere annullata, ritenendo provato nel suo ammontare il danno patrimoniale subito dal ricorrente e, solo in subordine, ordinare una perizia al fine di valutare i danni indicati nella consulenza di parte.
Sotto altro profilo, i ricorrenti - pur dando atto di non aver indicato le somme erogate ai propri difensori e consulenti di parte, atteso il lunghissimo lasso di tempo trascorso - si dolgono che il Giudice della riparazione ha immotivatamente respinto la richiesta di risarcimento delle spese legali, sostenute dal M. nel corso del processo di cognizione (definito con la sentenza di condanna all'ergastolo, poi revocata) e non ha invece disposto, come invece richiesto dalla difesa, il risarcimento in via equitativa delle suddette spese legali.
2.3. Nel terzo motivo si deduce violazione di legge (e in particolare del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa) e vizio di motivazione in punto di compensazione integrale delle spese relative al giudizio di riparazione.
I ricorrenti si lamentano che la Corte territoriale ha violato il suddetto principio laddove ha disposto la compensazione integrale sulle spese, argomentando sul parziale accoglimento della domanda e sulla sostanziale non opposizione del Ministero dell'Economia. In particolare, l'accoglimento parziale della domanda integrerebbe una ipotesi diversa dalla soccombenza reciproca: in quest'ultimo caso, il giudice può disporre la compensazione delle spese, mentre non ha facoltà di farlo in caso di accoglimento parziale della domanda (salvo che sia stato violato il dovere di lealtà e probità nel processo).
Motivi della decisione
1. I ricorsi non sono fondati.
2.Prelimiarmente può essere utile ripercorrere la vicenda, giudiziaria ed umana, invero triste sotto entrambi i profili, sottesa agli stessi ricorsi.
2.1. I fatti che determinarono la condanna di M.G. concernono gli omicidi dei carabinieri A.C. e F.S., di presidio presso la caserma di (OMISSIS), e i connessi reati di furto aggravato e di detenzione e porto illegale di armi, avvenuti il (OMISSIS). I due militari erano stati uccisi, mentre si trovavano a letto, da ignoti che erano penetrati utilizzando una fiamma ossidrica per l'apertura della porta d'ingresso. F. era stato colpito mentre si stava alzando dal letto, A. nel sonno.
Le indagini condotte da una squadra speciale dei carabinieri di Palermo al comando del colonnello R. (in seguito ucciso in un agguato di stampo mafioso), vagliate molte piste (tra cui quella di un attentato mafioso o terroristico), subirono una improvvisa e decisiva svolta quando fu fermato per un controllo a bordo di una Fiat 127, risultata rubata, V.G., trovato in possesso di armi, tra cui in particolare una Beretta 7,65, compatibile con l'arma utilizzata per commettere gli omicidi, una Beretta calibro 9 corto, con munizionamento, la cui matricola era stata cancellata, e una fondina che un militare riconosceva come propria, asportata dalla caserma di (OMISSIS). Perquisiti i luoghi di pertinenza del V., venivano trovati oggetti vari che inequivocabilmente lo collegavano agli omicidi.
V., assente il difensore, descriveva la dinamica degli omicidi, motivata da scelta ideologica, indicando quali correi tali G., M., S. e Fe., consentendo anche di recuperare denaro e, in un garage di (OMISSIS), oggetti asportati dalla caserma.
All'arrivo del difensore, V. ritrattò le accuse ai correi, confermando di essere l'unico autore del delitto e negando di aver dato le indicazioni sul garage di (OMISSIS).
Successivamente, in un memoriale scritto di suo pugno e consegnato a due vice pretori onorari, V. ribadiva le originarie accuse verso i quattro correi, specificando i ruoli da ciascuno avuto nel duplice omicidio.
M., Fe., S. e G. venivano fermati. Il primo non rendeva nessuna dichiarazione, pur dichiarandosi estraneo ai fatti: allo stesso, presso la di lui abitazione, veniva sequestrata una giacca sulla quale venivano trovate tracce ematiche, che, a seguito di perizia ematologica, risultavano compatibili con quello del carabiniere A.. Gli altri indagati, alla presenza dei difensori, ammettevano la loro partecipazione ai fatti, ma successivamente ritrattavano la confessione affermando di averla resa dopo aver subito maltrattamenti da parte degli investigatori.
