Che fine fanno le statuizioni civili a seguito della depenalizzazione?
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 3 marzo – 16 giugno 2016, n. 25062
Presidente Palla – Relatore Miccoli
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 24 settembre 2014 il Tribunale di Macerata, in parziale riforma della pronunzia di primo grado emessa dal Giudice di Pace di Macerata, concesse le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena, riduceva quest'ultima come inflitta a A.A., imputato dei reati di cui agli artt. 594 e 612 cod. pen. "perché offendeva il decoro e l'onore di B.P., proferendo più volte la parola "infame" e la minacciava dicendole "se non sta con me non sta con nessuno, ti presento il conto, nessun altro me la porterà via, se muore mio padre moriamo tutti" riferendosi alla procedura di affidamento della figlia minore A.".
Il Tribunale confermava le statuizioni civili e condannava l'imputato al pagamento delle ulteriori spese processuali in favore della parte civile.
2. Propone ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Ancona, denunziando violazione di legge in relazione alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Il ricorrente deduce che, a norma dell'art. 60 d.lvo 28.8.2000 n. 274, le disposizioni di cui agli artt. 163 e seguenti del codice penale, relative alla sospensione condizionale della pena, non si applicano alle pene inflitte dal giudice di pace.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato.
1. Infatti, l'art. 60 d.lvo 28.8.2000 n. 274 prevede che le disposizioni di cui agli artt. 163 e seguenti del codice penale, relative alla sospensione condizionale della pena, non si applicano alle pene inflitte dal giudice di pace.
Questa Corte, peraltro, ha già affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 60 del D.Lgs. 28 agosto 2000 n. 274, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui esclude, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, l'applicabilità della sospensione condizionale della pena, in quanto la scelta discrezionale del legislatore di privilegiare, per ragioni di politica criminale, il principio della effettività della sanzione penale non concreta, nella specie, alcun irragionevole trattamento discriminatorio né compromette il diritto di difesa (Sez. 2, n. 28850 del 08/05/2013, Orrù, Rv. 256354).
La sentenza va quindi annullata, senza rinvio, con riferimento alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, beneficio da eliminare in questa sede.
2. In virtù delle previsioni del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7, l'art. 594 cod. pen. è stato abrogato.
Peraltro, come si vedrà più avanti, il fatto di ingiurie è stato trasformato in illecito civile.
La sentenza impugnata, quindi, deve essere annullata perché il fatto di ingiurie non è più previsto dalla legge come reato, con rinvio al Tribunale solo ai fini della rideterminazione della pena in relazione al reato di minacce.
3. Tale situazione, a parere di questo Collegio, non comporta l'annullamento delle statuizioni civili in relazione al fatto di ingiurie contestato, per il quale - come si è detto - è intervenuta condanna al risarcimento del danno in favore della persona offesa.
4. Ai sensi dell'art. 4, primo comma, lett. a) del decreto n.7/2016 le ipotesi di ingiurie costituiscono ora illecito civile e obbligano oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno, anche al pagamento della sanzione pecuniaria da euro cento a euro ottomila.
La norma infatti prevede che “1. Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila: a) chi offende l'onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa....".
Il secondo comma dello stesso articolo prevede che nel "caso di cui alla lettera a) del primo comma, se le offese sono reciproche, il giudice può non applicare la sanzione pecuniaria civile ad uno o ad entrambi gli offensori". Mentre ai sensi del terzo comma della stessa norma "non è sanzionabile chi ha commesso il fatto previsto dal primo comma, lettera a), del presente articolo, nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso". È evidente che sono state riproposte le previsioni di cui all'art. 599 cod. pen., i cui commi primo e terzo sono stati soppressi dal decreto legislativo in esame.
Il quarto comma, lettera f), dell'art. 4 del decreto prevede che soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro duecento a euro dodicimila " chi commette il fatto di cui al comma 1, lettera a), del presente articolo, nel caso in cui l'offesa consista nell'attribuzione di un fatto determinato o sia commessa in presenza di più persone;...".
