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Sentenza

Udienza preliminare e giudizio abbreviato: fino all'esaurimento della discussione si può chiedere. Se il diniego è illegittimo si può chiedere al giudice del dibattimento.
Udienza preliminare e giudizio abbreviato: fino all'esaurimento della discussione si può chiedere. Se il diniego è illegittimo si può chiedere al giudice del dibattimento.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 18 dicembre 2013 - 8 gennaio 2014, n. 348
Presidente Giordano – Relatore Magi

Ritenuto in fatto

1. In data 18.4.2013 il GUP del Tribunale di Pescara, con ordinanza, dichiarava - per quanto qui rileva - intempestive le istanze di ammissione al giudizio abbreviato formulate da tutti gli imputati del procedimento cumulativo numero 2385/12 (RG GIP) in corso di svolgimento nella fase della udienza preliminare.
A sostegno di tale decisione processuale il GUP osservava, in sintesi, che:
- le istanze di ammissione al rito abbreviato (sia ordinario che condizionato alla acquisizione di ulteriori elementi di prova) erano da ritenersi tardive in quanto formulate dopo che il Giudice dell'Udienza Preliminare aveva invitato il rappresentante dell'accusa ad illustrare le proprie conclusioni;
- l'udienza del 18 aprile 2013, in prosieguo rispetto a quella tenutasi il 14 marzo 2013, era stata infatti preceduta da detto invito, avvenuto in chiusura dell'udienza del 14 marzo, ed il P.M. aveva ritenuto di sollecitare - in tal sede - un rinvio per dare modo a tutte le difese di ascoltare le conclusioni, data l'ora tarda e le numerose sostituzioni intervenute nel corso dell'udienza;
- pertanto nessun dubbio poteva esserci sul fatto che l'udienza del 18 aprile 2013 (in apertura della quale venivano proposte le istanze di adozione del rito alternativo) era stata fissata esclusivamente “per la discussione” delle parti.
Da ciò ad avviso del GUP derivava, pur in un contesto processuale che non aveva ancora “dato luogo” alla discussione del Pubblico Ministero, la presa d'atto della impossibilità di accogliere le richieste di adozione del rito alternativo, secondo una interpretazione dell'art. 438 comma 2 sostenuta anche nella presente sede di legittimità (Sez. 3 n. 18820 del 31.3.2011, rv 250009) e tesa ad individuare un limite preclusivo all'istanza rappresentato dal momento in cui il giudice conferisce la parola al pubblico ministero per illustrare le conclusioni. Essendosi, nel caso in esame, superato detto limite - già all'udienza del 14 marzo, con rinvio al 18 aprile 2013 solo per motivi di opportunità e contestualità dell'atto da compiersi - ne derivava una pronunzia di inammissibilità delle istanze.
2. Avverso detto provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione D.P.C. , (+Altri) , a mezzo dei rispettivi difensori, deducendo l'abnormità dell'ordinanza in quanto emessa al di fuori dei casi consentiti dalla legge e comunque qualificabile come estranea all'ordinamento processuale.
Tutti i ricorrenti, imputati destinatari del provvedimento con cui è stata dichiarata l'inammissibilità dell'istanza, formulano comuni critiche ai contenuti del medesimo, critiche che possono sintetizzarsi nel modo che segue.
I ricorrenti muovono, in primis da una articolata ricostruzione in fatto e in diritto della vicenda procedimentale e precisano che le richieste di rito abbreviato “condizionato” prevedevano, in subordine, l'ammissione al rito abbreviato “ordinario”. Dunque non si trattava di richieste sottoposte a valutazione di ammissibilità nei loro contenuti, ma solo sotto il profilo formale.
Si evidenzia inoltre che pacificamente il Pubblico Ministero nel momento in cui sono state portate all'attenzione del giudice le richieste di definizione con rito alternativo - nella fase iniziale dell'udienza del 18 aprile 2013 - non aveva ancora preso la parola per illustrare le sue conclusioni.
Pertanto, pur ponendosi nell'ottica coltivata dalla decisione di questa Corte citata dal GUP (Sez. 3 n. 18820 del 31.3.2011) la stessa sarebbe stata impropriamente evocata, dato che da tale arresto giurisprudenziale (interpretato anche alla luce di altre decisioni, pure citate) si ricava che il momento preclusivo debba - in concreto - individuarsi nel momento iniziale della discussione medesima.