Nell'interrogatorio del 13/2/1976 in carcere, i fermati ritrattavano ogni precedente dichiarazione confessoria e, insieme al V., dichiaravano di avere subito violenze fisiche e minacce da parte degli investigatori, alcuni in luogo diverso dalla caserma di (OMISSIS) (poi indicato nella caserma di (OMISSIS)), dove erano stati condotti incappucciati ed erano stati costretti ad ingurgitare acqua e sale (metodo c.d. della cassetta) ed a subire altre violenze.
I Carabinieri che si erano occupati delle indagini negavano di avere perpetrato mai alcuna violenza sugli indagati.
Ed il V. - che, dopo il memoriale di cui sopra, non faceva nessuna altra rivelazione sui fatti di causa - decedeva in carcere, prima del processo, impiccandosi.
La Corte di assise di Trapani con sentenza 10 febbraio 1981 condannava il M.. La decisione di condanna veniva confermata dalla Corte di Assise di Palermo, ma la decisione di secondo grado veniva annullata da questa Corte con sentenza del 22 dicembre 1984, nella quale si censurava, fra l'altro, la valutazione fatta dal giudice di appello in ordine alle violenze denunciate dagli imputati ed ai risultati della perizia balistica. In particolare, per quanto concerne il M., nella sentenza di annullamento, veniva evidenziato che gli unici elementi sui quali doveva concentrarsi il giudice del rinvio erano costituiti dalla chiamata in correità del V. e dal ritrovamento della giacca macchiata di sangue presso l'abitazione del M. (essendo prive di rilievo giudiziario la chiamata in correità dei tre ragazzi, l'amicizia e la frequentazione del V., la provenienza del M. da (OMISSIS), dove il V. aveva approntato il garage-covo, la presenza di una auto analoga a quella del M., nei pressi della caserma di (OMISSIS), le presunte reticenze e menzogne del M. in ordine al possesso della giacca ed alla causa delle macchi).
La Corte di assise di appello di Palermo, quale giudice del rinvio, procedendo nei confronti di M., con sentenza 26/11/1985 ne confermava il giudizio di colpevolezza. Ad una pronuncia di condanna perveniva anche la Corte di assise di appello di Catania con sentenza 29/11/1989 nei confronti di G.G., nonchè la Corte di appello di Caltanisetta, Sezione per i minorenni, con sentenza 6/4/1991 nei confronti di S.G. e Fe.Vi..
Tutte le suddette sentenze di condanna passavano in giudicato.
Il M., come sopra rilevato, decedeva il (OMISSIS).
2.2. A seguito di istanza presentata dalla difesa degli eredi del M., si svolgeva processo di revisione davanti alla Corte di appello di Catania.
Nel corso del procedimento, tra l'altro, veniva acquisita la sentenza 13/12/2012 della Corte di appello di Reggio Calabria di revoca, per non aver commesso il fatto, della condanna inflitta nei confronti del G.: nonchè sentenza della Corte di appello di Catania, Sezione minori, di revoca, con la medesima formula assolutoria, della condanna inflitta nei confronti di S. e di Fe. dalla Corte di appello di Caltanisetta, sezione per i minorenni.
Veniva richiesta l'acquisizione del reperto confiscato, contenente la giacca con le macchie di sangue sequestrate all'allora indagato, ma veniva accertato, come da ordinanza della Corte di assise di Trapani del 18/4/2013, che il medesimo era stato distrutto come da verbale 29 aprile 1997, in mancanza di qualsiasi provvedimento dell'autorità giudiziaria che disponesse tale distruzione.
Il giudizio di revisione veniva definito con sentenza 17 febbraio 2014 con la quale la Corte di appello di Catania, in conformità della concorde richiesta delle parti, revocava la sentenza di condanna inflitta al M., in quanto, alla luce delle nuove prove sopravvenute e dell'acquisizione delle sentenze di revisione già emesse nei confronti dei presunti complici, il quadro probatorio era "totalmente crollato" (p. 17).