L'art. 5 del medesimo decreto dispone che l'importo della sanzione pecuniaria civile è determinato dal giudice tenuto conto dei seguenti criteri: a) gravità della violazione, b) reiterazione dell'illecito; c) arricchimento del soggetto responsabile; d) opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell'illecito; e) personalità dell'agente; f) condizioni economiche dell'agente.
Ai sensi del successivo art.8, le sanzioni pecuniarie civili sono applicate dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio, qualora accolga la domanda di risarcimento proposto dalla persona offesa.
La stessa norma, poi, prevede che le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto (ovvero lo scorso 6 febbraio 2016), salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
Invece, se i procedimenti penali per i reati abrogati dal decreto sono stati definiti prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
Nell'art. 12 dello stesso decreto sono previste le disposizioni transitorie. Al fine di assicurare l'applicazione retroattiva della nuova disciplina in esame e di evitare disparità di trattamento, si stabilisce al primo comma che “le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili".
In tale ipotesi, ossia quando ancora non sono state pronunciate sentenze o decreti irrevocabili, dovendo trovare applicazione retroattiva la norma più favorevole, ex art. 2 cod. pen., il giudice deve dichiarare che il "fatto non è previsto dalla legge come reato", adottando tutti i provvedimenti conseguenti.
5. L'art. 9 del decreto legislativo n.8/2016, in materia di depenalizzazione di reati puniti con la sola pena pecuniaria e trasformazione degli stessi in illeciti amministrativi, contiene ulteriori disposizioni transitorie al fine di disciplinare, nell'ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente per l'irrogazione delle sanzioni amministrative, e la sorte delle statuizioni civili già adottate.
In tal senso il terzo comma dell'articolo citato prevede espressamente che "se l'azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell'art. 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1. Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili".
Quindi in tale norma espressamente è stato previsto che il giudice penale possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili.
In proposito, e per fugare dubbi in ordine alla aderenza della norma ai principi costituzionali, va evidenziato che con recente sentenza la Corte costituzionale ha delineato la fisionomia generale della disciplina dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, disciplina informata al "principio della separazione e dell'autonomia dei giudizi", affermando che "il danneggiato può scegliere se esperire l'azione civile in sede penale o attivare la tutela giurisdizionale nella sede naturale. In questa seconda ipotesi, peraltro, egli non subisce alcuna limitazione di ordine temporale: diversamente che sotto l'impero del codice del 1930, l'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto non comporta, di regola, la sospensione del processo civile, nell'ambito del quale l'eventuale giudicato penale di assoluzione non ha efficacia (art. 652 cod. proc. pen.). Il giudizio civile di danno prosegue, dunque, autonomamente malgrado la contemporanea pendenza del processo penale (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.): la sospensione rappresenta l'eccezione, che opera nei limitati casi previsti dall'art. 75, comma 3" (così in motivazione sentenza n. 12 del 2016).
In questa prospettiva, la Corte Costituzionale ha osservato che l'art. 538, comma 1, cod. proc. pen. collega "in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell'imputato", con l'unica eccezione stabilita dall'art. 578 cod. proc. pen. riguardante il giudizio di impugnazione. Il collegamento istituito dall'art. 538 cod. proc. pen. "tra decisione sulle questioni civili e condanna dell'imputato riflette il carattere accessorio e subordinato dell'azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell'azione penale: obiettivi che si focalizzano nell'accertamento della responsabilità penale dell'imputato".
La stessa Corte Costituzionale, però, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.538 del codice di procedura penale sollevata in riferimento agli artt.3 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non consente al giudice di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno quando pronuncia sentenza di assoluzione dell'imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente, ha affermato che il Legislatore resta certamente libero, nella sua discrezionalità, di introdurre, in vista di una più efficace tutela della persona danneggiata dal reato e del conseguimento di maggiori risparmi complessivi di risorse giudiziarie, una disciplina ampliativa dei casi nei quali il giudice penale si pronuncia sulle questioni civili, pur in assenza di una condanna dell'imputato.
