Tribunale di Trapani. Detenzione di sostanze stupefacenti al fine di cessione. La Cassazione conferma la condanna a 4 anni e 10 giorni di reclusione. Ricorso inammissibile.
Cassazione penale sez. III
Data:
25/03/2015 ( ud. 25/03/2015 , dep.13/04/2015 )
Numero:
14962
Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio Felice - Presidente -
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere -
Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere -
Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere -
Dott. MENGONI Enrico - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
F.G., nato ad (OMISSIS);
avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Palermo in
data 5/6/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del
Sostituto Procuratore generale dott. BALDI Fulvio che ha chiesto
dichiarare inammissibile il ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5/6/2014, la Corte di appello di Palermo confermava la pronuncia emessa il 12/5/2011 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trapani, con la quale F.G. era stato giudicato colpevole dei reati di cui all'art. 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, art. 337 c.p., e condannato alla pena di 4 anni e 10 giorni di reclusione e 17.400,00 Euro di multa; allo stesso era ascritto di aver detenuto a fine di cessione, in luoghi diversi, sostanze stupefacenti di varia natura, e di aver compiuto resistenza a pubblico ufficiale in occasione di un controllo.
2. Propone ricorso per cassazione il F., a mezzo del proprio difensore, deducendo cinque motivi:
- violazione dell'art. 4, comma 1, della decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea n. 75 del 2004, che impone agli Stati membri la previsione di una pena massima compresa tra almeno uno e tre anni, con riferimento al reato di stupefacenti. La Corte di appello avrebbe erroneamente negato l'applicazione di questa disposizione, il cui carattere sarebbe invece cogente;
- violazione dell'art. 73 cit. in relazione al D.M. 11 aprile 2006.
La Corte avrebbe errato nel ritenere superate le soglie di cui al decreto in oggetto, addirittura - quanto alla ketamina - formulando un giudizio di mera verosimiglianza. A prescindere da ciò, peraltro, le modalità concrete di detenzione non consentirebbero di ritenere che lo stupefacente fosse destinato allo spaccio, dovendo invece servire soltanto ad uso personale; e con l'ulteriore precisazione per cui - a differenza di quanto affermato nella sentenza gravata -il reato eventualmente da individuare sarebbe unico, non già duplicabile in più fattispecie;
- violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. La Corte avrebbe errato nel negare l'ipotesi di lieve entità, della quale invece sussisterebbero i presupposti, anche con riguardo all'art. 337 c.p.;
- violazione dell'art. 62-bis c.p.. La Corte, parimenti, avrebbe errato nel negare le circostanze attenuanti generiche, da riconoscere invece alla luce della sostanza rinvenuta, della quasi incensuratezza del soggetto e della condotta complessiva da questi tenuta;
- violazione dell'art. 337 c.p.. La Corte, da ultimo, avrebbe riconosciuto il delitto di resistenza a pubblico ufficiale pur a fronte di una condotta finalizzata soltanto alla fuga, spontanea ed istintiva, non già ad attentare all'incolumità del Carabiniere.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Quanto al primo motivo, si osserva che l'art. 4, comma 1 della Decisione quadro 757/GAI/2004 del Consiglio del 25 ottobre 2004 (riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti) prevede che "Ciascuno Stato membro provvede affinchè i reati di cui all'art. 2 siano soggetti a pene detentive della durata massima compresa tra almeno 1 e 3 anni"; ne consegue che non appare censurabile l'interpretazione offerta dalla sentenza impugnata secondo cui, con tale dizione, 1) vengono indicati i massimi, che non possono essere inferiori ad uno e tre anni, e, pertanto 2), non vengono indicati il termine minimo (1 anno) e quello massimo (3 anni). Infatti, ove fosse attendibile l'opposta tesi, la norma si sarebbe espressa nel senso che la pena irrogabile deve essere "da 1 a 3 anni", e non "tra 1 e 3 anni", essendosi voluto così indicare che il massimo doveva "almeno" non essere inferiore a quello compreso tra 1 e 3 anni. Prescindendo da ciò, peraltro, la questione è comunque superata dal fatto che l'art. 4, comma 2, stessa Decisione quadro, prevede la pena della durata massima compresa tra almeno 5 e 10 anni in caso, fra l'altro, di grandi quantitativi e di fornitura di stupefacenti più dannosi per la salute: e l'LSD ricade ovviamente tra questi, atteso il suo maggiore effetto drogante. (Sez. 3, n. 12635 del 2/3/2010, Piva, Rv. 246815).
La censura, pertanto, è infondata.
4. Con riguardo poi alla prima parte del secondo motivo, si osserva che, per prevalente indirizzo di questa Corte, al quale il Collegio aderisce, in tema di stupefacenti non ha rilevanza, ai fini della integrazione della fattispecie criminosa di detenzione a fini di spaccio (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73), il mancato superamento della soglia quantitativa drogante, stante la natura legale della nozione di sostanza stupefacente (Sez. 5, n. 5130 del 4/11/2010, Moltoni, Rv. 249702); negli stessi termini, ulteriormente, si è poi affermato che il reato di cessione di sostanze stupefacenti è configurabile anche in relazione a dosi inferiori a quella media singola di cui al D.M. 11 aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di stupefacente talmente tenui da non poter indurre, neppure in maniera trascurabile, la modificazione dell'assetto neuropsichico dell'utilizzatore (Sez. 4, n. 21814 del 12/5/2010, Renna, Rv. 247478). Quel che non appare lecito sostenere - come affermato implicitamente dalla Corte di appello - con riguardo alla tipologia ed alla natura delle sostanze sequestrate, quali hashish, ketamina e LSD. In ordine, poi, alla seconda parte del motivo, relativa all'effettiva destinazione allo spaccio della sostanza, osserva il Collegio che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene nè alla ricostruzione dei fatti nè all'apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell'atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
(Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542;
Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).