Ciò perché - nella prospettiva dei ricorrenti - il conferimento della parola al pubblico ministero per la formulazione delle conclusioni non segna il passaggio a detta fase sino a quando il citato comportamento processuale (ossia l'illustrazione delle conclusioni) abbia avuto inizio, non potendosi ritenere preclusa la richiesta di rito alternativo che in ogni caso intervenga prima di tale “comportamento”.
Dunque l'invito del giudice ad illustrare le conclusioni potrebbe assumere il rilievo assegnato dal giudice nell'ordinanza impugnata solo quando a detto invito sia effettivamente seguito quantomeno l'inizio dell'attività illustrativa delle conclusioni da parte dell'organo dell'accusa.
Si assume - in ogni caso - che dal contenuto del verbale di udienza del 14 marzo non risulta espressamente la circostanza - su cui si fonda l'ordinanza reiettiva - dell'avere il GUP invitato il Pubblico Ministero a concludere, essendo stata compiuta altra attività processuale ed essendo stato verbalizzato, all'esito, esclusivamente il rinvio “per la discussione” all'udienza del successivo 18 aprile.
Pertanto la stessa ordinanza impugnata si fonderebbe su un travisamento del “fatto processuale” di tale entità da renderla abnorme.
L'intervento del Pubblico Ministero è in realtà avvenuto solo dopo che il GUP all'udienza del 18 aprile aveva deciso sulle proposte instanze di adozione del rito abbreviato e su altre questioni sollevate in apertura di detta udienza.
Da ciò la necessità per il GUP - a sostegno della decisione di inammissibilità - di precisare un dato di fatto che dal verbale del 14 marzo non risulta espressamente, rappresentato dall'aver compiuto in tale data l'invito a concludere, invito che risulta verbalizzato espressamente solo nel corso dell'udienza del 18 aprile e sempre in un momento successivo alla proposizione e al rigetto delle istanze di celebrazione del rito abbreviato.
Da ciò si dipana la costruzione in diritto della ipotesi di abnormità dell'ordinanza, dato che la stessa, seguendo la linea ricostruttiva dei ricorrenti, ampiamente sviluppata negli atti di ricorso, cui si rinvia per il dettaglio:
a) non risulta altrimenti impugnabile ed è pertanto assoggettata al solo rilievo di abnormità;
b) risulta emessa fuori dei casi previsti dalla legge (con carenza di potere in concreto) secondo i recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di atto abnorme elaborati da questa Corte;
c) determina la ingiusta soppressione del diritto potestativo degli istanti a veder celebrato il rito alternativo dell'abbreviato ordinario, con conseguente pregiudizio irrimediabile arrecato al diritto di difesa, dato che la componente premiale - in caso di condanna - correlata alla scelta del rito non sarebbe più fruibile; d) altera le condizioni di accesso al giudice naturale precostituito per legge, (nel caso in esame la Corte di Assise, in virtù delle contestazioni operate) atteso che attribuisce il giudizio all'organo collegiale in presenza di una certa e documentata volontà degli imputati di essere giudicati innanzi all'organo monocratico.
3. Hanno depositato memorie i difensori delle costituite parti civili Ministero dell'Ambiente, Regione Abruzzo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissario Delegato per il Bacino Aterno-Pescara, Solvay s.a., Solvay Specialty Polymers s.p.a., Solvay Chimica Bussi s.p.a. nonché comune di Bussi sul Tirino e comune di Castiglione a Casauria. In dette memorie, anche ribadite a seguito della conoscenza delle conclusioni rassegnate dal Procuratore Generale presso questa Corte, si prospetta l'inammissibilità dei ricorsi, non potendo qualificarsi l'ordinanza emessa dal GUP in termini di abnormità. Attraverso la complessiva ricostruzione dei profili dell'istituto e dei numerosi arresti giurisprudenziali in merito, si evidenzia che l'atto in questione - consistente nella verifica non già dei contenuti quanto della formale ammissibilità dell'istanza di accesso al rito alternativo, sotto il profilo della sua tempestività - rientra nella sfera di attribuzioni del giudice cui la richiesta è rivolta e non rappresenta alcun sviamento della potestà decisoria giurisdizionale. Potrebbe dunque sostenersi l'erronea applicazione della norma di riferimento e pertanto l'eventuale illegittimità dell'atto ma non la sua abnormità.
