Sacerdote condannato per le continue violenze sessuali protratte nei confronti di ragazze extracomunitarie ospitate in un centro di accoglienza per sottrarle al giogo della prostituzione in strada.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 26 febbraio - 29 maggio 2014, n. 22244
Presidente Brusco – Relatore Grasso
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Mantova, con sentenza del 21/7/2010, dichiarato M.W. colpevole dei delitti di cui agli artt. 81, cpv, 609 bis, 61 n. 9, 609 septies nn. 3 e 4, cod. pen., avendo, nella duplice qualità di ministro del culto cattolico e responsabile del centro di accoglienza denominato "(omissis) ", costretto la cittadina extracomunitaria Z.N. a subire e compiere atti sessuali, riconosciuta la sussistenza delle attenuanti generiche, valutate equivalenti alla contestata aggravante, condannò il predetto alla pena di cinque anni di reclusione, nonché alle sanzioni accessorie previste dalla legge. Con la medesima sentenza l'imputato venne assolto dai delitti di cui agli artt. 81, 479, in relazione all'art. 48, 61, n. 2, cod. pen. (gli si contestava di avere, al fine di commettere il delitto di violenza sessuale, ovvero per assicurarsi l'impunità, nella qualità di ministro del culto cattolico e responsabile della comunità di cui sopra, fornito attestazioni false sul comportamento di talune delle giovani donne affidate alla struttura a mente dell'art. 18, comma 4 del d.lgs. n. 286/1998); nonché dal delitto di violenza sessuale ai danni di Ma.Ju. e K.S. perché il fatto non sussiste.
1.1. La Corte d'appello di Brescia, investita dalle impugnazioni proposte dall'imputato, dal P.M. e dal locale Procuratore generale, con sentenza del 9/1/2014, in parziale riforma della statuizione di primo grado, che nel resto confermò, dichiarò il M. colpevole del delitto di violenza sessuale anche ai danni di Ma.Ju. e K.S. ed escluse le attenuanti generiche, rideterminò la pena in sette anni e sei mesi di reclusione.
1.2. Proposto dall'imputato ricorso per cassazione, la Corte Suprema di Cassazione, Sez. III Penale, con sentenza n. 47869/12 del 4/10/2012, annullò quest'ultima decisione, rinviando ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia per nuova valutazione.
1.3. La Corte d'appello di Brescia, quale giudice del rinvio, con sentenza del 27/2/2013, in parziale riforma della sentenza di primo grado, nel resto confermata, affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine al delitto di violenza sessuale anche ai danni di K.S. ed escluse le attenuanti generiche, rideterminò la pena in sei anni e due mesi di reclusione.
2. Avverso quest'ultima statuizione l'imputato proponeva nuovamente ricorso per cassazione.
3. Prima di prendere in rassegna i motivi del nuovo ricorso qui al vaglio è necessario, seppure in sintesi e nei limiti imposti dal perimetro decisionale devoluto a questa Corte, ripercorrere la vicenda e le ragioni decisionali delle sentenze sopra mentovate.
3.1. La struttura comunitaria, a gestione prevalentemente religiosa, titolata (omissis) , la quale faceva capo alla ONLUS Cepia, dal 2002 al 2006, in (omissis) , si occupava di ospitare giovani donne extracomunitarie, fuggite dai loro paesi per sottrarsi allo sfruttamento della prostituzione, perché, mostrando fattivamente di aderire a percorso di recupero e reinserimento sociale, potessero apparire meritevoli del permesso di soggiorno per motivi umanitari emesso dal competente questore ai sensi del cit. art. 18. I modi di fare di M.W. , indiscussamente a capo della struttura, avevano lasciato nel passato adito a dubbi, poi in qualche modo fugati, giustificandosi la condotta con il modo d'essere dello stesso (certamente invasivo, se non proprio greve, ma apparentemente non diretto a soddisfare bisogni libidinosi). Tuttavia, dal momento in cui, all'apice dello sconcerto e del malcontento fra gli stessi volontari e collaboratori, religiosi e laici, della comunità, suor D.R. e G.O. (una delle ospiti) recatisi in Questura, denunziarono che la disinibita ed immorale condotta del responsabile, assai sovente, si era concretizzata in ipotesi di gravi reati contro la libera determinazione sessuale delle ospiti della comunità, le predette condotte furono necessariamente fatte oggetto di valutazione in sede giudiziaria.
