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Sentenza

Divieto di reformatio in peius in presenza di una modifica normativa più favorevole per il reo. Applicabilità della sanzione sostitutiva dei lavori di pubblica utilità, così come prevista dall’art. 73, comma 5 bis, d.P.R. n. 309/1990 in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dalla norma.
Divieto di reformatio in peius in presenza di una modifica normativa più favorevole per il reo. Applicabilità della sanzione sostitutiva dei lavori di pubblica utilità, così come prevista dall’art. 73, comma 5 bis, d.P.R. n. 309/1990 in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dalla norma.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 9 settembre – 29 ottobre 2015, n. 43594
Presidente Fiale – Relatore Aceto

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza del 21/01/2014 il Tribunale di Ravenna aveva dichiarato il sig. B.D. colpevole del reato di cui all'art. 73, comma 1-bis, lett. a), d.P.R 9 ottobre 1990, n. 309 (detenzione, per uso non esclusivamente personale, di gr. 26,24 di sostanza stupefacente del tipo marijuana; fatto commesso in (omissis) ) e, ritenuta l'ipotesi lieve di cui all'art. 73, comma 5, stesso d.P.R., come modificato dall'art. 2, comma 1, lett. a), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, in concorso di circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva specifica, reiterata e infraquinquennale, l'aveva condannato alla pena di un anno di reclusione e 3.000,00 Euro di multa.
2.La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 30/05/2014, in applicazione della sopravvenuta legge 16 maggio 2014, n. 49, ha rideterminato la pena nella misura di otto mesi di reclusione e 2.000,00 Euro di multa, confermando nel resto la sentenza impugnata.
3.Per l'annullamento della sentenza ricorre l'imputato che, articola, per il tramite del difensore, i seguenti motivi.
3.1.Con il primo eccepisce, ai sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., difetto di motivazione in punto di comprovata esclusione che lo stupefacente fosse destinato ad uso esclusivamente personale.
3.2.Con il secondo eccepisce, ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione dell'art. 2, cod. pen., nella parte in cui la Corte di appello non ha applicato il minimo della pena con conseguente violazione del divieto della "reformatio in pejus".
3.3.Con il terzo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen., violazione dell'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990 in conseguenza della erronea valutazione di sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità e difetto di motivazione sul punto.

Considerato in diritto

4. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché generico e proposto per motivi non consentiti dalla legge.
5.1. L'imputato attinge ampiamente al materiale probatorio già prodotto in primo grado (parte del quale allega) sottoponendolo all'esame diretto di questa Suprema Corte perché ne tragga spunto per valutare la effettiva sussistenza dei vizi motivazioni denunziati.
5.2. L'eccezione, dunque, si alimenta di dati fattuali estrinseci al testo della sentenza impugnata senza che delle relative prove sia denunciato il decisivo travisamento.
5.3. Il ricorso, anzi, costituisce una sostanziale ripetizione dei motivi di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, riproposti tal quali (insieme con le fisiologiche deduzioni fattuali tipiche di un atto di appello) per censurare in questa sede, sotto il profilo delle carenze motivazionali, la scelta della Corte territoriale di mantenere fermo il giudizio di responsabilità, piuttosto che aderire alla possibile ricostruzione alternativa dei medesimi fatti. Attenendosi al testo del provvedimento impugnato, l'imputato avrebbe dovuto individuarne i profili di manifesta illogicità intrinseca invece di raccogliere nelle prove gli argomenti per scardinarla. Il vizio di motivazione, se non deriva dal decisivo travisamento della prova, riguarda la logica del provvedimento; la natura manifesta del vizio costituisce un limite oltre il quale il sindacato di questa Corte non può spingersi. Ove pertanto non via sia una manifesta frattura del sillogismo che presiede al ragionamento del Giudice e che collega il fatto, come descritto in sentenza, alle conseguenze che ne sono state tratte, questa Corte non può sovrapporre la propria logica a quella del giudice di merito, né preferire una ragionevole ricostruzione alternativa della medesima vicenda. Il metro di valutazione dunque non sono le prove raccolte in fase di merito, ma la non manifesta illogicità della motivazione come si evince dal testo della sentenza.