L'impugnazione proposta, dunque, violerebbe il principio di tassatività e andrebbe dichiarata inammissibile.
Peraltro, nel caso in esame si sostiene la piena legittimità dell'atto impugnato, essendo spirato, già all'udienza del 14 marzo 2013 il termine per la proposizione delle richieste di rito abbreviato. In tale data, infatti, il GUP aveva risolto altre questioni procedurali (nell'ambito di una complessa “fase” dell'udienza preliminare iniziata da circa quattro anni) ed aveva rivolto al Pubblico Ministero l'invito ad illustrare le sue conclusioni, con sequenza che non può essere messa in dubbio attraverso la impropria valorizzazione - ex adverso - dei contenuti sintetici del relativo verbale.
Da ciò correttamente si ritiene deliberato il diniego, posto che l'individuazione del momento preclusivo - secondo i contenuti espressi da Sez. 3 n.18820 del 31.3.2011 - non può dipendere, come si ipotizza nei ricorsi, dall'effettivo Inizio dell'attività illustrativa delle conclusioni ma dal momento in cui il giudice dichiara aperta la discussione. Trattasi infatti di una vera e propria “fase” interna alla udienza preliminare che non postula l'inizio della attività di concreta illustrazione ma che viene ad esistenza con l'intervento del giudice teso a conferire la parola al Pubblico Ministero.
Peraltro, si evidenzia che l'ordinanza emessa, nel ritenere inammissibili le istanze di accesso al rito abbreviato, non determina alcuna stasi del procedimento atteso che introduce la successiva fase dibattimentale. Il sindacato sul diniego, impropriamente sollecitato con i ricorsi qui in trattazione, ben potrebbe essere esercitato dal giudice del dibattimento, con le diverse modalità previste dalla giurisprudenza di legittimità e da quella della Corte Costituzionale. Anche sotto tale profilo si conclude per l'inammissibilità o il rigetto dei ricorsi.
4. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta del 30 luglio 2013 ha chiesto l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata.
Ad avviso del Procuratore Generale i ricorsi risultano fondati in ragione sia della attuale fisionomia del rito abbreviato c.d. ordinario che in rapporto alla sequenza procedimentale verificatasi in fatto.
Premessa, infatti, la ricognizione dei caratteri dell'istituto della abnormità - attraverso ampi e puntuali riferimenti - si osserva che detta istanza di rito abbreviato, nella attuale disciplina, non risulta sottoposta ex lege ad alcun vaglio discrezionale da parte del giudice cui viene rivolta, rappresentando un vero e proprio “diritto potestativo” dell'imputato.
Da ciò la considerazione per cui il diniego costituirebbe espressione di un potere non previsto dalla legge, tale da rendere l'atto abnorme.
Ciò anche nella fattispecie in esame, ove viene evocato un profilo esclusivamente strutturale di “tardività” delle richieste.
Tale profilo, infatti, si ritiene derivato - nella ricostruzione in fatto operata dal GUP - da un eccessivo formalismo, atteso che la dinamica procedurale consente di ritenere iniziata la discussione solo quando a seguito dell'invito formulato la parola sia effettivamente “presa” dal rappresentante dell'accusa. Lì dove tale evenienza non si sia verificata (come pacificamente risulta) all'udienza del 14 marzo e si sia preferito aggiornare l'udienza con rinvio al 18 aprile, detto rinvio pone le parti ancora in termine per avanzare richieste di definizione alternativa, posto che in tal sede di certo il GUP avrebbe dovuto concedere nuovamente la parola al P.M., non essendo ancora iniziata la discussione in senso proprio.
Il rinvio, in assenza di discussione già iniziata, determinerebbe Infatti il ragionevole “affidamento” delle parti nella possibilità di proporre le istanze non precluse e la condotta negatoria all'accesso al rito finirebbe con il violare tale generale principio.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono da dichiararsi inammissibili, per le ragioni che seguono.