3.2. Il Tribunale di Mantova, esaurita articolata ed approfondita istruttoria, con l'evocata sentenza assolse l'imputato dall'accusa di aver dichiarato il falso nelle relazioni trasmesse alla Questura sul conto di talune delle giovani ospiti, in quanto il giudizio negativo fu ritenuto non essere il frutto di una ritorsione del prelato, generata da suoi desiderata sessuali rimasti non soddisfatti adeguatamente, ma corrispondeva, anche secondo il giudizio dell'equipe che aveva la responsabilità di osservare e valutare le ospiti, alla verità dei fatti.
Affermata l'insussistenza della procedibilità officiosa di all'art. 609 septies, n. 4, in quanto esclusa la sussistenza dei reati (falso) nei quali si sarebbe concretizzato l'abuso funzionale, quel Tribunale ritenne, tuttavia, non mutata la procedibilità officiosa, rinvenendosi in capo all'imputato la qualifica di pubblico ufficiale o, quantomeno, d'incaricato di pubblico servizio.
L'assoluzione dalle violenze sessuali ai danni delle altre due donne fu motivata, per la K. , dalla insufficienza di prova sul dissenso di costei (riferito solo de relato) e per la Ma. , sussistendo il ragionevole sospetto che la donna nutrisse un qualche sentimento amoroso nei confronti del prelato.
3.3. La Corte d'appello bresciana, condivisa la qualifica pubblica dell'imputato, giudicò che il quadro probatorio non fosse tale da far dubitare della penale responsabilità del M. anche per le violenze sessuali contestate ai danni della K. e della Ma. e, quanto al trattamento penale, che la complessiva condotta dell'uomo non lo facesse meritevole delle attenuanti generiche.
3.4. La Corte suprema di cassazione, affermata la procedibilità officiosa per il vincolo funzionale di cui al n. 4 dell'art. 609 septies, cit., in quanto il delitto di violenza sessuale “risulta connesso, nella imputazione originaria, al delitto di cui all'art. 479 cod. pen., a nulla rilevando che per quest'ultimo fatto il prevenuto è stato assolto per insussistenza del fatto stesso (Cass. 22/6/2005, n. 33775; Cass. 4/12/1997, n. 1506)”, accogliendo il relativo motivo, escluse la qualifica soggettiva di cui all'art. 357, cod. pen. in capo all'imputato. Con la conseguenza che “La soluzione così raggiunta determina la impossibilità di potere attribuire il requisito dell'abuso di autorità alla condotta contestata al prevenuto, in quanto, ormai per consolidata giurisprudenza di legittimità (...), l'abuso di autorità, rilevante per il co. 1 dell'art. 609bis cod. pen., presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, derivante dal pubblico ufficio ricoperto dall'agente stesso (...)”.
Soggiunse, poi, la Corte di legittimità che per spiegare la condotta minacciosa dell'imputato, il quale, avvalendosi delle sue amicizie presso la pubblica autorità e del fatto che le relazioni sulla condotta delle ragazze avevano significativa influenza sulle determinazioni dell'Ufficio Immigrazione della Questura di Mantova, aveva costretto talune di esse a corrispondere alle proprie voglie sessuali, richiamando le emergenze istruttorie, era necessario accertare “in maniera compiuta ed esaustiva, se il prevenuto, in forza del ruolo rivestito nella (OMISSIS) , avesse acquisito agli occhi delle donne una tale posizione autoritativa, determinante nelle stesse uno stato di soggezione psicologica, un metus reverentialis, strettamente connesso al timore di vedersi revocato il permesso di soggiorno, talmente cogente da comprimere la volontà al punto da subire, passivamente, le voglie sessuali del M. ”.
Pertanto, annullata la sentenza impugnata, gli atti furono rinviati al giudice di merito perché “sottoposta a nuovo vaglio valutativo la piattaforma probatoria, (...) eliminata per le ragioni ut supra sviluppate la condotta di abuso di autorità, si accerti la ravvisabilità o meno della sussistenza del reato ascritto al prevenuto”. Gli altri motivi, i quali presupponevano l'affermazione di penale responsabilità, restarono assorbiti.