In particolare, la Corte rilevava che le dichiarazioni del V., al pari di quelle rese dagli allora coindagati, in quanto estorte sotto tortura da parte di una squadra di Carabinieri (che erano comandati dal capitano R.G. ed i cui nomi non erano mai comparsi negli atti processuali) nel corso di pseudo interrogatori effettuati in prevalenza nella caserma di (OMISSIS), non erano utilizzabili "in quanto assunte in violazione di normativa primaria, anche di rango internazionale e costituzionale, già vigente all'epoca dei fatti" (pp. 20-21). Quanto poi al rinvenimento di tracce di sangue sulla giacca sequestrata al M. (pp. 21-28), era risultato documentalmente provato che i Carabinieri incaricati delle indagini erano in possesso, già alla data del 6 febbraio 1976, di campioni del sangue dei due colleghi assassinati (e, quindi, erano nelle condizioni di poter utilizzare parte della stessa campionatura per imbrattare, con una banale soluzione fisiologica, la giacca poi sequestrata al M.), con la conseguenza che, in un contesto di forte inquinamento probatorio, "non poteva neppure assurgere al rango di indizio della colpevolezza del M." (p. 28).
Tutte le suddette sentenze di revoca passavano in giudicato.
2.3. Nel rispetto dei termini di legge, presentavano domanda di riparazione dell'errore giudiziario e dell'ingiusta detenzione subita il Fe. e il S.: entrambe le domande venivano parzialmente accolte dalla Corte di appello di Catania con distinte ordinanze emesse il 24/4/2014, che venivano entrambe annullate da questa Corte (rispettivamente quella emessa nei confronti di Fe.Vi. con sentenza n. 22444 del 2015 e quella emessa nei confronti di S.G. con sentenza n. 7787 del 2016.).
Veniva altresì presentata analoga domanda di riparazione anche da G.G.. La domanda veniva accolta dalla Corte di appello di Reggio Calabria con ordinanza 29/2/2016 (confermata da questa Corte con sentenza n. 42749 del 22/09/2016 e, quindi, divenuta esecutiva), che, da un lato, condannava il Ministero dell'Economia e delle Finanze al pagamento in favore del G. della complessiva somma di Euro 6.530.031,70 e, dall'altro, compensava interamente tra le parti le spese processuali (salvo che per le spese di perizia che poneva a carico del resistente Ministero dell'Economia e delle Finanze).
Veniva infine presentata domanda di riparazione (sempre per errore giudiziario e per ingiusta detenzione) dagli eredi di M.G.. Anche questa domanda veniva accolta dalla Corte di appello di Catania, quale giudice della riparazione, la quale - dopo aver acquisito la sentenza n. 7787 del 2016 emessa da questa Corte su ricorso del S. e dopo aver acquisito la documentazione relativa alla carcerazione subita dal M. - con ordinanza 12/7/2016:
- in punto di an, ha ritenuto la fondatezza di entrambe le domande (p. 7) "atteso che, come emerge dalla sentenza di revisione in atti, M.G., da sempre protestatosi innocente, sin dai primi interrogatori, anche sotto tortura, ha sofferto gli effetti di una ingiusta condanna e relativa detenzione ventennale per reati gravissimi, da lui non commessi ed in ordine ai quali non è emerso alcun profilo di contribuzione causale in termini di dolo o colpa, stante l'evidente artificiosa ricostituzione di prove false a suo carico (cfr. a riguardo quanto riportato nella sentenza di revisione, definitiva)";
- in punto di quantum, ha accolto la domanda di riparazione per ingiusta detenzione, per il quale ha applicato il tetto massimo dell'indennità di Euro 516.456,90 prevista dall'art. 315; mentre ha accolto parzialmente la domanda di riparazione per errore giudiziario.
Avverso la suddetta ordinanza 12/7/2016 non veniva proposto ricorso dal Ministero dell'Economia, mentre venivano per l'appunto proposti i ricorsi da parte degli eredi del M. in punto di parziale accoglimento nel quantum della domanda di riparazione per errore giudiziario.
3. Tanto premesso, non fondati sono i primi due motivi di ricorso che - in quanto sottendono comuni questioni di diritto (e precisamente la natura del procedimento di riparazione per errore giudiziario ed i criteri di liquidazione dell'indennizzo spettante al condannato - o, in caso di morte dello stesso, ai di lui eredi - che sia stato prosciolto in sede di revisione e non abbia dato causa "per dolo o colpa grave" all'errore medesimo) - vengono di seguito trattati congiuntamente, distinguendo in primo luogo quanto richiesto dall'interessato e quanto eccepito dal Ministero resistente, per poi soffermarsi su quanto ritenuto dalla Corte di appello di Catania quale giudice della riparazione.