5.4.Orbene non è manifestamente illogico trarre dagli elementi di prova che la sentenza individua e colloca come estremo fattuale del sillogismo (la detenzione di quasi 30 grammi di sostanza stupefacente, divisi in più confezioni detenute parte sulla persona, parte nel vano portaoggetti dell'auto; il possesso di denaro contante; il successivo ritrovamento in casa di un bilancino di precisione con tracce di marijuana; il fabbisogno personale dell'imputato tossicodipendente) le conclusioni che la Corte territoriale ne trae circa la destinazione ad un uso non esclusivamente personale della sostanza. Le deduzioni difensive circa il mancato rinvenimento dello stupefacente in casa, le sue disponibilità economiche, la necessità dell'acquisto frazionato della sostanza presso spacciatori diversi, il modesto quantitativo di principio attivo, si avvalgono, come detto, di inammissibili allegazioni fattuali e comunque non valgono a rendere manifestamente illogica la motivazione del provvedimento impugnato.
6. È palesemente infondato anche il secondo motivo di ricorso.
6.1. Deve essere respinta, nei termini assoluti in cui è stata proposta, la tesi difensiva secondo la quale la Corte di appello, in quanto adita dal solo imputato, per non violare il divieto della "reformatio in pejus", avrebbe dovuto automaticamente ridurre la pena applicata dal primo giudice contenendola in misura corrispondente al nuovo minimo edittale piuttosto che una pena superiore al nuovo minimo edittale, così violando il divieto di un trattamento sanzionatorio proporzionalmente deteriore, ancorché matematicamente inferiore a quello inflitto in primo grado.
6.2.La tesi, come detto, non ha fondamento, non nei termini assoluti sopra esposti.
6.3.Questa Suprema Corte ha affermato il principio secondo il quale in caso di legge sopravvenuta che diminuisca il minimo edittale della pena inflitta in primo grado, viola il divieto di "reformatio in pejus" il giudice dell'appello che non applichi a sua volta il nuovo minimo quando dalla sentenza di primo grado risulti che la pena sia stata applicata, indipendentemente dalla sua quantificazione, in assenza di ogni ulteriore considerazione sulla gravita del reato e sulla capacità a delinquere del suo autore (cfr., sul punto, Sez. 4, n. 48334 del 25/11/2009, Tondi).
6.4.Se invece il giudice di primo grado ha quantificato la pena nel minimo edittale ritenendola espressamente adeguata alla gravita del fatto accertato, il giudice dell'appello può mantenere il precedente minimo edittale, ancorché più elevato, purché ne dia adeguata motivazione (Sez. 4, n. 15129 del 23/01/2008, Guzman Avila, Rv. 239807; Sez. 4, n. 40287 del 27/09/2007, Cutarelli, Rv. 237887; Sez. 4, n. 22526 del 04/05/2007, Hasi, Rv. 237019; Sez. 2, n. 40382 del 26/09/2006, Arici, Rv. 235470).
6.5.Costituisce principio consolidato di questa Suprema Corte che, nel caso di riduzione del minimo edittale della pena per modifica normativa o dichiarazione di incostituzionalità, non debba ritenersi violato il principio del divieto di "reformatio in pejus" se, applicato dal primo giudice il minimo edittale, il giudice di appello abbia tenuto conto della modifica normativa applicando però una pena superiore al nuovo minimo (Sez. 6, n. 25/01/1995, nn. 3577 e 3587, Rv. nn. 200707 e 200709; Sez. 6, n. 37887 del 11/10/2006, Duetto, Rv. 235588; Sez. 6, n. 32673 del 09/04/2010, Tirane, Rv. 247998. Cfr. anche, sul punto, Sez. 6, n. 45896 del 16/10/2013, Foddi, Rv. 258161, secondo la quale il giudice dell'appello non è tenuto a diminuire la pena irrogata con sentenza emessa prima di una modifica normativa che riduce la sanzione edittale minima del reato per il quale si procede se il giudice di primo grado abbia inflitto una pena superiore a quella minima prevista dalla disciplina in quel momento vigente, sempre che la sentenza di secondo grado ritenga, con congrua motivazione, che tale sanzione è adeguata alla gravita del fatto).