4. L'imputato ha proposto nuovamente ricorso avverso la statuizione della Corte territoriale corredato da sette articolati e compendiosi motivi.
4.1. La prima delle censure, denunziante violazione di legge e vizio motivazionale, investe il punto della procedibilità dei reati per i quali il ricorrente è stato condannato; da doversi reputare esclusa, secondo l'asserto impugnatorio, per essersi formata preclusione processuale. La prospettazione si regge sulle considerazioni seguenti: solo la qualifica soggettiva dell'imputato aveva formato oggetto di gravame e non già la ben diversa questione della procedibilità d'ufficio per connessione. Era illogico ritenere che la statuizione del Tribunale avesse escluso solo un argomento per la procedibilità d'ufficio (quella teleologica di cui al n. 4, comma 4, dell'art. 609septies, cod. pen.), senza esaurire il punto, in ogni caso soddisfatto dalla qualifica pubblica attribuita da quel giudice all'imputato (n. 3, comma 4, medesimo art.); di conseguenza la pubblica accusa avrebbe dovuto cautelarsi avanzando appello subordinato sulla questione. Anche alla Cassazione era precluso rimettere in discussione questioni oramai precluse, salvo che non si tratti di prendere atto di sopravvenienze favorevoli all'imputato. Sbagliava la Corte di Brescia nel ritenere che la Corte di cassazione avesse ritualmente affermato la procedibilità per il fatto di avere annullato con rinvio in ordine al percorso motivazionale, attraverso il quale in sede di merito si era giunti ad affermare la penale responsabilità; invero, secondo il ricorrente, l'obbligo del giudice del rinvio di uniformarsi alla statuizione di legittimità era limitato e circoscritto al principio di diritto affermato in sentenza, che in materia di procedibilità non risultava essere stato espresso; con la conseguenza che l'inciso doveva considerarsi un mero obiter dictum, posto al di fuori della ratio decidendi dell'annullamento; il rispetto del ne bis in idem processuale non poteva essere violato neppure dalla Cassazione, in quanto, diversamente, si sarebbe procurata una evidente lesione dei diritti difensivi del ricorrente, il quale si vedrebbe “travolgere la (favorevole) decisione in ordine alla procedibilità adottata dai Giudici di prime cure, senza mai avere potuto interloquire sul punto”; per rimediare all'inconveniente non restava al Giudice di legittimità, nuovamente adito, che annullare senza rinvio la statuizione.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione di legge e vizio motivazionale per non aver il Giudice del rinvio effettivamente risposto con nuovi e logici argomenti all'indicazione di legittimità in ordine alla sussistenza di prove convincenti della costrizione esercitata per ottenere i rapporti sessuali, essendosi limitato a ribadire la medesima “piattaforma probatoria”. Al contrario, sarebbe occorso accertare, attraverso metodo rigoroso e specifico, sia la condotta dell'imputato, che gli effetti della stessa. “D'altra parte comprimere la volontà al punto da subire passivamente le decisioni altrui significa realizzare un vero e proprio annullamento della volontà della vittima. Ed è ciò che distingue la costrizione dall'induzione prevista dal 2 comma dell'art. 609 c.p.”. Se ciò fosse stato fatto, l'esito sarebbe stato negativo; invece, la Corte territoriale si era limitata, anche in sede di rinvio, a richiamare ed enfatizzare il "contesto ambientale", certamente inutile ad individuare le specifiche condotte costrittive, che qui avrebbero dovuto riguardare la revoca del permesso di soggiorno ed esprimere il condizionamento della volontà delle vittime.
4.3. Con il terzo motivo viene dedotta l'illogicità e contraddittorietà della motivazione a riguardo della ritenuta responsabilità del M. per i reati a lui ascritti.
Dietro il paravento del "contesto ambientale" e della pretesa fragilità delle ragazze ospiti della comunità, si rinveniva l'assenza di precipui elementi probatori a carico.
