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Sentenza

Un soggetto detiene prodotti con il marchio CE contraffatto, senza immetterli in vendita. E' configurabile il tentativo?
Un soggetto detiene prodotti con il marchio CE contraffatto, senza immetterli in vendita. E' configurabile il tentativo?
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 settembre – 6 novembre 2014, n. 45916
Presidente Squassoni – Relatore Andronio

Ritenuto in fatto

1. - Con sentenza del 25 novembre 2010, il Tribunale di Brindisi ha ritenuto l'imputato responsabile del reato di cui agli artt. 56 e 517 cod. pen., così diversamente qualificata l'originaria imputazione per la fattispecie consumata, per avere posto in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a vendere o comunque mettere in circolazione occhiali da sole, anche destinati a minori, con il marchio CE contraffatto. La decisione era fondata sulle dichiarazioni testimoniali dell'ufficiale di polizia giudiziaria che aveva sorpreso l'imputato, provvisto di regolare autorizzazione per il commercio ambulante, che trasportava nel bagagliaio del suo automezzo 42 paia di occhiali da sole, recanti marchiatura CE del tutto difforme, per forme e proporzioni, da quella prevista dalla normativa europea, nonché prive delle etichette indicative del tipo di lenti apposte.
Con sentenza dell'8 maggio 2013, la Corte d'appello di Lecce ha confermato la sentenza di primo grado, riqualificando il reato ex artt. 56 e 515 cod. pen.
2. - Avverso tale ultima sentenza l'imputato ha proposto, tramite i difensori, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.
2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si rileva l'erronea applicazione dell'art. 515 cod. pen., per la mancanza di tipicità della condotta. Si osserva che la disposizione in questione presuppone l'apposizione sui prodotti destinati alla vendita di indicazioni ingannevoli o comunque non corrispondenti alle reali caratteristiche qualitative e di provenienza dei beni. Sugli occhiali in questione era apposto il contrassegno CE (China Export), marchio regolarmente riconosciuto e utilizzato dalle aziende produttrici cinesi, con la specifica funzione di certificare la provenienza dei prodotti da quel determinato territorio. Tale marchio non era accompagnato da indicazioni fuorvianti circa l'eventuale conformità delle merci ai canoni comunitari, laddove, al contrario, il marchio CE (Comunità Europea) deve essere corredato di una serie di informazioni relative alle principali fasi dell'iter produttivo.
2.2. - In secondo luogo, si rileva sotto altro profilo l'insussistenza del reato di cui all'articolo 515 cod. pen., in mancanza di prova della consegna all'acquirente di un prodotto diverso da quello pattuito o dichiarato. II marchio China Export - contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di secondo grado - non sarebbe idoneo a trarre in inganno gli eventuali acquirenti sulla qualità e provenienza dei beni; sarebbero, infatti, note le differenze fra tale marchio e il marchio CE (Comunità Europea), perché in quest'ultimo le lettere che lo compongono sono notevolmente distanziate. Mancherebbe, comunque, la prova dell'effettiva difformità dei prodotti in questione rispetto ai canoni comunitari, requisito necessario per la sussistenza del reato, diretto a punire la non corrispondenza tra il dichiarato e il contenuto.
2.3. - Vi sarebbe, in terzo luogo, un erroneo inquadramento della fattispecie nell'ambito delle discipline speciali relative all'apposizione del contrassegno. Non si sarebbe tenuto conto, in particolare, del fatto che gli occhiali da sole sono dispositivi di protezione individuale di prima categoria, in relazione ai quali sia la mancanza dei requisiti essenziali di sicurezza sia la mancanza dei marchio CE (Comunità europea) sono puniti con sanzioni amministrative (art. 14, commi 1 e 4, del decreto legislativo n. 475 del 1992).
2.4. - Con un quarto motivo di doglianza, si deducono la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione quanto all'esistenza dei presupposti per il tentativo. Nel caso di specie non si sarebbe considerato che i prodotti erano semplicemente detenuti all'interno del bagagliaio del veicolo dell'imputato, senza che fosse iniziata alcuna pattuizione per la vendita con clienti determinati e senza che le merci fossero esposte per la vendita in un esercizio commerciale.
2.5. - In quinto luogo, si deduce l'erronea applicazione dell'art. 133 cod. pen., lamentando anche la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, per la mancata considerazione delle modalità del fatto, delle condizioni economiche e sociali dell'imputato, della scarsa lesività della condotta.