1.1 Essendo gli stessi basati su una denunzia di abnormità (non risultando altrimenti impugnabile l'ordinanza in esame, con cui si è dichiarata l'inammissibilità delle istanze di adozione del rito abbreviato) conviene anzitutto precisare alcune coordinate interpretative di tale nozione, di esclusiva elaborazione giurisprudenziale.
Come è noto, la categoria concettuale della abnormità nasce per porre rimedio a comportamenti procedimentali posti in essere dall'organo giudicante da cui derivano atti non altrimenti impugnabili - in virtù del principio di tassatività delle sanzioni processuali e dei relativi rimedi - e al contempo espressivi, in concreto, di uno “sviamento” della funzione giuriusdizionale, non più rispondente al modello previsto dalla legge.
La lunga e articolata elaborazione giurisprudenziale sul tema (a partire dalle decisioni elaborate nella vigenza del codice del 1930, tra cui sent. 12.12.81, ove si precisava che risulta abnorme il provvedimento che per la singolarità e stranezza del suo contenuto sta al di fuori non solo delle norme legislative ma dell'intero ordinamento processuale, tanto da doversi considerare imprevisto e imprevedibile dal legislatore) è stata efficacemente sintetizzata dalla decisione emessa dalle Sezioni Unite n. 25957 del 26.3.2009, che questo Collegio condivide, in cui si è posta in rilievo, a fini di razionalizzazione delle diverse ipotesi e di effettiva percezione della diversità tra atto abnorme e atto illegittimo, la differenza esistente tra abnormità strutturale e abnormità funzionale dell'atto emesso, con classificazione delle relative ipotesi.
L'abnormità strutturale va infatti limitata al caso di esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall'ordinamento processuale (carenza di potere in astratto) ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo di modello legale, nel senso di esercizio di un potere previsto dall'ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perché al di là di ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto).
L'abnormità funzionale, è invece, da inviduarsi nei caso di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo e va limitata all'ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo. Dunque ciò che rileva - al fine di qualificare un atto emesso dal giudice come abnorme - risulta essere:
a) il confronto tra l'atto posto in essere dal giudice ed il modello legale di riferimento, nel senso che lì dove l'atto sia astrattamente “espressivo” di un potere conferito dalla legge, pur se erroneamente applicato, non può essere l'atto stesso qualificato abnorme se non nel caso in cui la copertura del modello legale risulti, in realtà, solo apparente, essendo stato emesso al di fuori dei casi consentiti e al di là di ogni ragionevole limite;
b) l'analisi delle conseguenze dell'atto, da qualificarsi abnorme solo ove imponga il compimento di una ulteriore attività viziata e dunque ponga in pericolo l'equilibrio funzionale del procedimento e la stessa nozione di processo come “serie ordinata” di atti tendenti alla stabilità della sua conclusione.
Risulta pertanto essenziale l'analisi delle coordinate normative di riferimento, dato che, per quanto sinora detto, l'ipotesi dell'errore nel compimento dell'atto (per erronea interpretazione di uno dei presupposti normativi che regolano la fattispecie o per erronea valorizzazione di un profilo di fatto in realtà ininfluente) non è di per sé decisiva al fine di ritenere presente un profilo di abnormità strutturale o funzionale.
1.2 Ed è proprio tale ragionamento che consente, ad avviso di questo Collegio, di ritenere l'atto emesso dal GUP nella vicenda che ci occupa erroneo sul piano interpretativo ma non connotato da abnormità, né strutturale né funzionale. Conviene, infatti, partire da una generale considerazione, quanto all'ipotesi di abnormità strutturale.
Tutte le istanze di parte previste nel sistema processuale, siano esse tese alla instaurazione di un sub-procedimento incidentale o a provocare una decisione nell'ambito del procedimento principale, sono sottoposte - al fine di ottenere l'effetto giuridico desiderato - ad un duplice vaglio: di ammissibilità (vaglio di carattere formale, nel senso che l'istanza deve provenire dal soggetto legittimato a compierla e deve rispettare il proprio modello legale di riferimento, ivi compresi eventuali termini posti a pena di decadenza) e di fondatezza (esame dei contenuti in fatto e in diritto, verifica dei presupposti oggettivi e conseguente statuizione da parte del giudice).