Il contenuto delle relazioni inoltrate alla Questura di Mantova, con le quali era stata richiesta la revoca del permesso nei confronti della K. e della Z. , concerneva circostanze veritiere, condivise dall'intera equipe, come usualmente; inoltre, la stesura implicava confronto e dibattito. Non solo, spesso il M. lasciava dei fogli in bianco con la sua firma, che venivano poi compilati da una delle due suore e dalla psicologa. Di conseguenza, una minaccia siccome descritta nel capo d'imputazione era del tutto inattuabile.
Al contrario, fu la Z. ad esercitare minaccia nei confronti del M. , costretto dal ricatto della donna (la quale, in difetto, lo avrebbe accusato di aver avuto rapporti sessuali con lei, così da procurare pubblico scandalo) ad inviare un nuovo parere alla Questura, con il quale ritrattare quanto in precedenza riferito. Cosa che il prete, in effetti, fece, così certificando la di lui particolare debolezza e l'illogicità del convincimento giudiziario secondo il quale costui sarebbe stato il capo indiscusso della comunità, anzi dittatore egemone della vita delle ospiti.
L'espulsione delle predette ospiti, quindi, lungi dall'aver costituito una vendetta per favori non concessi, rappresentò la giusta risposta alla condotta delle medesime, le quali avevano platealmente violato i patti stipulati al momento di essere prese in carico dalla struttura, che taluna di loro viveva come un “carcere”.
Doveva dissentirsi, inoltre, dalla generica ed infondata affermazione secondo la quale le ospiti erano in larga parte fuggite, ricavata dall'erronea visione del solo teste R. ; nonché dall'ingiustificata qualifica di fragilità loro attribuita: le predette, invece, dimostrando indifferenza al percorso di recupero per loro avviato, avevano messo in atto condotte riprovevoli e trasgressive.
4.4. Con la successiva censura il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio motivazionale in ordine al vaglio probatorio, in relazione alle cogenti indicazioni statuite in sede di legittimità.
Non potevano considerarsi riscontri estrinseci alle dichiarazioni delle pretese vittime le testimonianze de relato di Mi. , suor D. , R. e H. (per il caso della Z. ), di G. e O. (per il caso della K. ) e ancora di O. , Suor D. e Mi. (per Ma. ). Né poteva appagare la prova dei rapporti sessuali eventualmente intrattenuti, essendo necessario dimostrare che gli stessi erano stati estorti sotto la minaccia che in difetto l'imputato non avrebbe fatto rinnovare il permesso di soggiorno alle donne fatte oggetto dell'interesse sessuale.
Non sono mai le persone offese a riferire di minacce, consistenti nella revoca del permesso, quanto, de relato, altri testimoni.
Costoro, nel loro complesso, non erano attendibili, e, comunque, il loro apporto era stato considerato con parzialità. Mi.Fa. (la cuoca), propensa al pettegolezzo, conformemente a tutto l'ambiente, aveva persino insinuato che la Z. aspettasse un figlio dall'imputato; inoltre la Corte territoriale aveva omesso di riferire che solo dopo insistenza del P.M. costei aveva in qualche modo fatto riferimento ad un consenso viziato dalla minaccia del mancato rinnovo del permesso. R.M. (il professore) aveva maturato delle personali impressioni del tutto esagerate e turbate dalla sua soggettiva visione. O.L. (la psicologa) aveva creduto opportuno predisporre una dichiarazione della Ma. nel luglio del 2005, radicalmente difforme rispetto a quanto poi dichiarato al giudice dalla donna, la quale, peraltro, non aveva bisogno di alcun rinnovo del permesso, avendo sin dall'inizio deciso di rientrare in patria (infatti, in ordine alla posizione di costei l'imputato è stato definitivamente assolto), così restando dimostrata la totale inattendibilità della teste. D.G. (una delle due suore) si era espressa in termini anodini, dai quali non era consentito inferire la sussistenza della grave coazione richiesta dalla norma; per altro, la stessa, pur a conoscenza di fatti che avrebbero dovuta allarmarla notevolmente si era guardata dal denunziarli, asserendo a giustificazione delle mere scuse: evidentemente non attribuiva credibilità alle accuse e, in particolare, a quelle raccolte anche da lei nel documento di cui si è detto.