3.1. La difesa degli odierni ricorrenti, nell'istanza di riparazione - dopo aver richiamati i fatti posti a sostegno della sentenza di condanna e della relativa revisione, tali da far ritenere il M. totalmente estraneo al duplice omicidio avvenuto il (OMISSIS), - richiedeva, oltre alla riparazione per ingiusta detenzione, anche la riparazione per il subito errore giudiziario, da ripartirsi tra gli stessi ai sensi dell'art. 644 c.p.p..
In ordine alla quantificazione di detta riparazione, la difesa:
- insisteva affinchè la riparazione fosse determinata mediante l'applicazione dei criteri civilistici, in quanto l'errore giudiziario commesso in danno del M. era stato conseguenza immediata e diretta del fatto reato posto in essere da terzi, appartenenti all'arma dei carabinieri, e non dell'esercizio di un atto lecito;
- evidenziava che la morte in stato di detenzione del M. doveva considerarsi quale conseguenza diretta della medesima ingiusta carcerazione;
- insisteva, quanto al danno patrimoniale, per la liquidazione del triplo della pensione sociale, sulla scorta della L. n. 39 del 1977, art. 4, adottando un'interpretazione analogica del concetto di risarcimento proprio del mondo assicurativo, con conseguente quantificazione del danno in Euro 2.500.000, come da consulenza di parte, in atti, redatta dal dott. Fe.Fr.;
- chiedeva la liquidazione del danno morale soggettivo, atteso che la prolungata detenzione del M. era stata originata dalla commissione di reati: tale danno, da calcolarsi sulla scorta della quantificazione tabellare per il danno biologico, doveva essere liquidato in misura pari a 12 milioni di Euro;
- chiedeva infine la corresponsione di 1 milione di Euro per ciascun anno di ingiusta carcerazione a titolo di danno esistenziale.
In sede di discussione, la difesa degli odierni ricorrenti insisteva per la ripartizione dell'importo complessivo dovuto per le predette voci ai sensi dell'art. 644 c.p.p., comma 2, facendo presente di aver agito iure proprio, per i danni subiti a causa della privazione forzata del congiunto, danni evidenziati anche sotto il profilo patologico nella consulenza di parte, a firma del dott. C.F.. E, sui predetti importi, chiedeva la rivalutazione monetaria e gli interessi dalla data della sentenza di revisione del 17 febbraio 2014 fino al saldo.
3.2. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze, nel costituirsi davanti al giudice della riparazione con memoria del 18 agosto 2015, in punto di quantum chiedeva che la liquidazione di detta riparazione fosse effettuata mediante l'applicazione dei criteri previsti dalla legge e comunque in misura di giustizia, escludendo qualsiasi altra, non dovuta, voce di danno.
In particolare, il Ministero costituito, con riferimento alla quantificazione della riparazione:
- riteneva inconferente la pretesa di far discendere la legittimità della domanda risarcitoria posta a carico dello Stato dal comportamento asseritamente illecito degli appartenenti all'arma, nei cui confronti i congiunti del M. avrebbero dovuto agire civilisticamente ai sensi dell'art. 2043 c.c.; ed evidenziava che la riparazione per errore giudiziario rientrava nell'ipotesi di atti illeciti dannosi, dovendosi escludere la qualificazione di risarcimento prospettata dagli istanti;
- rilevava che la Corte avrebbe dovuto accertare eventuali comportamenti colposi posti in essere dal M., incidenti sulla riduzione dell'indennizzo;
- rilevava ancora che doveva altresì escludersi il riconoscimento del danno esistenziale, e comunque di indebite duplicazioni dell'indennizzo;
- rilevava infine che doveva escludersi la richiesta di riconoscimento della rivalutazione, atteso che il fatto genetico della fattispecie non era illecito, e neppure la richiesta degli interessi legali, perchè il credito non era, al momento della domanda, determinato, certo e liquido.