Nel delicato settore delle istanze di parte tese ad ottenere l'accesso ad una forma differenziata di decisione di merito - quale è l'istanza di ammissione al rito abbreviato - nessuno può negare che l'attuale sistema normativo - dopo le profonde modifiche introdotte dalla legge n.479 del 1999 - ha di certo rinunziato ad una verifica di “fondatezza” dell'istanza di abbreviato c.d. “puro”, essendo stato opportunamente eliminato il presupposto della “decidibilità allo stato degli atti”, presupposto foriero di ingiustificate disparità di trattamento, riequilibrato nella dinamica decisoria del rito dalla introduzione di poteri di integrazione istruttoria ex officio in capo al giudice (art. 441 comma 5 cod.proc.pen.). Ma, al contempo, nessuno può ragionevolmente sostenere che sia stato eliminato anche l'ulteriore vaglio di “ammissibilità” dell'istanza medesima, intesa come generale verifica - operata dal giudice - della rispondenza dell'atto di parte al “suo” modello legale di riferimento.
Per introdurre il procedimento differenziato di giudizio di primo grado (ossia il rito abbreviato) l'istanza:
a) deve essere proposta direttamente dall'imputato o da soggetto munito di procura speciale conferita nei modi di legge (art. 438 comma 3);
b) deve essere proposta in una determinata “sede” procedimentale, rappresentata dall'udienza preliminare (art. 438 co.1) ovvero dal momento successivo alla notifica del decreto di giudizio immediato indicato, a pena di decadenza, dall'art. 458 comma 1 o ancora dal momento in cui risulta prevista nelle altre dinamiche procedimentali del rito direttissimo (art. 451 comma 5 e 452 comma 2) o del procedimento per decreto (art. 461 comma 3);
c) ove proposta in udienza preliminare soggiace al dettato normativo di cui all'art. 438 comma 2, che testualmente recita, quanto al tempus di proposizione., fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422.
Ora, nessuno può dubitare del fatto che la richiesta di giudizio abbreviato presentata dal difensore non munito di procura speciale o la richiesta di abbreviato presentata durante la fase delle indagini preliminari siano, ad esempio, atti di parte difformi dal proprio modello legale di riferimento, tali da dover essere dichiarati inammissibili.
Ciò perché il giudice resta, in ogni caso, titolare esclusivo del potere di verificare la “rispondenza” tra fatto (anche processuale) e fattispecie astratta di riferimento, adottando i provvedimenti conseguenti.
Dunque, in prima approssimazione può convenirsi sul fatto che sussiste, pur nell'attuale quadro normativo, il potere/dovere del giudice di qualificare l'istanza di adozione del rito abbreviato “ordinario” come ammissibile o meno, statuendone l'inammissibilità lì dove la parte non rispetti il modello legale astratto e in tal senso può parlarsi di “diritto potestativo” dell'imputato a veder celebrato il giudizio abbreviato solo in presenza di una istanza formalmente ammissibile e sottoposta con esito positivo a detta verifica. Sul punto, taluni dei precedenti arresti di questa Corte - citati nei ricorsi - ove si è ritenuta sussistente l'abnormità del provvedimento reiettivo della richiesta di abbreviato “ordinario”, si riferiscono invero a casi in cui il sindacato del giudice si era spinto oltre i limiti della verifica di mera ammissibilità formale, ritenendo ad esempio non accoglibile la richiesta in virtù della pena edittale prevista per il reato contestato - è il caso di Sez. 1 n.43541 del 7.10.2004 rv 230057 - o ritenendo implicitamente intervenuta una rinunzia ad una precedente istanza ammissiva in realtà mai formulata - è il caso di Sez. 1 n.399 del 18.11.2008, rv 242871 e pertanto possono rientrare nella nozione di abnormità per carenza di potere “in concreto”, mentre non condivisibile risulta essere il precedente rappresentato da Sez. 1 n.44539 del 24.10.2012, rv 254461 ove il sindacato esercitato dal giudice riguardava, appunto, le modalità di presentazione dell'istanza ammissiva e non poteva pertanto dirsi connotato da abnormità.