Considerato in diritto

3. - Il ricorso è infondato.
3.1. - I primi due motivi di doglianza possono essere trattati congiuntamente perché attengono al carattere ingannevole del marchio CE (China Export) apposto sugli occhiali oggetto dell'imputazione in luogo del marchio CE (Comunità europea) ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 515 cod. pen.
Quanto all'apposizione della marcatura CE contraffatta, questa Corte ha già avuto modo di riconoscere che tale condotta è astrattamente riconducibile alla fattispecie contemplata dall'art. 515 cod. pen. (sez. 3, 14 febbraio 2103, n. 9310; sez. 3, 16 luglio 2010, n. 27704). Deve in particolare ricordarsi che la funzione della marcatura CE è la tutela degli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatori dei prodotti mediante la attestazione della rispondenza alle disposizioni comunitarie che ne prevedono l'utilizzo; la stessa, pur non fungendo da marchio di qualità o di origine, costituisce comunque un marchio amministrativo, che evidenzia la possibilità di libera circolazione del prodotto nel mercato comunitario (sez. 2, n. 18 settembre 2009, 36228). La marcatura CE attesta la conformità del prodotto a standard minimi di qualità e costituisce, pertanto, una garanzia della qualità e della sicurezza della merce che si acquista (sez. 3, 9 giugno 2009, n. 23819, concernente proprio un'ipotesi di tentativo di frode in commercio posto in essere anche attraverso la commercializzazione di prodotti recanti il marchio CE contraffatto, indicativo della locuzione "China - Export").
Invero, se, come si è già affermato, l'interesse tutelato dalla disposizione in esame è quello dello Stato e del consumatore al leale esercizio dei commercio ed il reato in essa previsto è integrato dalla semplice messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato, è evidente che la consegna di merce recante una marcatura contraffatta, attestante la rispondenza a specifiche costruttive che assicurano la sussistenza dei requisiti di sicurezza e qualità richiesti dalla normativa comunitaria, determina senz'altro quella divergenza qualitativa che si ritiene necessaria per configurare l'illecito penale. E tali considerazioni rendono irrilevante il rilievo difensivo secondo cui la fattispecie di cui all'art. 515 cod. pen. non sarebbe configurabile, nel caso di specie, per la mancanza di false indicazioni circa la presenza dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per l'apposizione della marcatura CE (Comunità europea). Infatti, la decettività della marcatura CE (China Export), che si distingue da quella europea per la sola, impercettibile, diversa distanza tra le due lettere, è da sola sufficiente ad ingenerare nel consumatore la convinzione che la merce abbia le caratteristiche e gli standard europei. Ne può darsi, neanche in astratto, l'ipotesi di merci prive della marcatura CE (Comunità europea) che siano comunque dotate di tutti tali requisiti, perché l'apposizione del marchio CE da parte del produttore ha la funzione di certificare la conformità del prodotto con i requisiti essenziali richiesti dal mercato europeo; e tale certificazione costituisce in sé un essenziale elemento qualitativo del prodotto.
3.2. - Il terzo motivo di doglianza - relativo all'applicabilità, nel caso di specie, delle sanzioni amministrative previste per i dispositivi di protezione individuale di prima categoria dall'art. 14, commi 1 e 4, dei d.lgs. n. 475 del 1992 - è infondato. La prima di tali fattispecie punisce chi pone in commercio dispositivi di protezione individuale non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all'allegato II dello stesso decreto legislativo; la seconda punisce chi pone in commercio dispositivi di protezione individuale privi della marcatura CE (Comunità europea). Nel caso in esame, la condotta posta in essere dall'imputato non è riconducibile a nessuna delle due fattispecie punite in via amministrativa dal richiamato art. 14. In tale condotta vi è, infatti, un quid pluris rispetto ad entrambe tali fattispecie, rappresentato dall' apposizione sugli occhiali dell'indicazione CE (China Export), la cui attitudine ingannatoria integra la più grave fattispecie di cui all'art. 515 cod. pen., perché - come visto - si concretizza nella dichiarazione di origine, provenienza, qualità diverse da quelle effettive; con la conseguenza che non risulta leso solo l'interesse alla sicurezza dei consumatori tutelato dal d.lgs. n. 475 del 1992, ma anche l'interesse al corretto esercizio dell'industria e del commercio, tutelato dal capo II del titolo VIII del libro II del codice penale.