È del tutto evidente, allora, che la disposizione contenuta nel citato art. 9 costituisca proprio una chiara scelta del Legislatore di tutelare la persona danneggiata dai fatti depenalizzati, non costringendola a proporre nuovamente la sua domanda risarcitoria dinanzi al giudice civile, in evidente contrasto con il principio del giusto processo ex art. 111 Cost..
6. Una disposizione analoga al citato articolo 9 del decreto legislativo n. 8/2016 manca nel coevo decreto n.7/2016.
Si è posto allora il problema della sorte dell'eventuale costituzione di parte civile in giudizio e/o dell'eventuale statuizione di condanna per la responsabilità civile pronunciata dal giudice di primo grado, nelle ipotesi di reati trasformati in illeciti civili.
Indubbiamente, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile nel giudizio di primo grado ed il processo sia definito con sentenza di assoluzione "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato", il giudice non può pronunciarsi sulla domanda di risarcimento del danno, con la conseguenza che la parte civile può riassumere il procedimento innanzi al giudice civile.
Depone in questo senso il chiaro dettato dell'art. 538 cod.proc.pen., a norma del quale il giudice decide sulla domanda per le restituzioni ed il risarcimento del danno solo quando pronuncia sentenza di condanna.
Più problematico è certamente il caso in cui sia già intervenuta una sentenza di "condanna" (in primo o secondo grado), avverso la quale sia proposta impugnazione.
Ritiene questo Collegio di aderire a quella tesi secondo la quale dall'assenza di una norma transitoria che disponga, in modo esplicito, che il giudice dell'impugnazione è tenuto a pronunciarsi in ordine agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili non consegua che le statuizioni in questione debbano essere revocate.
Certamente tale obbligo non può dedursi dalla circostanza che l'art. 578 cod.proc.pen. prevede espressamente che il giudice dell'impugnazione sia tenuto a pronunciarsi in ordine agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili in caso di dichiarazione di reato estinto per prescrizione o per amnistia.
L'art. 578, infatti, pone una eccezione alla "regola" generale del collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell'imputato, così come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 12537 del 05/10/1999, Nicolosi, Rv. 216394, che ha escluso l'applicabilità dell'art. 578 cod. proc. pen. al caso di estinzione del reato per morte dell'imputato; in senso conforme Sez. 3, n. 22038 del 12/02/2003, Pludwinski, Rv. 225321).
Si tratta di disciplina speciale, non suscettibile di essere estesa analogicamente ad altre cause estintive (Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005, Zelli, rv. 231745; conformi: n. 12537 del 1999, rv. 216394; n. 22038 del 2003, rv. 225321).
7. Ritiene, tuttavia, questo Collegio che possano individuarsi altre disposizioni che impongono al giudice penale di pronunciarsi sulle statuizioni circa il risarcimento dei danni derivanti da un fatto ancora "civilmente" rilevante.
In base all'art. 2, comma secondo, cod. pen. l'intervenuta "abolitio criminis" determina la cessazione dell'esecuzione e degli "effetti penali" della condanna; dal tenore della norma si evince chiaramente, argomentando a contrario, che le "obbligazioni civili" nascenti dal fatto illecito non "cessano".
D'altronde, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, la revoca della sentenza di condanna (divenuta definitiva) per "abolitio criminis" - conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto - non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata (Sez. 5, n. 4266 del 20/12/2005, Colacito, rv. 233598; Sez. 5, n. 28701 del 24/05/2005, P.G. in proc. Romiti, rv. 231866).