6.6. Con specifico riferimento a vicende analoghe a quella oggetto del presente giudizio, questa Corte, ha ulteriormente precisato che il principio dell'applicazione della disciplina più favorevole, determinatasi a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 con riferimento al trattamento sanzionatolo relativo ai delitti previsti dall'art. 73, n. 309 del 1990 in relazione alle cd. "droghe leggere", non impone al giudice di appello un'automatica mitigazione della pena già inflitta (né a ciò lo obbliga l'eventuale annullamento con rinvio in punto di pena da parte della Corte di cassazione), allorquando egli, nel rispetto dei nuovi limiti edittali e dei criteri normativi connotanti il potere discrezionale di sua spettanza, ritenga, con adeguata motivazione, che detta pena sia proporzionata alla gravità della condotta; con l'eccezione tuttavia dell'ipotesi in cui, con espressa motivazione, il precedente giudice di merito abbia ancorato la pena-base dei reati al minimo edittale delle fattispecie dichiarate incostituzionali, in tal caso essendo il giudice di appello o di rinvio vincolato alla rimodulazione della pena rendendola conforme ai "nuovi" e più favorevoli minimi edittali (Sez. 3, n. 31163 del 16/04/2014, Grano, Rv. 260255).
6.7.Nel caso in esame il Giudice di primo grado ha applicato il minimo edittale della pena all'esito di un percorso motivazionale che ha positivamente valutato sia il comportamento processuale dell'imputato (che gli è valso il giudizio di equivalenza con la contestata recidiva) sia gli aspetti oggettivi della condotta. Ne consegue che la Corte di appello non era vincolata ad applicare il minimo della pena e non ha violato il divieto di "reformatio in pejus", per aver applicato una pena inferiore a quella inflitta in primo grado, ancorché superiore al sopravvenuto minimo edittale.
7. È totalmente infondato e proposto per motivi non consentiti dalla legge l'ultimo motivo di ricorso.
7.1. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena detentiva e/o pecuniaria solo se il giudice ne ritenga meritevole l'imputato (Sez. 6, n, 38119 del 18/06/2009, Barbieri, Rv. 244554; Sez. 3, n. 6876 del 27/01/2011, Bartoluccio, Rv. 249542; Sez. 4, n. 16387 del 23/102014, Caruso, Rv. 263385).
7.2. Il giudizio che presiede alla decisione del giudice non può mai prescindere dalla finalità rieducativa della pena che non sempre, né necessariamente, tanto meno automaticamente, si deve ritenere meglio assolta dal lavoro di pubblica utilità.
7.3.1 presupposti fattuali del giudizio, così come individuati dall'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990 e che l'imputato ritiene sufficienti ed esaustivi per accedere alla sanzione sostitutiva, legittimano ma non assorbono il momento valutativo che conserva la sua necessaria autonomia. In costanza dei presupposti, infatti, il giudice “può” applicare il lavoro sostitutivo di pubblica utilità. Il che significa che tali presupposti, lungi dall'esaurire anche il momento valutativo, attribuiscono al giudice il potere (discrezionale) di applicare una pena diversa da quella edittale, che questi deve esercitare facendo ricorso ai criteri di valutazione di cui all'art. 133, cod. pen., avuto riguardo alla comune finalità rieducativa della pena cui è informato l'intero apparato sanzionatolo penale (art. 27, Cost.)
7.4.1 Giudici territoriali hanno rigettato la richiesta sul rilievo che “l'annoso stato di dedizione all'assunzione di droga, senza che le terapie ed i programmi dei servizi territoriali abbiano in alcun modo sortito effetti positivi depongono per l'insussistenza dei presupposti necessari al riconoscimento del beneficio in questione”.
7.5. Si tratta di un giudizio prognostico negativo non manifestamente illogico e correttamente fondato su comportamenti pregressi che l'imputato non solo non contesta, ma supera con allegazioni fattuali non consentite in questa sede che non riguardano il momento valutativo del giudizio, ma i presupposti fattuali che lo legittimano.
7.6. La censura dunque presuppone l'inammissibile considerazione del lavoro di pubblica utilità come se fosse oggetto di un diritto potestativo di cui l'imputato può godere in modo automatico, sol che ne ricorrano i presupposti.
7.7. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile.
7.8. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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