1.3 Ciò consente di superare il primo quesito posto dall'oggetto del ricorso: il GUP ha nel caso di specie fatto uso di un potere a lui spettante (in astratto) e riconosciutogli dall'ordinamento.
Resta tuttavia da verificare ulteriormente se nell'esercizio di siffatto potere - nel caso concreto - si siano superati i limiti di ragionevolezza, tanto da poter affermare che il potere è stato esercitato in modo solo apparente e del tutto al di là dei limiti consentiti.
Anche tale opzione non può trovare accoglimento.
Sul punto, va affermato che l'esistenza di contrapposti indirizzi giurisprudenziali, emersi nella presente sede di legittimità circa l'esatto “confine” della richiesta di rito abbreviato nella concreta dinamica dell'udienza preliminare è di per sé la “prova” di una non accorta tecnica normativa di descrizione della tempistica della richiesta, tale da poter dar luogo a contrasti interpretativi.
E lì dove ci siano contrasti interpretativi si entra nel regno dell'opinabile, ove le categorie concettuali di riferimento sono rappresentate dalla condivisione o dal dissenso, ma restano espressive, a monte, dell'utilizzo da parte del giudice di merito della facoltà a lui riconosciuta dall'art. 12 delle c.d. preleggi.
Sul punto, infatti, va immediatamente precisato che l'opzione interpretativa cui si è rifatto il GUP di Pescara risulta sostenuta, in effetti, dalla decisione emessa Sez. 3 n. 18820 del 31.3.2011, rv. 250009.
A fronte del testuale dato normativo in punto di “tempistica” della richiesta di cui all'art. 438 comma 2 cod. proc. pen. (siano a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422) in tale decisione, riguardante un processo cumulativo, si è sostenuto che a fini di ritualità della richiesta medesima la “linea di confine è data dal momento in cui il GUP concede la parola al P.M. per formulare le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422” e si è argomentato in proposito che tale assetto risulterebbe conforme alle cadenze dell'udienza preliminare, anch'essa scandita in “fasi” che riproducono almeno in parte lo scenario dibattimentale.
La si condivida o meno, tale risulta essere la linea interpretativa seguita dal GUP, con la particolarità in fatto - su cui molto si dirigono le critiche dei difensori dei ricorrenti e dello stesso Procuratore Generale presso questa Corte - di un conferimento di “parola” operato dal GUP all'udienza del 14 marzo 2013 (di ciò non è lecito dubitare, pena la falsità ideologica della stessa ordinanza impugnata, di certo fedele all'accadimento processuale come è dimostrato dal fatto che nel verbale di tale data si parla di rinvio per la discussione) cui, per ragioni di fair play processuale non era seguita la “parola” medesima.
Ma, sul punto, non può imputarsi al GUP - in realtà - alcun effettivo travisamento.
Se la stessa decisione citata individua una “linea di confine” in un atto del giudice (l'aver conferito la parola per la discussione è comportamento che implica la risoluzione di tutte le questioni logicamente e giuridicamente antecedenti ed in tal senso può essere indicativo della chiusura di una fase e dell'apertura di una fase successiva) e se tale atto era stato compiuto nella parte finale dell'udienza del 14 marzo le successive istanze erano da dichiararsi effettivamente tardive.
In ciò non può pertanto ritenersi che il potere sia stato esercitato in modo “eccentrico” rispetto al fine, da parte del GUP.
Ma il punto, a parere di questo Collegio, è un altro ed è rappresentato dal fatto - come si anticipava - che la stessa decisione emessa dalla 3 Sezione di questa Corte in data 31 marzo 2011 non è condivisibile, in quanto finisce con l'introdurre un termine preclusivo non del tutto “in linea” con il dettato normativo, volutamente aperto.