Né può giustificarsi una differente soluzione nel caso di revoca della sentenza di condanna per sopravvenuta abolitio criminis (revoca la cui portata viene circoscritta agli effetti penali e con esclusione di quelli civili) e nel caso, come quello in esame, in cui una sentenza di condanna è intervenuta ma non è ancora irrevocabile.
Il collegamento "in via esclusiva" sancito dall'art. 538, comma 1, cod. proc. pen. tra la decisione sulla domanda della parte civile e la condanna dell'imputato non può leggersi in maniera limitata alla sola condanna "definitiva".
A riscontro di ciò va rilevato che gli effetti sul piano processuale della abolitio criminis non possono essere, per coerenza, diversi da quelli previsti sul piano sostanziale, laddove è stato previsto che al diritto del danneggiato dal reato al risarcimento del danno non si applicano i principi attinenti la successione nel tempo delle leggi penali, fissati dall'art. 2 cod. pen., ma il principio stabilito dall'art. 11 delle preleggi; pertanto, il diritto al risarcimento permane anche a seguito di "abolitio criminis", nulla rilevando successive modifiche legislative, che non abbiano espressamente disposto sui diritti quesiti (Sez. 6, n. 2521 del 21/01/1992, Dalla Bona, Rv. 190006).
Da tempo la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato come permanga il diritto al risarcimento dei soggetti costituiti parte civile anche a seguito dell'abrogazione del reato, trovando applicazione non l'art. 2 comma secondo cod. pen. ma l'art. 11 delle preleggi (si veda la già citata Sez. 5, n. 28701 del 24/05/2005, P.G. in proc. Romiti ed altri, rv. 231866, che in motivazione richiama anche l'ordinanza della Corte costituzionale n. 273/02).
Quindi, se l'art. 2 cod. pen. disciplina espressamente la sola cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali della condanna, ne deriva, attraverso un'argomentazione a contrario, che le obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall'art. 11 preleggi.
Né può trascurarsi che la formula assolutoria adottata a seguito della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice non è tra quelle alle quali l'art.652 cod.proc.pen. attribuisce efficacia nel giudizio civile (si veda in tal senso quanto sottolineato dalla citata ordinanza Corte Cost. n. 273/02).
8. D'altro canto non si può trascurare che la sentenza di assoluzione per abolitio criminis emessa dopo che v'è stata una pronunzia di condanna anche al risarcimento dei danni non ha una valenza pienamente liberatoria postulando - al pari della sentenza di condanna definitiva - l'accertamento della sussistenza del fatto e della sua riferibilità all'imputato, sia dal punto di vista dell'elemento materiale sia da quello psicologico.
In altri termini, non può che rilevare la circostanza che si sia compiutamente svolto un processo nel quale il fatto dal quale consegue il diritto al risarcimento dei danni sia stato accertato e sia attribuibile ad un soggetto obbligato agli effetti civili.
Una diversa interpretazione della normativa in esame violerebbe l'art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra il danneggiato che ha ottenuto una condanna al risarcimento in un processo penale che si concluda (in appello o in cassazione) con la declaratoria di abolitio criminis e il danneggiato che ha ottenuto la stessa condanna con una sentenza irrevocabile.
Peraltro, è del tutto evidente che una violazione dell'art. 3 Cost. possa configurarsi tenuto conto del diverso trattamento tra i soggetti danneggiati dai fatti che in virtù del decreto legislativo n. 7/2016 sono ancora civilmente rilevanti e quelli depenalizzati in conseguenza del decreto legislativo n. 8/2016, che - come si è detto - rilevano ancora quali illeciti amministrativi. Non solo, in forza del sostenuto limite del giudice penale, risulterebbe compromesso il pieno esercizio del diritto di difesa (art. 24 Cost.) del danneggiato, il quale dovrebbe così instaurare un nuovo giudizio avanti al giudice civile al fine di soddisfare i suoi diritti, con totale vanificazione della scelta di far valere la pretesa risarcitoria in sede penale.
