Un uomo si invaghisce di una vicina di casa e una mattina decide di ucciderla, con il proposito di suicidarsi insieme alla donna, dopo che la stessa si era rifiutata più volte di fuggire con lui e, con l’intento di ammazzarla, si introduce una mattina nella abitazione di lei con un machete. E' delitto premeditato.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 3 dicembre 2013– 3 luglio 2014, n. 28795
Presidente Cortese – Relatore Caiazzo
Rilevato in fatto
Con sentenza in data 20.7.2012 la Corte d'appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza in data 23.2.2012 del GUP del Tribunale di Brescia appellata dall'imputato S.A., riduceva la pena inflitta ad anni 9 e mesi 8 di reclusione per il delitto di tentato omicidio, aggravato dalla premeditazione, commesso il 25.7.2011 in danno di J.
Secondo la ricostruzione del fatto ad opera dei giudici di merito, l'imputato si era invaghito di una vicina di casa, J., sposata con figli; aveva proposto alla stessa prima di fuggire insieme e poi, non avendo accettato la donna la sua proposta, di morire insieme, ma la donna non aveva accettato neppure questa seconda proposta.
L'imputato, la mattina del fatto verso le ore 7,30, era penetrato in casa della donna, mediante effrazione di una finestra, armato di un machete e, dopo aver chiuso a chiave dall'interno la porta d'ingresso, aveva detto alla donna che l'avrebbe uccisa e poi si sarebbe ucciso anche lui; la predetta aveva cercato di farlo desistere dal porre in essere il tragico proposito, ma l'imputato non aveva sentito ragioni ed a un certo punto aveva preso la J. per un braccio e le aveva messo la lama del machete alla gola, dicendole con voce calma: "adesso ti do un colpo secco e così muori subito e poi io mi uccido alla stessa maniera"; la predetta, avendo sentito la voce dei padre dell'imputato che parlava fuori con qualcuno, aveva detto all'imputato che lo avrebbe chiamato, ma l'imputato aveva reagito colpendola ripetutamente, in varie parti del corpo, con il machete, provocandole lesioni gravissime dalle quali era derivata una malattia che aveva messo in pericola la vita.
A giudizio della Corte d'appello, sussisteva l'aggravante della premeditazione poiché l'imputato aveva deciso di uccidere la J., sia pure suicidandosi insieme, dopo che la stessa si era rifiutata di fuggire con lui e, con l'intento di ucciderla, e poi suicidarsi, si era introdotto quella mattina nella di lei abitazione.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l'annullamento per erronea applicazione dell'aggravante della premeditazione e per vizio di motivazione.
La sentenza impugnata non aveva indicato quando l'imputato avrebbe deciso di uccidere J. e non aveva tenuto conto del lasso di tempo - dalle 7,30 alle 9,15 - trascorso in discussioni tra i due, segno evidente, secondo il ricorrente, che l'imputato non aveva deciso prima di uccidere la donna.
Il tempo di circa due ore trascorso in discussioni tra i due non poteva essere considerato sufficiente per ritenere realizzato il requisito cronologico dell'aggravante della premeditazione. Erroneamente la Corte aveva ritenuto che l'intento di suicidarsi insieme potesse essere assimilato all'insorgenza del proposito di uccidere la persona amata. Era invece probabile, secondo il ricorrente, che l'imputato fosse penetrato in casa per convincere la donna a scappare insieme con lui e, solo dopo essersi convinto che la donna non l'avrebbe seguito, aveva pensato di ucciderla, anche perché aveva temuto che la stessa stesse per chiamare suo padre.
L'aver portato con sé il machete non dimostrava l'intento di uccidere, ma solo quello di realizzare il proposito di suicidarsi insieme alla donna amata.
Non era vero, infine, che l'imputato avesse chiuso la casa dall'interno, mettendosi in tasca la chiave di casa, in quanto il padre dell'imputato, entrato in casa, aveva aperto la porta d'ingresso utilizzando la chiave che era inserita nella serratura.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
I giudici di merito, dopo aver esaminato con cura le risultanze processuali, hanno ricostruito la vicenda per cui è processo nel modo seguente.
L'imputato si era innamorato di J., benché la stessa fosse sposata, avesse figli e vivesse con suo marito; la donna nei giorni precedenti al fatto si era rifiutata sia di fuggire con lui che di morire insieme a lui; l'imputato, la mattina del 25.7.2011, era penetrato di forza in casa della donna, armato di machete, deciso a convincerla a scappare con lui o ad uccidersi insieme a lei; i due avevano discusso; la donna aveva mantenuto ferma la sua posizione e, quando l'imputato aveva compreso che la donna non sarebbe mai scappata con lui l'aveva colpita con l'intenzione di ucciderla e, subito dopo, di suicidarsi con la stessa arma. La ricostruzione della vicenda da parte della difesa del ricorrente è diversa: in sostanza, l'imputato, entrando attraverso una finestra nella casa della donna, aveva solo pensato di convincerla a scappare con lui; solo dopo aver capito che la stessa non l'avrebbe mai seguito, aveva deciso di ucciderla e di suicidarsi anche lui con l'arma che aveva portato con sé. Prima di esaminare i motivi di ricorso - riguardanti la sussistenza dell'aggravante della premeditazione - è opportuno ricordare che il controllo da parte di questa Corte non avviene verificando se quanto affermato dal giudice di merito corrisponde al contenuto degli atti, la cui conoscenza è di regola preclusa in sede di legittimità, ma accertando se la motivazione del provvedimento impugnato risponde ai canoni fondamentali della logica; il che avviene se nel discorso non si rilevano contraddizioni e se lo stesso si sviluppa attraverso passaggi consequenziali, compatibili con il senso comune e nei limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.
