Vigile urbano palpeggia l'addetta alle pulizie: reato procedibile d’ufficio.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 novembre 2013 – 27 gennaio 2014, n. 3637
Presidente Squassoni – Relatore Orilia
Ritenuto in fatto
Con sentenza 20.10.2011 la Corte d'Appello di Lecce sez. dist. Taranto ha confermato la sentenza 20.3.2007 con cui il Tribunale di Taranto aveva dichiarato colpevolezza di C.L. in relazione all'imputazione di cui all'art. 609 bis cp (ipotesi di minore gravità) per avere palpeggiato il seno di F.G. , addetta alle pulizie presso il Comando dei Vigili Urbani di .... Con l'aggravante di cui all'art. 609 septies cp. Fatto avvenuto dal (omissis) .
Per quanto ancora interessa, la Corte territoriale ha ritenuto corretta la contestazione dell'aggravante del reato commesso da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle pubbliche funzioni, giacché la condotta era stata posta in essere da un appartenente al Corpo dei VVUU di ..., quale era appunto l'imputato, all'interno degli uffici. Ha ritenuto che all'epoca dei fatti la parte offesa si trovava sottoposta a vigilanza da parte dell'imputato e che la qualità di pubblico ufficiale aveva agevolato la commissione del fatto: di conseguenza, contrariamente a quanto dedotto dall'appellante il reato era precedibile di ufficio e non a querela.
Il difensore ricorre per cassazione con due motivi.
Considerato in diritto
1. Col primo motivo denunzia l'inosservanza dell'art. 609 septies comma 4 n. 3 cp in combinato disposto con l'art.529 comma 2 cpp in relazione alla ritenuta procedibilità di ufficio nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. In particolare, rimprovera alla Corte d'Appello di avere erroneamente ed illogicamente ritenuto la sussistenza dell'aggravante benché l'imputato non si trovava nell'esercizio delle sue funzioni avendo i testi riferito che egli al momento dei fatti non indossava la divisa, prescritta obbligatoriamente per il servizio.
La censura è infondata.
La qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio assume rilevanza ai fini della procedibilità di ufficio dei reati sessuali (art. 609 septies, comma quarto, n. 3, cod. pen.) solo nei casi in cui la posizione pubblicistica del colpevole abbia agevolato la commissione dell'abuso, rendendo la persona offesa maggiormente vulnerabile per il "metus" o per la soggezione psicologica derivante dalle funzioni esercitate (Sez. 3, Sentenza n. 15181 del 10/01/2012 Ud. dep. 19/04/2012 Rv. 252371; Sez. 3, Sentenza n. 45064 del 19/09/2008 Ud. dep. 04/12/2008 Rv. 241778). È stato in particolare precisato che la procedibilità d'ufficio dei reati sessuali nel caso previsto dall'art. 609 septies, comma quarto, n. 3, cod. pen., è stata stabilita in ragione dell'autorità connessa alle funzioni esercitate ed all'influenza, al vincolo, alla dipendenza, se non al condizionamento ed al timore che ne può derivare; il che non presuppone che l'abuso abbia necessariamente luogo durante l'espletamento delle funzioni demandate al pubblico ufficiale sotto l'aspetto strettamente tecnico-specialistico, ma soltanto che sussista una connessione anche generica di detto abuso con l'attività esercitata nei confronti di soggetti che siano con l'agente in rapporti di dipendenza (Sez. 3, Sentenza n. 34818 del 31/05/2007 Ud. dep. 14/09/2007 Rv. 237195).
Ciò premesso, nella fattispecie in esame la Corte d'Appello ha accertato che il palpeggiamento avvenne negli uffici della Polizia Municipale dove entrambi prestavano la propria attività lavorativa (precisamente nell'anticamera del bagno). Ha richiamato l'orario: tra le otto e le nove del mattino, secondo il racconto della parte offesa. Ha accertato inoltre la sottoposizione della donna a vigilanza e controllo da parte dell'imputato, desumendola dal fatto che quest'ultimo aveva redatto a suo carico una nota di servizio per la quale era stato poi sottoscritto un verbale di bonario componimento. Ha ritenuto quindi provato il compimento dell'atto nell'esercizio della pubblica funzione da parte del C. , precisando che tale qualità deve porsi in relazione diretta con la condotta posta in essere e ciò si verifica anche quando, pur collocandosi il comportamento criminoso fuori dall'esercizio delle funzioni, tale qualità abbia agevolato in modo diretto la commissione del reato: ha quindi ritenuto la procedibilità di ufficio.
In definitiva, il percorso argomentativo appare non solo logicamente coerente ma del tutto corretto in diritto perché ha tenuto conto della connessione generica dell'abuso con l'attività esercitata nei confronti di un soggetto in rapporto di dipendenza con l'agente.
Sulla base dei principi esposti appare pertanto irrilevante che al momento del fatto l'imputato indossasse o meno l'uniforme.
Non merita dunque censura la sentenza laddove ha ravvisato la procedibilità di ufficio del reato contestato per effetto della aggravante di cui all'art. 609 septies, comma quarto, n. 3, cod. pen..
2. Col secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 529 cpp e 157 cp (vecchia formulazione) nonché la mancanza di motivazione dolendosi del mancato rilievo della prescrizione, maturata durante il giudizio di appello ed invocata dallo stesso PG nelle sue conclusioni. Osserva in proposito che il termine massimo era di sette anni e mezzo, con scadenza quindi al dicembre 2010, data anteriore a quella della sentenza (emessa il successivo 20.10.2011).
Anche tale motivo è infondato.
Il reato è stato commesso nel giugno del 2003 e la sentenza di primo grado è intervenuta il 20.3.2007.
Pertanto, alla data dell'8 dicembre 2005 (corrispondente alla entrata in vigore della modifica alle norme in materia di prescrizione introdotta con la legge n. 251/2005), il giudizio di appello non era ancora pendente, dovendosi, a tal fine, avere riguardo alla data di pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall'esito di condanna o di assoluzione, come recentemente affermato proprio dalle sezioni unite (Sez. U, Sentenza n. 15933 del 24/11/2011 Ud. dep. 24/04/2012 Rv. 252012).
Si applicano pertanto al processo le nuove norme in materia di prescrizione perché più favorevoli all'imputato: infatti, dovendosi avere riguardo al massimo della pena edittale (art. 157 cp nel testo attualmente in vigore), il termine di prescrizione per il delitto di violenza sessuale oggi è di 10 anni che, con l'aumento di un quarto per le interruzioni previsto dall'art. 161 cp), arriva a 12 anni e mezzo. Invece, secondo la vecchia previsione dell'art. 157 cp, il termine di prescrizione era di anni 15 che, aumentato della metà per effetto delle interruzioni ai sensi dell'art. 160 cp nella vecchia formulazione, saliva addirittura a 22 anni e mezzo.
Pertanto il reato, commesso nel giugno 2003, si prescriverà solo nel dicembre del 2015.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
28-01-2014 21:41
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