3.3. La Corte di appello di Catania, quale Giudice della riparazione, nella ordinanza impugnata, nel procedere alla liquidazione della riparazione spettante per errore giudiziario, dopo aver riportato ampio stralcio della sentenza n. 22444 del 2015 emessa da questa Corte, ha ritenuto "anche in considerazione del lungo tempo trascorso dai fatti e dalla morte del M., con la conseguente difficoltà di utilizzare i consueti criteri civilistici di liquidazione del danno, di fare applicazione per la liquidazione di tutti i danni richiesti di criteri equitativi ancorati a dati di fatto che possono rendere conforme a giustizia il giusto ristoro per il gravissimo errore giudiziario di cui ci si occupa".
In particolare, la Corte territoriale:
A) Quanto al danno patrimoniale:
- ha premesso che l'unica documentazione prodotta da parte istante con riferimento specifico a M.G. riguarda un estratto conto previdenziale relativo anche agli anni antecedenti alla carcerazione, da cui risulta che lo stesso pagava i contributi "agricolo giornaliero" per giorni 101 e per disoccupazione agricola per giorni 169; ha aggiunto che, sulla scorta della insufficienza di tale documentazione, parte istante aveva ritenuto di calcolare il danno patrimoniale sulla scorta del triplo della pensione sociale, con capitalizzazione anno dopo anno al tasso di interesse legale vigente pro tempore e successiva rivalutazione alla data del febbraio 2014; ma ha ritenuto che il criterio prospettato dalla difesa fosse inadeguato per il caso di specie in cui, a fronte della sicura attività lavorativa dell'imputato quale bottaio, nulla di certo si conosceva in ordine alla quantificazione del relativo reddito;
- ha fatto ricorso ad un criterio equitativo, per cui: "considerato che il M. aveva una famiglia assai numerosa, che lo stesso era nel pieno vigore delle forze all'epoca dell'arresto", aveva ritenuto equo liquidare "l'equivalente di uno stipendio di Euro 1200 al mese, da ritenersi già attualizzato e quindi non rivalutabile, atteso che, dal predetto prospetto Inps, risulta che comunque i redditi del M. erano assai modesti e deve quindi presumersi che l'intero reddito veniva consumato per i bisogni propri e della propria famiglia; il predetto importo, moltiplicato per i mesi di carcerazione definitiva subiti dal 24 novembre 1988 fino alla data di scarcerazione del 21 marzo 1998 (totale anni nove, mesi tre e giorni 26), nonchè dal 18 giugno 1998 fino alla data della morte, avvenuta il 15 novembre 1998 (per un totale di mesi quattro e giorni 27), e quindi per complessivi anni 9, mesi otto e giorni 13, risulta pertanto pari ad Euro 139.800,00".
B) Quanto al danno non patrimoniale:
- in primo luogo ha osservato che non risultava provato che la morte del M. sia stata conseguenza della carcerazione; ed ha escluso dalla liquidazione ogni riferimento al danno subito dai congiunti (in conformità della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in tema di riparazione per errore giudiziario, nel caso di morte dell'avente diritto, i congiunti ex art. 644 c.p.p., comma 1 sono legittimati in proprio a presentare la relativa istanza, ma possono far valere in giudizio esclusivamente il danno subito dal defunto: cfr., Sez. 4, sent. n. 254377 del 22711/2012, 2013, Pansini ed altro, Rv. 254377);
- ha liquidato anche il danno non patrimoniale, ricorrendo al criterio equitativo, tenendo presente: a) che il M. negli ultimi tempi era gravemente ammalato, ed aveva pertanto acquisito la consapevolezza, via via crescente, della morte prematura, con maggiore afflizione dell'ultimo periodo della sua detenzione, trascorsa nella consapevolezza del non più possibile raggiungimento di uno stato, anche parziale, di libertà); b) che il M., a causa di un errore giudiziario, per di più indotto da comportamenti criminosi della polizia giudiziaria, pur consapevole della sua innocenza, ha dovuto trascorrere tutta la restante parte della sua vita in carcere, lontano dai suoi affetti familiari (in primis di una moglie che, ciò malgrado, non lo aveva mai abbandonato), additato come un pluriomicida a sangue freddo di rappresentanti delle Forze dell'Ordine, nella certezza ormai acquisita dell'irreversibilità della condanna; c) le sofferenze inflitte al M. mediante le torture praticate nella prima fase delle indagini, nonchè il successivo immane discredito derivante dall'indicazione dello stesso, unitamente agli altri presunti complici, innanzi all'opinione pubblica nazionale, quale esecutore di un gravissimo crimine (duplice omicidio perpetrato ai danni di appartenenti alle Forze dell'Ordine, vigliaccamente trucidati durante il riposo notturno).