3.3. - Anche il quarto motivo di doglianza - relativo alla configurabilità del tentativo nel caso di specie - è infondato.
Come più volte rilevato da questa Corte (ex plurimis, sez. 3, 14 febbraio 2013, n. 9310) l'art. 515 cod. pen. si riferisce alla condotta di colui che, nell'esercizio di un'attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita. La consumazione del reato coincide con la consegna materiale della merce all'acquirente ma, per la configurabilità del tentativo, non è affatto necessaria la sussistenza di una qualche forma di contrattazione finalizzata alla vendita: è sufficiente l'accertamento della destinazione alla vendita di un prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite (ex plurimis, sez. 3, n. 9310 del 2013; sez. 3, 25 novembre 2010, n. 41758; sez. 3, 18 febbraio 2009, n. 6885; sez. 3, 14 giugno 2007, n. 23099; sez. 3, 29 novembre 2001, n. 42920). Configura, inoltre, il tentativo, anche la mera detenzione in magazzino di merce non rispondente per origine, provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o pattuita, trattandosi di dato pacificamente indicativo della successiva immissione nella rete distributiva di tali prodotti (sez. 3, 26 gennaio 2009, n. 3479; sez. 3, 16 gennaio 2009, n. 1454; sez. 3, 8 settembre 2004, n. 36056) e ciò anche nel caso in cui la merce sia detenuta da un commerciante all'ingrosso, dovendosi pacificamente riconoscere, in considerazione delle condotte tipizzate, che la disposizione in esame tuteli tanto i consumatori quanto gli stessi commercianti, ovvero quando presso il magazzino di prodotti finiti dell'impresa di produzione sia detenuta merce con false indicazioni di provenienza destinata non al consumatore finale ma ad utilizzatori commerciali intermedi (sez. 3, 6 giugno 2011, n. 22313). Nella fattispecie in esame, secondo quanto emerge dal ricorso e dal provvedimento impugnato, si versava in condizioni analoghe a quelle prese in esame dalle menzionate decisioni, perché la merce era detenuta nel bagagliaio dell'automezzo dell'imputato, venditore ambulante, cosicché la destinazione all'immissione in commercio dei prodotti risulta - secondo la corretta valutazione dei giudici di merito - evidente.
3.4. - Il quinto motivo di doglianza - relativo al trattamento sanzionatorio - è inammissibile per genericità. Il ricorrente non prende, infatti, in considerazione, neanche per criticarla, la motivazione della sentenza impugnata sul punto, secondo cui detto trattamento è stato determinato in modo ingiustificatamente favorevole per il reo, perché il Tribunale aveva erroneamente ritenuto sussistente il reato di cui agli artt. 56 e 517 codice penale - nella formulazione applicabile ratione temporis al fatto (8 aprile 2008), precedente alla modifica introdotta dalla legge n. 99 del 2009 - ed aveva applicato la relativa pena, determinata in misura sensibilmente inferiore rispetto a quella che sarebbe stata applicabile se fosse stata riconosciuta fin dall'inizio la sussistenza del reato di cui agli artt. 56 e 515 cod. pen. A tali considerazioni, la Corte d'appello fa ragionevolmente conseguire il rigetto dei motivi di gravame relativi al trattamento sanzionatorio, già eccessivamente benevolo, che viene comunque mantenuto fermo, per il divieto di reformatio in peius.
4. - Ne consegue il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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