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Sentenza

Un uomo esercita abusivamente la professione di medico odontoiatra, violando l’art. 348 c.p.. Condannato.
Un uomo esercita abusivamente la professione di medico odontoiatra, violando l’art. 348 c.p.. Condannato.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 8 gennaio – 9 aprile 2014, n. 15894
Presidente Agrò – Relatore Di Salvo

Ritenuto in fatto

1. E.A. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce, in data 8-4-13, con la quale è stata confermata, in punto di responsabilità, la sentenza di condanna emessa in primo grado, in ordine al delitto di cui all'art. 348 cp per avere, in qualità di odontotecnico e amministratore del "Centro Dentale Erario" srl, esercitato abusivamente la professione di medico odontoiatra. In Brindisi, sino al 15-9-06.
2. Il ricorrente deduce omessa motivazione in merito all'insussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 cpp e prescrizione del reato poiché, trattandosi di reato istantaneo, i giudici di merito avrebbero dovuto porsi il problema dell'eventuale maturazione del termine prescrizionale in relazione ai singoli episodi per i quali risultava accertata la penale responsabilità del ricorrente. Ove le risultane acquisite non avessero consentito di individuare i singoli episodi di consumazione del reato, i giudici di merito avrebbero dovuto provvedere ex art 521 cpp, mancando la necessaria correlazione fra accusa e sentenza.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

3. In ordine alle doglianze inerenti alla mancata applicazione dell'art. 129 cpp, occorre osservare come l'art. 581 lett. c) richieda l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono il petitum. Tale requisito difetta nel caso di specie. Il ricorrente, infatti, pur dolendosi dell'insufficienza delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata, non indica in alcun modo le ragioni per le quali il giudice avrebbe dovuto pervenire ad una decisione di proscioglimento basata sull' asserto relativo all'insussistenza dei fatto, alla sua mancata commissione da parte dell'imputato, all'insussistenza dell'elemento soggettivo, alla presenza di cause di giustificazione, all'irrilevanza penale dei fatto o, in genere, alla sua inidoneità ad integrare gli estremi del reato contestato . Né il ricorrente indica in alcun modo gli atti da cui sarebbe stato possibile desumere l'applicabilità dell'art. 129 cpp.
4. Non dissimili considerazioni ineriscono alla censura relativa alla mancanza di correlazione fra accusa e sentenza. Al riguardo, le Sezioni unite hanno chiarito che per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. (Sez. Un. 19-6-96, di Francesco, Cass. pen. 1997, 360; conf. Cass. 19-11-99, Cameli, Cass. pen. 2001, 595; Cass. 22-3-99, Merlin, Cass. pen. 2000, 3112). Il ricorrente avrebbe pertanto dovuto esplicitare le ragioni per le quali egli ritiene che vi sia stato mutamento del fatto, nei termini appena chiariti, chiarendo sotto quale profilo si sia determinata un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione e in che cosa si sia sostanziato il pregiudizio per il diritto di difesa. Tematiche, queste, completamente estranee ai contenuti del ricorso, in cui ci si limita ad enunciare l'eventualità che "la condotta materiale descritta nel capo d'accusa non consentisse di discriminare i singoli episodi di consumazione del reato ... se ed in quanto il capo di imputazione risultasse sostanzialmente diverso dalle risultanze probatorie ritenute in sentenza", per di più espressamente prospettando tale eventualità come mera ipotesi. La doglianza è pertanto del tutto generica e in nulla rispondente ai requisiti di specificità previsti dall'art. 581 lett. c) cpp.
5. Non merita accoglimento neanche la terza censura formulata dal ricorrente. Sez. Un. n. 11545 del 15/12/2011, Cani (Cass. pen. 2012, 2875) ha infatti sottolineato che il concetto di esercizio professionale contiene in sè un tendenziale tratto di abitualità, da cui è corretto prescindere a fronte di atti che l'ordinamento riservi come tali, nell'interesse generale, a chi sia in possesso di una speciale abilitazione, onde, in questi casi, il reato di cui all'art. 348 cp si perfeziona anche uno actu. Ma il requisito dell'abitualità va recuperato laddove vengano posti in essere, come nel caso in disamina, più atti riservati a chi sia in possesso della prescritta abilitazione . In questi casi si risponde comunque di un unico reato e non di una pluralità di reati, avvinti dal vincolo della continuazione. In altri termini, il delitto di cui all'art. 348 cp ha natura di reato eventualmente abituale: ove si tratti di atto attribuito in via esclusiva al soggetto regolarmente abilitato è rilevante, per l'integrazione degli estremi del reato, anche il compimento di un solo atto di esercizio abusivo della professione e quest'ultimo segna il momento consumativo del delitto; ma la reiterazione degli atti tipici dà pur sempre luogo ad un unico reato, il cui momento consumativo coincide con l'ultimo atto e dunque con la cessazione della condotta. Nel caso in disamina, l'ultimo atto è stato compiuto il 15-9-06, onde il delitto contestato si è consumato in tale data: da essa decorre dunque il termine prescrizionale massimo, di anni sette e mesi sei, che, pertanto, non è trascorso, ragion per cui il reato non è prescritto.
Il ricorso va dunque rigettato, poiché basato su motivi infondati, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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