In altre parole, come statuito in precedenti arresti, appare preferibile la interpretazione secondo cui la richiesta di giudizio abbreviato può anche seguire la formulazione delle conclusioni del pubblico ministero in quanto l'espressione utilizzata dal legislatore è idonea a comprendere l'intera fase della discussione prevista dall'art. 421 comma 2 fino al suo epilogo, sicché il termine finale della proposizione della domanda è rappresentato dal momento in cui si esaurisce, con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti, la discussione (tra le altre, Sez. 1 n. 755 del 14.11.2002, rv 223251). Ciò risulta, peraltro, più aderente al principio generale per cui in presenza di un dettato normativo che introduce una preclusione, l'interpretazione - anche al fine di non ledere l'aspettativa all'esercizio della relativa facoltà - non può determinare l'anticipazione della scadenza del termine rispetto all'ordinario significato dei termini utilizzati dal legislatore.
Ma è del tutto evidente - come il perdurante contrasto interpretativo tra diverse Sezioni di questa Corte, non ancora risolto, dimostra - che trattasi di questione interpretativa di un dato normativo di non facile lettura - specie in ipotesi di processi cumulativi - e che, pertanto, giammai può determinarsi, ove si ritenga di aderire ad un orientamento piuttosto che ad un altro, l'emissione di un provvedimento abnorme, nei sensi sin qui precisati.
Tra l'altro, pur esorbitando dai limiti della stretta risposta al quesito in punto di abnormità del provvedimento impugnato, può essere utile evidenziare che la linea interpretativa qui ritenuta preferibile - basata sul favor per l'adozione del rito alternativo - è stata espressa di recente dalla stessa Corte Costituzionale nella decisione numero 117 del 4 aprile 2011 (con cui è stata dichiarata inammissibile una questione relativa a preteso contrasto tra gli articoli 391 octies e 442 comma 1 bis del codice di rito e l'art. 111 Cost. in tema di giusto processo).
In tale pronunzia, si è infatti evidenziato che quanto al giudizio abbreviato esso può essere richiesto e ammesso [in sede di udienza preliminare] anche a discussione iniziata e fino al momento in cui non siano formulate le conclusioni e ciò consente di ritenere utilizzabili in tale giudizio i risultati di documenti depositati nel corso dell'udienza preliminare, ivi compresi i risultati di investigazioni difensive.
Trattasi di una affermazione che, seppur relativa a pronunzia di inammissibilità della questione ivi decisa, consente di ritenere costituzionalmente preferibile - a fini di scioglimento del dubbio interpretativo - la lettura della norma di riferimento in senso comprensivo della “fase” della discussione, collocando – allo stato attuale della disciplina - la facoltà di richiesta nel momento in cui il singolo imputato formuli, tramite il difensore, le “sue” conclusioni in sede di udienza preliminare.
1.4 L'esposizione del tema consente di affrontare anche l'ulteriore profilo di eventuale abnormità funzionale, da ritenersi anch'esso insussistente.
L'effetto del diniego, rectius della dichiarazione di inammissibilità delle istanze, non è certo quello di “dar luogo” ad un atto nullo, essendo stata introdotta la successiva fase dibattimentale attraverso l'emissione del decreto di rinvio a giudizio, atto di certo immune da vizi non essendovi dipendenza rilevante ai sensi dell'art. 185 comma 1 cod.proc.pen., ponendosi esclusivamente il problema delle forme, tempi e modalità di “sindacato” sull'operato del GUP.
Circa tale profilo, va anche affermato che non può condividersi la ricorrenza di una ipotesi di violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge, di cui all'art. 25 Cost., in conseguenza dell'erroneo diniego emesso dal GUP.
Il sistema normativo, con i suoi adattamenti dovuti agli interventi additivi operati dalla Corte Costituzionale, lungi dal fissare in modo immutabile la celebrazione del giudizio abbreviato innanzi al giudice (monocratico) dell'udienza preliminare già prevede in sé il caso di celebrazione del rito abbreviato - proprio in virtù del possibile rimedio all'errore - da parte del giudice (collegiale) del dibattimento.
È il caso del sindacato sul diniego emesso dal GUP alla celebrazione del rito abbreviato “condizionato” le cui modalità sono state previste dalla decisione numero 169 del 2003 della Corte Cost..