Da ultimo, risulterebbe leso anche il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111 Cost., dal momento che la necessità di trasferire la domanda risarcitoria in sede civile costringerebbe il danneggiato a promuovere l'azione per ottenere una nuova pronuncia sia sull'"an debeatur" che sul "quantum".
Al riguardo va evidenziato che proprio nella già citata sentenza della Corte Costituzionale sull'art. 538 cod. proc. pen. si è affermato che la violazione del principio di ragionevole durata del processo è ravvisabile solo con riferimento a quelle norme "che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza".
Nella normativa in esame è evidente che il legislatore, mosso dalla esigenza deflattiva dei contenziosi, ha dato attuazione a quanto stabilito al comma 3 dell'art. 2 della l. n. 67/2014, in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili.
È del tutto evidente come la riforma incida non solo sul contenzioso penale, essendo stati "abrogati" una serie di reati (di cui agli artt. 485, 486, 594, 627, 647 cod.pen.) e modificati altri, ma anche sul contenzioso civile, in quanto l'azione civile (di risarcimento del danno), che prima della riforma poteva essere esercitata alternativamente in sede penale o in sede civile, deve essere esperita esclusivamente innanzi al giudice civile, e il giudice decide, anche d'ufficio, qualora accolga la domanda di risarcimento del danno, così condannando la parte al pagamento di una sanzione pecuniaria civile che, per espressa previsione di legge, va devoluta alla Cassa delle ammende.
E non si può sostenere che un legislatore che ha avuto come finalità primaria quella di "alleggerire" gli uffici giudiziari non abbia avuto anche la logica esigenza di non moltiplicare il contenzioso civile.
D'altronde è lo stesso legislatore che nell'art. 12, comma 1, dl.gs. n. 7/2016 ha previsto espressamente che le "disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili".
Quindi, vi è stata una precisa scelta legislativa di applicare tutte le norme del decreto anche ai fatti oggetto di processi penali non definiti con sentenza o decreto divenuti irrevocabili; e tra tali norme v'è anche quella di cui all'art. 3, comma 1, che prevede che i "fatti previsti dall'articolo seguente (tra cui l'ingiuria, n.d.r.), se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita”.
Insomma, una lettura sistematica della normativa in esame consente di affermare che anche il giudice penale è legittimato a riconoscere il risarcimento del danno per gli illeciti civili commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 7, salvo che il processo sia stato definito (art. 12).
In senso contrario non può richiamarsi la disposizione di cui all'art. 8, comma 1, d.lgs n. 7 del 2016, il quale statuisce che le "sanzioni pecuniarie civili sono applicate dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno".
Tale norma, infatti, si limita a stabilire non tanto che il giudice possa disporre il risarcimento del danno quanto piuttosto che il medesimo possa applicare sanzioni pecuniarie civili a seguito del riconoscimento del danno da illeciti civili dolosi.
Inoltre, posto che nell'applicazione della legge si deve tener conto dell'intenzione del legislatore (art. 12 preleggi) e che, come emerge nella relazione illustrativa di accompagnamento allo schema del decreto legislativo recante disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'art. 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67, è stato ritenuto come l'art. 12, comma 1, dl.gs n. 7 possa essere applicato anche per le condotte già rilevanti penalmente, purché "il relativo procedimento penale sia tuttora pendente", va da sé che, proprio attenendosi all'intenzione del legislatore, questa normativa è applicabile anche per i processi pendenti.
9. Va quindi conclusivamente affermato che le statuizioni civili pronunciate nel giudizio di merito sopravvivono all'intervenuta abrogazione della rilevanza penale del fatto il cui accertamento le ha giustificate.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al fatto di cui all'art. 594 cod. pen. perché non è previsto dalla legge come reato, con rinvio al Tribunale di Macerata per la determinazione del trattamento sanzionatorio relativo al reato di cui all'art. 612 cod. pen..
18-06-2016 17:37
Richiedi una Consulenza