Precisamente la Corte, "nella consapevolezza dell'impossibilità di potere quantificare economicamente un dolore ed una sofferenza così grande", ha ritenuto di dover ancorare l'indennizzo ad un parametro normativo e giurisprudenziale già esistente per situazioni in parte analoghe, e cioè quello previsto per la riparazione da errore giudiziario (pari ad Euro 235,38 per ogni giorno di ingiusta detenzione), moltiplicandolo per sette (per adeguarlo alle particolarità del caso concreto: "tenuto conto della complessiva enorme durata della carcerazione, del carattere definitivo della stessa (ergastolo), che priva di speranza di liberazione il condannato, della sua protrazione fino alla morte, annunciata negli ultimi anni a seguito della contrazione del cancro, della forzata privazione di una vita normale circondata dagli affetti familiari, con il marchio di esecutore di uno dei più vili episodi omicidiari, il tutto nella consapevolezza della propria innocenza a causa di un complotto di infedeli servitori dello Stato"), pervenendo dapprima all' importo di Euro 1650,81 per ogni giorno di ingiusta detenzione carceraria e al dimezzato importo di Euro 825,41 per ogni giorno di ingiusta detenzione domiciliare e, poi, tenuto conto della durata della detenzione subita dal M. (rispettivamente pari a 3401 giorni di detenzione carceraria e a 147 giorni di detenzione domiciliare) all'importo complessivo liquidato di Euro 5.735.740,08.
C) Infine, quanto al riparto tra gli istanti dell'importo complessivamente riconosciuto a titolo di riparazione per ingiusta detenzione e per errore giudiziario, la Corte ha precisato che:
- la sommatoria degli importi indennitari riconosciuti (Euro 516.456,90 + 139.800 + 5 735 740,08) era pari a Euro 6.391.996,98;
- detto importo deve essere ripartito, ai sensi dell'art. 644 c.p.p., fra i sei originari istanti in parti uguali, come richiesto nel ricorso (con la precisazione che la quota di M.G., deceduta nelle more del giudizio, deve essere ripartita fa le due figlie eredi, costituitesi in giudizio).
3.4. Orbene, la Corte di appello di Catania, argomentando nei termini sopra ripercorsi, in punto di natura del procedimento di riparazione e del relativo eventuale indennizzo, è partita da premesse concettuali che corrispondono a principi più volte ribaditi da questa Corte regolatrice (oltre alle già citate sentenze nn. 22444 del 2015, 7787 e 42749 del 2016, cfr: Sez. 4, sent. n. 20196 del 19/04/2005, Pirrera ed altri; Rv. 231655; e, tra le pronunce meno recenti, Sez. 6, ord. n. 1675 del 01/12/1970, 1971, Di Lascia, Rv. 116298), secondo la quale:
- la riparazione dell'errore giudiziario (art. 643 c.p.p. e ss.) è istituto strutturalmente diverso dal risarcimento del danno: l'obbligo di risarcimento scaturisce da un inadempimento contrattuale o dalla commissione di un fatto illecito e presuppone la prova rigorosa del danno che ne è derivato e del suo preciso ammontare; mentre la riparazione presuppone l'esercizio dell'attività giudiziaria, cioè di una attività di per sè legittima (ed, anzi, doverosa), posta in essere da parte degli organi dello Stato (anche se, in tempi successivi, ne viene dimostrata l'illegittimità, l'illegalità, l'erroneità e l'ingiustizia) e non richiede prove rigorose della consistenza del pregiudizio che da essa possa derivare, restando la sua liquidazione affidata ad una determinazione equitativa;
- proprio per la diversità strutturale tra i due istituti (quello del risarcimento del danno e quello della riparazione per errore giudiziario), la vittima dell'errore giudiziario non deve provare l'elemento soggettivo della colpa o del dolo in capo alle persone che hanno materialmente commesso l'errore giudiziario (ovvero dei magistrati che hanno richiesto o disposto, dapprima, una misura cautelare custodiale e, poi, una condanna a pena detentiva): viene in tal modo salvaguardata la fondamentale esigenza (fondata non soltanto sull'art. 24 Cost., comma 4, ma anche sull'art. 5, comma 5 della Convenzione EDU e sull'art. 9, comma 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di garantire comunque un ristoro a chi, senza dolo o colpa grave, è stato privato della libertà personale o è stato condannato per un fatto dal quale è stato poi prosciolto in sede di revisione, senza costringerlo a defatiganti controversie sull'esistenza dell'elemento soggettivo e sulla determinazione del danno subito;