Se questa, dunque, è l'ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il giudizio della Suprema Corte, la censura che il ricorrente muove al provvedimento impugnato si evidenzia come manifestamente infondata; ed invero, dietro l'apparenza di una violazione di legge, il F. di fatto invoca al Collegio una diversa e nuova valutazione delle medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (qualità e quantità della sostanze droganti, rilevanza ed origine del bilancino e del danaro in sequestro, caratteristiche e "natura" dei rave parties), sollecitando al riguardo una conclusione alternativa in termini di responsabilità.
Quel che, come appena affermato, non è consentito in questa sede.
A ciò si aggiunga, peraltro, che la Corte di appello ha redatto al riguardo una motivazione congrua, logica e priva di contraddizioni, nonchè fondata su oggettive risultanze istruttorie; in particolare, ha ravvisato il reato di cui all'art. 73 cit. alla luce del fatto che 1) il F. era stato trovato in possesso (al rave party) di un involucro contenente LSD, di 10 involucri contenenti Ketamina e di uno di hashish; 2) nel corso della perquisizione domiciliare, erano stati poi rinvenuti circa 130 grammi di hashish, diversamente nascosti, un bilancino di precisione (abitualmente impiegato per pesare e confezionare le dosi da cedere) e circa 2.000 Euro in contanti. Così concludendo - con argomento adeguato e non censurabile - che le quantità di sostanze rinvenute erano eccessive per un uso soltanto personale, come peraltro diffusamente sostenuto anche dal G.u.p. (pag. 5) nella prima sentenza, cui l'altra si lega in modo radicale in ragione della cd. "doppia conforme".
Da ultimo, ancora con riguardo al secondo motivo, osserva la Corte che la motivazione risulta del tutto adeguata anche in ordine alla configurabilità, nel caso di specie, di due distinte ipotesi di reato; il Collegio di merito, infatti, ha aderito al costante indirizzo di legittimità in forza del quale l'assenza di contiguità spazio-temporale tra le condotte di detenzione e cessione di sostanza stupefacente impedisce l'assorbimento dell'una nell'altra, con la conseguenza che le stesse danno luogo a più violazioni della medesima disposizione di legge e quindi a distinti reati, eventualmente legati dal vincolo della continuazione criminosa, ambedue previsti dalla norma a più fattispecie tra loro alternative di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (per tutte, Sez. 6, n. 22588 del 7/4/2005, Volpi, Rv. 232094).
5. Anche il terzo motivo, concernente il mancato riconoscimento della fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è infondato.
Osserva il Collegio, infatti, che la Corte di appello - rispondendo alla medesima doglianza - ha negato l'ipotesi lieve in ragione di plurimi elementi, quali la differente qualità e quantità delle sostanze rinvenute, la loro capacità di soddisfare un considerevole numero di consumatori, il rinvenimento di droga anche presso l'abitazione, in uno con un bilancino di precisione, a conferma del carattere non occasionale dell'attività. In tal modo, quindi, la Corte ha aderito al pacifico orientamento in forza del quale, in tema di sostanze stupefacenti, ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante (oggi ipotesi autonoma di reato) del fatto di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, il Giudice è tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi indicati dalla norma e, quindi, sia quelli concernenti l'azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all'oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo conseguentemente escludere il riconoscimento dell'attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità (per tutte, Sez. 4, n. 6732 del 22/12/2011, Sabatino, Rv. 251942).
6. Analoghe conclusioni, poi, si impongono anche quanto al quarto motivo, in tema di circostanze attenuanti generiche.
La Corte di appello, infatti, le ha negate in ragione della "connotazione del fatto come sopra delineata, la cui gravità risulta confermata dal rinvenimento nel possesso del F. di ulteriore sostanza da utilizzare per il taglio dello stupefacente, nonchè dal precedente penale gravante sullo stesso, sintomatico di una personalità incline alla violazione della legge penale";
motivazione, questa richiamata, che dunque si conforma al costante indirizzo per cui, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899).
7. Da ultimo, il motivo relativo all'art. 337 c.p..
Anche in questo caso, ritiene la Corte che la sentenza sia logicamente argomentata ed immune da censure, nella misura in cui - interessata dalla stessa doglianza - ha evidenziato che l'imputato, mentre era accompagnato all'auto di servizio, "aveva spintonato il militare, divincolandosi dalla presa e tentando di darsi alla fuga";
sì da escludere la tesi difensiva per cui si sarebbe trattato, invece, soltanto di una reazione istintiva e spontanea. In tal modo, quindi, la sentenza ha ribadito il costante orientamento per cui, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 337 c.p., l'atto di divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria integra il requisito della violenza e non una condotta di mera resistenza passiva, quando non costituisce una reazione spontanea ed istintiva al compimento dell'atto del pubblico ufficiale, ma un vero e proprio impiego di forza diretto a neutralizzarne l'azione ed a sottrarsi alla presa, guadagnando la fuga (per tutte. Sez. 5, n. 8379 del 27/9/2013, Rodrigo, Rv. 259043);
esattamente come nel caso di specie, giusta motivazione della sentenza.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 25 marzo 2015.
Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2015
25-04-2015 09:23
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