I carabinieri lo fermano perchè guidava parlando a telefono. Il conducente allora minaccia i militi per costringerli a desistere. Condannato a due mesi e venti giorni di reclusione.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 17 giugno 2014 – 23 febbraio 2015, n. 7996
Presidente Di Virginio – Relatore Paoloni
Fatto e diritto
1. All'esito di giudizio abbreviato il Tribunale di Pesaro, con sentenza emessa il 9.1.2009, ha dichiarato R.P. colpevole del reato di minaccia plurima a pubblico ufficiale, perché -fermato il 2.5.2007 da due carabinieri in servizio che lo avevano visto conversare con il telefono cellulare mentre marciava alla guida della sua autovetturarivolgeva ripetute frasi di grave minaccia ai due militari per costringerli a desistere dal formare il verbale dell'apposita contravvenzione prevista dal codice della strada. Per l'effetto il Tribunale ha condannato il Paci, riconosciutegli le attenuanti generiche, alla pena condizionalmente sospesa di due mesi e venti giorni di reclusione.
Adita dall'impugnazione del P., appellante la prima sentenza limitatamente al solo trattamento punitivo per mancata applicazione della diminuente della seminfermità mentale e per l'eccessività della pena, la Corte di Appello di Ancona con sentenza in data 19.10.2012 ha confermato la decisione di primo grado, valutando destituiti di fondamento gli elementi censori esposti dal prevenuto.
2. Con atto personale il P. impugna per cassazione la decisione di appello, prospettando due motivi di doglianza.
Innanzitutto la Corte di Appello ha violato il disposto dell'art. 420-ter c.p.p., considerando tamquam non esset l'istanza di rinvio per impedimento dell'imputato dell'udienza di trattazione dell'appello fissata per il 19.10.2012, perché fatta pervenire dal difensore alla stessa Corte il 17.10.2012 a mezzo fax. Ciò in aperto contrasto con l'orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità che ammette la possibilità di invio di atti e memorie con lo strumento tecnico del fax telefonico e impone al giudice l'obbligo di valutarne il merito.
In secondo luogo il diniego della diminuente di cui all'art. 89 c.p. ribadito dalla sentenza impugnata si mostra lacunoso e illogico, atteso che i giudici del gravame hanno ignorato o minimizzato la documentazione sanitaria prodotta dalla difesa e avvalorante la presenza di un disturbo della personalità dell'imputato già in epoca antecedente l'episodio criminoso oggetto della regiudicanda verificatosi il 2.5.2007.
3. Disattesa l'inconferente istanza di differimento della odierna udienza di discussione avanzata dal difensore del ricorrente, deve rilevarsi che il ricorso del P. è inammissibile per manifesta infondatezza delle censure.
3.1. Il primo motivo di ricorso in procedendo è privo di ogni pregio.
Se da un lato la Corte distrettuale ha valutato irrituale la trasmissione del certificato medico concernente l'impedimento dell'imputato a partecipare al giudizio camerale di appello ex art. 127 c.p.p. (si è proceduto con rito abbreviato) perché avvenuta a mezzo fax, modalità che il più recente indirizzo di questa Corte regolatrice reputa consentito e non incompatibile con il disposto dell'art. 121 c.p.p. (ex plurimis: Sez. 2, n. 9030 del 5.11.2013, Stucchi, rv. 258526), da un altro lato la stessa Corte ha comunque valutato la natura dell'impedimento addotto dall'imputato, giudicandolo non idoneo ad attestare un effettivo e assoluto impedimento ad intervenire in giudizio.
Valutazione in punto di fatto incensurabile in questa sede, perché imperniata su un apprezzamento affatto logico e lineare. I giudici del gravame hanno evidenziato, infatti, la totale genericità del certificato medico prodotto, redatto per altro ben quattro giorni prima dell'udienza del 19.10.2012, in quanto attestante una affezione bronchiale del P. senza ulteriori più congrue indicazioni (neppure dello stato febbrile del paziente).
3.2. Manifestamente infondato è anche il rilievo sull'addotto stato di seminfermità mentale dell'imputato alla data del commesso reato.
La sentenza di appello, come già la sentenza di primo grado, ha disatteso la prospettazione difensiva, escludendo la sussistenza di uno stato di ridotta capacità di intendere e di volere dell'imputato al momento del fatto reato, osservando come un tale stato si fondi sull'individuazione di un generico disturbo della personalità del P. ("grossolano disturbo dispercettivo'), clinicamente accertato soltanto nel gennaio 2008 (con ricovero ospedaliero), cioè molti mesi dopo l'episodio di cui è stato riconosciuto colpevole l'imputato, e per di più fronteggiabile con presidi farmacologici (psicofarmaci) di comune e ampia diffusione. Le coerenti e motivate notazioni sviluppate al riguardo dalla sentenza di secondo grado si sottraggono, quindi, nelle loro valenze fattuali, a scrutinio di legittimità (v.: Sez. 2, n. 34913 del 15.5.2013, Maneglia, rv. 257107).
Né la circostanza enunciata in ricorso per cui già nel 2006 il P. sarebbe stato sottoposto a controllo medico neurologico può far velo all'esauriente giudizio espresso dalla sentenza impugnata nel disconoscere i presupposti referenziali di un concreto stato di parziale infermità mentale del prevenuto. Ciò tanto più quando si consideri che il ricorso sembra confondere l'imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito che l'agente sta compiendo. Nozioni che esprimono categorie giuridiche concettualmente diverse ed operanti su piani diversi, benché ovviamente la prima, come substrato naturalistico della responsabilità penale, vada accertata con criterio di priorità rispetto alla seconda. La stessa agevole ricostruzione della semplice condotta posta in essere dall'imputato al momento del controllo di p.g. cui è stato sottoposto dimostra, d'altro canto, la consapevole finalizzazione lesiva delle frasi di deliberata minaccia rivolte dal P. ai due carabinieri operanti, con piena cognizione del loro funzionale proiettarsi sull'atto di ufficio che stava per essere compiuto nei suoi confronti (contestazione di infrazione al codice della strada).
All'inammissibilità dell'impugnazione segue ope legis la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che si stima equo fissare in euro 1.000 (mille).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.
25-02-2015 00:37
Richiedi una Consulenza