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Sentenza

Il giudice non è obbligato a ricercare riscontri estrinseci alle dichiarazioni della persona offesa per fondare una sentenza di condanna.
Il giudice non è obbligato a ricercare riscontri estrinseci alle dichiarazioni della persona offesa per fondare una sentenza di condanna.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 15 novembre 2016 – 2 gennaio 2017, n. 5
Presidente Fumu – Relatore Recchione

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Torino in parziale riforma della sentenza appellata condannava il B. per due episodi di estorsione tentata e per uno di estorsione consumata alla pena di anni tre, mesi 10 di reclusione ed Euro 800 di multa.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l'avvocato Gottero che deduceva:
2.1. vizio di legge e di motivazione in ordine alla valutazione di attendibilità delle persone offese ed alla credibilità dei relativi contenuti accusatori; mancherebbe la rilevazione di "riscontri" alle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa;
2.2. vizio di motivazione in relazione alla omessa considerazione delle argomentazioni esposte con l'atto di appello; segnatamente non sarebbe stato valutato che le modalità della condotta erano rudimentali, né erano stati considerati modi e tempi di presentazione delle querele;
2.3. vizio di motivazione della parte della sentenza che definiva il trattamento sanzionatorio, laddove non si escludeva la recidiva e non si riconosceva la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti;
3. ricorreva per cassazione anche l'avvocato Ventura che deduceva:
3.1. vizio di legge e di motivazione in relazione al riconoscimento degli elementi del delitto di estorsione; l'azione dell'imputato non avrebbe efficacia intimidatoria in quanto diretta a cercare un lavoro; inoltre l'imputato non avrebbe rappresentato in che modo si sarebbe svolta la vigilanza offerta e la condotta asseritamente minatoria non sarebbe stata seguita da alcun atto dotato di efficacia coercitiva; infine il male prospettato era sproporzionato alla somma richiesta; con riguardo all'estorsione ai danni del G. e del L. la carenza di efficacia intimidatoria della condotta emergerebbe dalle stesse dichiarazioni degli offesi che non si erano dichiarate intimorite;
3.2. vizio di motivazione per omessa considerazione delle doglianze proposte con l'atto d'appello in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti. Questi avrebbero dovuto essere inquadrati nel reato di truffa agita attraverso la prospettazione di un pericolo immaginario e non come estorsione. Per il corretto inquadramento della condotta l'indagine circa la idoneità della condotta non dovrebbe essere effettuata ex ante, valorizzando la percezione della persona offesa, ma piuttosto ex post. Nel caso di specie, sarebbe emerso che l'imputato non era in grado di porre concretamente in essere le azioni che aveva minacciato;
3.3. vizio di legge e di motivazione in relazione alla mancata concessione dell'attenuante prevista dall'art. 62 n. 4 c.p., che avrebbe dovuto essere riconosciuta in relazione alla modesta entità del danno cagionato.