- in altri termini, nel giudizio di riparazione (ferma restando la facoltà dell'interessato, sempre che ne ricorrano i presupposti di legge, di esercitare l'azione di risarcimento del danno per fatto illecito altrui attraverso la costituzione di parte civile ovvero attraverso l'esercizio dell'azione risarcitoria in sede civile al fine di ottenere integrale ristoro dei danni subiti), l'errore giudiziario si fonda (non su un fatto illecito, ma) su un errato accertamento giurisdizionale di condanna emesso sulla base di contrastanti valutazioni in tema di prova nel processo penale e le conseguenze che vengono in rilievo (non sono quelle riconducibili alla consumazione di un reato nei confronti della vittima dell'errore giudiziario, ma) sono i pregiudizi ingiustamente subiti a seguito di una attività di per sè legittima (ed, anzi, si ribadisce, doverosa) dello Stato; (e, per tale ragione, la Corte territoriale ha esaminato la tesi difensiva secondo la quale, nel caso in esame, emergendo dagli atti la prova di gravi condotte di rilievo penale poste in essere da appartenenti all'Arma dei Carabinieri, il quantum della liquidazione dovrebbe essere computato seguendo il solo criterio civilistico di risarcimento del danno da fatto illecito altrui; ma - dopo aver precisato che non risultano sentenze definitive che abbiano accertato responsabilità penali per le condotte stigmatizzate nella sentenza di revisione - ha disatteso detta tesi, in quanto ha ritenuto, con motivazione congrua e coerente con i principi generali, che l'attività di un pubblico dipendente può essere riferita all'amministrazione solo in quanto sia esplicazione dell'attività dell'ente e sia rivolta al conseguimento dei fini istituzionali di quest'ultimo, nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio al quale il dipendente è addetto, ma che tale non fosse l'attività degli appartenenti all'Arma dei Carabinieri, che avevano posto in essere la condotta stigmatizzata nella sentenza di revisione);
- sempre per la diversità strutturale dall'istituto del risarcimento del danno, nel procedimento di riparazione, il giudice penale, per la determinazione dell'indennizzo, utilizza generalmente un criterio esclusivamente equitativo, con una liquidazione globale di tutte le conseguenze dell'errore giudiziario; anche se non è affatto precluso che egli, sempre ai fini della liquidazione dell'indennizzo, utilizzi anche i criteri normativamente previsti per il risarcimento del danno, lasciando il criterio equitativo per la liquidazione di quei pregiudizi non esattamente quantificabili (Sez. 4, sent. n. 10878 del 20/01/2012, Sterio, Rv. 252446); fermo restando l'obbligo del giudice di motivare adeguatamente i criteri posti a fondamento della liquidazione, sia nel caso di esclusivo ricorso al criterio equitativo che in caso di ricorso, nel rispetto delle regole civilistiche, ai criteri risarcitori del danno.
D'altronde - premesso che, a norma dell'art. 643 c.p., la riparazione deve essere commisurata alla durata dell'espiazione ed alle conseguenze personali e familiari del condannato (con la conseguenza che non possono essere compresi i costi del giudizio di revisione, che esulano dal concetto di conseguenze personali: Sez. 4, sent. n. 4166 del 07/11/2007, 2008, Piro, Rv. 238669); e precisato che non compete al giudice di legittimità rivalutare gli elementi presi in considerazione dal giudice della riparazione, essendo al primo consentito soltanto di verificare la manifesta illogicità della motivazione o la carenza della stessa (Sez. 4, sent. n. 24225 del 04/03/2015, Pappalardi, Rv. 263721) - la Corte di appello di Catania, nella ordinanza impugnata, non è affatto incorsa: nè nel vizio di omessa motivazione, quanto al danno esistenziale, essendo detta categoria ricompresa nel danno non patrimoniale (cfr. Sezioni Unite Civili, sent. n. 26972 del 11/11/2008, Preden, Rv. 605492; Sez. 4, sent. n. 2050 del 25/11/2003, 2004, PG in proc. Barillà, Rv. 227671), di talchè la Corte, facendo riferimento a quest'ultimo ha fatto implicitamente riferimento anche al primo; e neppure nel vizio di motivazione, in punto di liquidazione del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, avendo al contrario motivatamente utilizzato, nella liquidazione di entrambe dette forme di pregiudizio, criteri equitativi supportati da solidi ed oggettivi parametri di riferimento, per pervenire a liquidare un quantum per nulla meramente simbolico.