In tale pronunzia, in particolare, il giudice delle leggi ha ritenuto ormai superata - in virtù della nuova fisionomia assunta dal rito in questione - la modalità di sindacato sul diniego “a dibattimento concluso” (con eventuale applicazione della diminuente processuale lì dove si ritenga ingiustificato il diniego) che era stata introdotta, per ragioni di contrasto con il principio di uguaglianza, dalla precedente decisione numero 92 del 1992 ed ha espressamente affermato che alla luce del mutato quadro normativo non vi è alcun ostacolo a che, qualora l'imputato riproponga prima dell'apertura del dibattimento la richiesta condizionata di giudizio abbreviato, sia lo stesso giudice del dibattimento – ove ritenga ingiustificato il rigetto della precedente richiesta - a disporre e celebrare il giudizio abbreviato, con ogni conseguenza di legge.
Tale soluzione viene ritenuta conforme al principio di uguaglianza e a quello di ragionevole durata del processo, atteso che comporta la virtuosa saldatura tra il recupero dei tempi processuali e l'applicazione - in caso di condanna – della diminuente di cui all'art. 442 comma 2 cod.proc.pen..
Ora, non vi è dubbio che - ragionando in termini generali - tale decisione della Corte Costituzionale ha comportato la modifica del quadro normativo dell'intero istituto, introducendo espressamente l'obbligo per la parte di riproporre la richiesta di abbreviato condizionato “respinta” dal GUP nella fase preliminare del giudizio dibattimentale ed il potere/dovere del giudice del dibattimento non solo di operare la valutazione di congruità ed esattezza del diniego ma di procedere alla effettiva celebrazione del rito abbreviato nell'ipotesi in cui ritenga il diniego ingiustificato.
A ben vedere, pertanto, non vi è alcuna ragione logica e sistematica per ritenere che tale sindacato, per identità di ratio, non debba essere operato - in apertura del giudizio dibattimentale - anche nelle ipotesi di diniego (per motivi di ritenuta inammissibilità) di una istanza di giudizio abbreviato “ordinario”, in ciò potendosi risolvere anche le frequenti questioni - sollevate tramite lo strumento del conflitto negativo di competenza - insorte in passato tra GUP e giudice dibattimentale (cui sinora era stata data prevalente risposta nel senso di ritenere possibile il sindacato a dibattimento concluso con obbligatoria riduzione di pena nelle ipotesi di ritenuta erroneità del diniego, così tra le altre Sez. 1 n. 47960 del 23.11.2012, rv 254018; Sez.1 n.47021 del 30.10.2008, rv 242059; Sez. 1 n.35069 del 25.9.2002, rv 222361).
Lì dove infatti la Corte Costituzionale ha attribuito detta competenza “funzionale” al giudice dibattimentale nel più complesso caso della richiesta “condizionata” (che richiede un esame degli atti raccolti e dei contenuti della condizione posta dal richiedente ai fini indicati dall'art. 438 comma 5) corrisponde ad un ragionevole criterio di interpretazione sistematica farne derivare l'estensione alla più semplice ipotesi di rigetto dell'istanza di abbreviato ordinario (che richiede esclusivamente la rivalutazione dei profili formali o di tempistica dell'istanza), pur senza sollecitare una nuova pronunzia espressa del giudice delle leggi (che nei caso in esame difetterebbe di rilevanza, essendo stato direttamente impugnato per abnormità il diniego) e pur senza attendere un (in verità opportuno) intervento del legislatore.
Tale indirizzo ermeneutico andrebbe ad avviso del Collegio seguito anche nel caso in esame, con gli opportuni adattamenti alla dinamica processuale in atto (nel senso della possibile alternativa di celebrazione del rito abbreviato da parte del giudice dibattimentale in ragione della riproposizione - ove temporalmente possibile - delle istanze e dell'esito favorevole del sindacato sul diniego o della applicazione della sola riduzione di pena a dibattimento concluso in ragione della impossibilità di riproporre le istanze per avvenuto superamento della fase di trattazione delle questioni preliminari).
Ciò consentirebbe di ricollegare - lì dove intervenga riproposizione dell'istanza e sindacato da parte del giudice nel senso della ingiustizia del diniego - la eventuale diminuzione di pena in caso di condanna ad un effettivo recupero di tempi della decisione, conformemente ai contenuti della citata decisione della Consulta.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento, per ciascun ricorrente, di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende che stimasi equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento di Euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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