Considerato in diritto

1.1 ricorsi proposto dall'avv. Gottero nell'interesse del B. manifestamente infondato.
1.1. Manifestamente infondate sono le doglianze avanzate nei confronti della valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dalle persone offese.
La valutazione di attendibilità della testimonianza delle vittime, come risulta dal compendio integrato delle sentenze di primo e secondo grado risulta effettuata nel rispetto delle linee interpretative tracciate dalla Corte di cassazione in materia. La Corte di legittimità ha chiarito, sul punto, che le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone; la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Cass. sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214).Come si evince dal tessuto motivazionale della richiamata pronuncia delle Sezioni unite, la circostanza che l'offeso si sia costituito parte civile non attenua il valore probatorio delle dichiarazioni rendendo la testimonianza omogenea a quella del dichiarante "coinvolto nel fatto", che soggiace alla regola di valutazione indicata dall'art. 192 comma 3 c.p.p., ma richiede solo un controllo di attendibilità particolarmente penetrante, finalizzato ad escludere la manipolazione dei contenuti dichiarativi in funzione dell'interesse patrimoniale vantato.
La Corte di legittimità, peraltro, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l'attendibilità estrinseca della testimonianza dell'offeso attraverso la individuazione di precisi riscontri, si esprime in termini di "opportunità" e non di "necessità", lasciando al giudice di merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo della attendibilità nel caso concreto. Le sezioni unite hanno infatti affermato che “può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato” (nello stesso senso Cass. Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, Stefanini, Rv. 248016; Cass. Sez. 6, n. 33162 del 03/06/2004, Patella, Rv. 229755). Peraltro costituisce principio incontroverso che la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (ex plurimis Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 2004, Pacca, Rv.227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/03/2003, Assenza, Rv. 225232).
Nel caso di specie la valutazione di attendibilità dei contenuti testimoniali oggetto di censura emerge dal compendio integrato delle due sentenze di merito e risulta effettuata in coerenza con le richiamate indicazioni ermeneutiche.
Le dichiarazioni degli offesi offrivano elementi di conoscenza perfettamente inquadrabili nella consumazione delle estorsioni consumate attraverso l'evocazione del potere criminale di gruppi organizzati e si confermano a vicenda. La motivazione emergente dalle due sentenze conformi di merito fondata sulle dichiarazioni censurate non presenta alcuna frattura logica ma offre, al contrario un percorso argomentativo coerente non solo con le emergenze processuali, ma anche con le regole di valutazione codicistiche e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla Corte di legittimità.
1.2. Anche il secondo motivo di ricorso che denuncia la mancata valutazione delle doglianze proposte con l'atto d'appello è manifestamente infondato. Contrariamente a quanto dedotto, la Corte territoriale valutava le modalità della condotta estorsiva come affatto rudimentali ma invece riconducibili alle figure ormai classiche della estorsione “parte della comune conoscenza” (pag. 9 della sentenza impugnata). Anche i tempi di presentazione delle querele venivano valutati dalla Corte di merito che evidenziava come “le vittime avessero sporto denuncia solo successivamente ai fatti, e quando la cittadinanza aveva preso posizione contro altre attività intimidatorie che si erano disvelate nel territorio” (pag. 9 della sentenza impugnata). Si tratta di argomenti coerenti con le emergenze processuali e privi di illogicità manifeste che si sottraggono ad ogni censura.
1.3. Infine è manifestamente infondato anche il motivo che deduce l'illegittimità del trattamento sanzionatorio. Il collegio ribadisce che la determinazione in concreto del trattamento sanzionatorio è frutto di una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità. Al riguardo si condivide la giurisprudenza secondo cui la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Cass. sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142). Pertanto il giudice di merito, con la enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell'articolo 133 c.p., assolve adeguatamente all'obbligo della motivazione; infatti, tale valutazione rientra nella sua discrezionalità e non postula un'analitica esposizione dei criteri adottati per addivenirvi in concreto (Cass. Sez. 2, sent. n. 12749 del 19/03/2008, dep. 26/03/2008, Rv. 239754; Sez. 4, sent. n. 56 del 16/11/1988, dep. 5/1/1989 rv 180075). Nel caso di specie, la Corte territoriale in coerenza con tali linee ermeneutiche riteneva non escludibile la recidive in quanto il nuovo episodio criminoso evidenziava l'accrescimento della capacità criminale e la maggiore colpevolezza (pag 12 della sentenza impugnata). Anche il bilanciamento in equivalenza viene giustificato sulla base della incongruenza di un trattamento sanzionatorio di maggior favore con il profilo soggettivo dell'imputato e con la gravità delle condotte (pag. 12 della sentenza impugnata). Si tratta di una motivazione che non presenta illogicità manifeste, coerente con le emergenze processuali che non si presta ad alcuna censura in questa sede.
3. Anche il ricorso proposto dall'avv. Ventura nell'interesse del B. è manifestamente infondato;
3.1. manifestamente infondato è il motivo che denuncia la carenza di capacità intimidatoria della condotta contestata.
In materia il collegio ribadisce che la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del reato vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l'ingiustizia della pretesa e le particolari condizioni soggettive della vittima, poiché più marcata è la vulnerabilità di quest'ultima, maggiore è la potenzialità coercitiva di comportamenti anche "velatamente" minacciosi (Cass. sez. 2 n. 2702 del 18/11/2015, dep. 2016, Rv. 265821).
Nel caso di specie la idoneità coercitiva della minaccia è insita nel ricorso a modalità intimidatorie evocative della esistenza di pericolosi gruppi criminali organizzati e nella chiara indicazione della volontà di esplicare il controllo sugli esercizi commerciali del territorio di Piossasco, attraverso la richiesta di una sorta di prezzo riferibile alla "protezione" offerta dagli imputati.
3.2. Manifestamente infondata è anche la censura rivolta nei confronti della qualificazione giuridica.
Il collegio ribadisce che il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva, e non meramente manipolativa, della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con verifica "ex ante", che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato (Cass. sez. 2 n. 11453 del 17/02/2016, Rv. 267124).
Più precisamente si ritiene che, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, va ravvisato nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza sulla sfera soggettiva della vittima: ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poichè in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (Cass. sez. 2 n. 46084 del 21/10/2015 Rv. 265362).
Nel caso di specie l'attività intimidatoria rientra pacificamente nella fattispecie estorsiva essendo diretta a piegare la volontà delle vittime facendo intendere che era in atto una attività criminale, controllata dagli imputati, volta a danneggiare gli esercizi commerciali del territorio che poteva essere fermata solo con il pagamento di somme di denaro. Non viene evocato un pericolo inesistente, ma seri atti di danneggiamento che sarebbero stati posti sicuramente in essere in assenza del pagamento (pag. 10 della sentenza impugnata).
3.3. Manifestamente infondato è, infine, il motivo di ricorso che deduce l'illegittimità del mancato riconoscimento dell'attenuante prevista dall'art. 62 n. 4 c.p.
In materia il collegio ribadisce che per la configurabilità dell'attenuante del danno di speciale tenuità (art. 62, n. 4, c.p.) in relazione al delitto di estorsione, non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia, atteso che il delitto ha natura di reato plurioffensivo perché lede non solo il patrimonio ma anche la libertà e l'integrità fisica e morale aggredite per la realizzazione del profitto; ne consegue che solo ove la valutazione complessiva del pregiudizio sia di speciale tenuità può farsi luogo all'applicazione dell'attenuante in questione (Cass. sez. 2 n. 12456 del 04/03/2008 Rv. 239749).
In coerenza con tali linee ermeneutiche la Corte di appello escludeva la concedibilità dell'attenuante tenuto conto degli effetti che il paventato intervento della criminalità organizzata aveva prodotto sulle vittime (pag 11 della sentenza impugnata).
4.Alla dichiarata inammissibilità dei ricorsi consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in Euro 1500,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1500.00 alla Cassa delle ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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