In particolare, quanto al danno patrimoniale, il giudice della riparazione ha ineccepibilmente dato conto del solido iter logico seguito rappresentando che il punto di partenza non avrebbe potuto che essere l'apprezzamento dell'entità del reddito lecito percepito dal M. negli anni precedenti la sua carcerazione per la ingiusta condanna, di talchè, in assenza di riscontri diretti dai quali desumere detti elementi, la liquidazione di tale forma di danno poteva essere effettuata in via meramente equitativa; e, quanto al danno morale, da un lato, ha determinato l'entità della lesione ai beni e agli interessi tutelati in funzione proporzionale al grado di afflittività della detenzione (determinandola, nel caso di detenzione carceraria, in misura doppia rispetto all'entità della lesione nel caso di detenzione domiciliare), e, dall'altro, ha determinato il quantum per dette voci di danno, valutando quale equo indennizzo la somma pari a circa 7 volte l'importo indennitario giornaliero (di Euro 235,82 per la detenzione carceraria e di Euro 117,91 per la detenzione domiciliare), normativamente previsto per la ingiusta detenzione.
In definitiva, la Corte di appello di Catania, quale giudice della riparazione, ha adeguatamente assolto l'obbligo di indicare le ragioni per le quali ha ritenuto di dover ricorrere al criterio equitativo e di dover ancorare tale criterio a precisi dati di fatto, emergenti dagli atti del fascicolo processuale.
4. Non fondato è anche il terzo motivo dei ricorsi, concernente le spese processuali.
Al riguardo, la Corte territoriale, quale giudice della riparazione, ha disposto la integrale compensazione delle stesse, "tenuto conto del parziale accoglimento della domanda e della sostanziale non opposizione del Ministero dell'Economia alla domanda".
Orbene, vero è che, nel vigente ordinamento processuale civile (artt. 91 e 92 c.p.c.), quale risulta dall'entrata in vigore della L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 13, comma 1, le spese processuali possono essere dichiarate compensate, oltre che nel caso di assoluta novità della questione trattata o nel caso di mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, anche nel caso di "soccombenza reciproca".
E parimenti vero è che le Sezioni Civili di questa Corte hanno avuto modo di recente di precisare che l'accoglimento parziale della domanda processuale è concetto ben diverso dalla soccombenza reciproca (Sez. 1, sent. n. 6860 del 19/2/2015), in quanto: nel primo caso, vi è una sola domanda, che viene parzialmente accolta (in quanto viene ritenuta, per il residuo, eccessiva o non fondata); mentre la soccombenza reciproca presuppone pluralità di pretese contrapposte (presentate da entrambe le parti, l'uno rivolta contro l'altra) e ricorre quando il giudice rigetta, nel contempo, alcune delle domande proposte da una parte ed alcune delle domande proposte dalla controparte.
Senonchè, nel procedimento di riparazione per errore giudiziario - che, pur avendo connotazioni di natura civilistica, attiene comunque ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico, di talchè presenta connotazioni sue proprie rispetto al processo civile - secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice (Sez. 4, sent. n. 38163 del 10/07/2013, Terzani, Rv. 256832), il sindacato di legittimità, in tema di regolamento delle spese processuali, è limitato alla violazione del principio per cui le spese processuali non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.
Ed esula dal sindacato della Corte di legittimità (rientrando invece nel sindacato del giudice di merito) la valutazione sulla compensazione allorquando l'istante non è totalmente vittorioso quanto al petitum esplicitato e richiesto (come per l'appunto si verifica nel caso di specie, nel quale il petitum richiesto è sensibilmente inferiore rispetto al quantum liquidato dal giudice della riparazione, donde il ricorso per cui è la presente sentenza).
5. Per le ragioni che precedono i ricorsi devono essere rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2017.
Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2017
03-05-2017 19:14
Richiedi una Consulenza