Il vizio logico deve risultare dal testo del provvedimento impugnato e non dal confronto con i dati processuali, che sono esaminati ed interpretati esclusivamente nel giudizio di merito.
Ne consegue che in sede di legittimità non possono essere prese in considerazione frasi stralciate da un atto, poiché le stesse devono essere invece esaminate nel contesto dell'atto e insieme a tutti gli altri atti del processo, compito questo che, come si è detto, compete esclusivamente al giudice di merito.
La modifica dell'art. 606 lett. e del codice di rito introdotta dalla legge 46/2006 (secondo la quale il vizio di motivazione può risultare anche da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame) non ha mutato la natura del giudizio di legittimità, dovendosi intendere l'estensione del controllo da parte di questa Corte riferita esclusivamente al travisamento della prova, che si verifica nel caso in cui uno specifico dato decisivo risultante dalla mera lettura di un atto (e non dalla sua interpretazione) sia stato frainteso dal giudice di merito. Peraltro, per far risultare il travisamento della prova, l'atto che la contiene deve essere allegato nella sua interezza o indicato in modo specifico nei motivi di gravame. Questa Corte non può diversamente interpretare i dati processuali e non può neppure prendere in considerazione la diversa lettura, rispetto a quella data dal giudice di merito, delle risultanze processuali proposta dalla parte ricorrente, quantunque la ricostruzione alternativa appaia plausibile e non in contrasto con le emergenze processuali, siccome esposte nel provvedimento impugnato.
Fissati i suddetti canoni di giudizio, risulta evidente che il ricorrente non ha indicato alcun vizio logico della motivazione della sentenza e non ha denunciato, nelle forme dovute, alcun travisamento delle prove, ma si è limitato ad interpretare le stesse in modo diverso da come erano state interpretate dai giudici di merito.
Nella sentenza impugnata sono state accuratamente indicate le fonti di prova dalle quali sono stati tratti gli elementi con i quali è stata ricostruita, nei diversi momenti, l'intera vicenda processuale.
I passaggi della motivazione risultano logicamente concatenati tra loro e non si rileva alcun salto logico o parti della motivazione in contraddizione tra loro.
Pertanto, essendo la motivazione della sentenza, con riguardo alla ricostruzione della vicenda processuale, immune da vizi logici, il fatto deve essere assunto come accertato dai giudici di merito, senza che possa apprezzarsi l'alternativa ricostruzione della vicenda da parte del ricorrente, basata invero soprattutto sulla tesi difensiva dell'imputato. Orbene, poiché l'imputato aveva maturato da tempo la decisione che, se non fosse riuscito a convincere J. a fuggire con lui, l'avrebbe uccisa e si sarebbe ucciso subito dopo, e per questo quella mattina era penetrato in casa della donna armato, risulta giuridicamente corretta la decisione della Corte d'appello di ritenere la sussistenza dell'aggravante della premeditazione.
Sono pacifici nella giurisprudenza di questa Corte i presupposti dell'aggravante della premeditazione: uno di natura cronologica, costituito da un apprezzabile lasso di tempo fra l'insorgenza del proposito criminoso e la attuazione di esso e l'altro di carattere ideologico, consistente nelle ferma risoluzione criminosa perdurante nell'animo dell'agente, senza soluzioni di continuità, fino alla commissione del crimine.
Il primo di tali elementi è particolarmente indicativo perché, concretandosi in un intervallo temporale in cui l'agente potrebbe riflettere ed eventualmente recedere dal proposito criminoso, denota - ove tale recesso non si sia verificato - una particolare intensità di dolo che si traduce in una fredda e perdurante determinazione a commettere il reato, nel che si sostanzia l'altro degli elementi costitutivi dell'aggravante. Ne consegue che detti elementi si integrano e si arricchiscono reciprocamente e ad entrambi occorre guardare per decidere se sussista la circostanza aggravante di cui all'art. 577, comma primo n. 3, cod. pen. (V. Sez. 1 sentenza n. 4956 del 15.3.1993, Rv.194556).
Secondo la ricostruzione della Corte di merito, l'imputato, prima di irrompere nella casa della donna, aveva preso una ferma decisione nei termini sopra indicati. Il fatto che la decisione di uccidere la predetta fosse condizionata alla risposta che la stessa gli avrebbe dato al suo (ultimo) invito a fuggire con lui non fa venir meno l'aggravante in questione.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (V. Sez. 1 sentenza n. 1079 del 27.11.2008, Rv.242485), infatti, sussiste l'aggravante della premeditazione anche quando l'agente abbia risolutivamente condizionato il proposito criminoso al mancato verificarsi di un determinato evento ad opera della vittima (fattispecie in cui la decisione di commettere l'omicidio era stata programmata dall'imputato per il caso in cui la vittima avesse opposto l'ennesimo rifiuto alla richiesta di rinunziare alla domanda di separazione). Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
06-07-2014 23:24
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