4.5. Con il quinto ed il sesto motivo si assume la carenza grave di motivazione in punto di verifica probatoria delle singole condotte addebitate. Z.N. solo dopo aver ricevuto la notizia del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno costei comincia a trasformare quel che prima tendeva a qualificare un rapporto amoroso in una costrizione; dopo che in sede d'incidente probatorio aveva, nella sostanza, escluso che i rapporti sessuali fossero stati determinati altro che da attrazione volontaria, al dibattimento, mutando radicalmente registro, affermò il contrario. Né può considerarsi attendibile l'accusa di essere stata fatta oggetto di tentativi di subornazione, anche con promessa di denaro in cambio, sussistendo insanabile contraddizione sull'epoca dell'accadimento, la quale costituisce punto decisivo (non aveva di certo senso essere contattata per modificare in favore dell'imputato la propria deposizione, essendo già questa - quella resa nel corso dell'incidente probatorio - a lui favorevole). Privo di logica il convincimento che la Z. , la quale aveva rifiutato il consiglio e il denaro, perché voleva perseguire la verità e la giustizia, poi, nell'incidente probatorio avesse, invece, favorito l'imputato. Inoltre, l'impugnazione non manca di evidenziare altre divergenze, qualificate rilevanti, nonché la descrizione rocambolesca di almeno uno degli incontri sessuali (quello presso il reparto infettivi dell'ospedale ove la donna trovavasi ricoverata), il quale, a crederlo accaduto, implicava, per forza di cose, il pieno consenso della donna.
K.S. la Corte del rinvio, pur non essendo stato possibile escutere al dibattimento la K. , è andata dell'avviso che le risultanze probatorie fossero tali da comprovare la sussistenza dei fatti. Tutto, quindi, si basa sulle dichiarazioni della O. e di G.O. , quest'ultima, unica testimone diretta di un approccio sessuale del prete, ha affermato che la donna non tentò di allontanare il M. . Solo valorizzando successive confidenze della K. alla G. si era giunti ad affermare la mancanza di consenso al rapporto sessuale; senza, tuttavia, considerare che fu proprio la K. ad essersi negata al M. , dopo che era arrivato il provvedimento di diniego del rinnovo del permesso, quindi, a dispetto della pretesa minaccia. Non vi era, in definitiva, prova della coazione e solo attraverso arbitrarie congetture e ricostruzioni la Corte territoriale aveva affermato il contrario, tanto da non riuscirsi a comprendere se la condanna era stata reputata provata in relazione al solo episodio avvenuto in casa dell'invalido Carnevali Luigi o anche a quello riferito dalla O. (intenso bacio in bocca carpito con la forza).
4.6. Con il settimo ed ultimo motivo viene denunziata violazione di legge in relazione al trattamento penale.
Tutte le condotte (aver accusato altri di aver ordito un complotto, aver denigrato i testimoni, cercando anche d'influenzarli illecitamente) attribuite all'imputato e valorizzate al fine di negare la ricorrenza delle attenuanti generiche erano insussistenti. Al contrario, non si era tenuto conto dell'incensuratezza, della lunga e generosa dedizione in favore dei soggetti deboli, peraltro riconosciuta anche dai testimoni che lo accusavano; con la conseguenza che la Corte di merito aveva finito con lo svolgere un bilanciamento ingiusto, a tutto svantaggio dell'imputato, valorizzando omissioni e forzature e non percependo contraddizioni e cadute logiche. Aveva, inoltre, errato il Giudice del rinvio nel negare la ricorrenza dell'attenuante di cui all'ultimo comma dell'art. 609bis, cod. pen. Non andava tenuto conto delle sole componenti oggettive del fatto, ma anche del grado di coartazione esercitato sulla vittima, nonché del danno a costei arrecato, anche in relazione alla misura della compressione della libertà sessuale. Al di là del protrarsi nel tempo delle vicende non era dubbio che le persone offese avevano attivamente collaborato, anche al fine d'ingraziarsi il sacerdote.
Considerato in diritto
5. Il primo motivo, con il quale viene prospettata questione procedurale avente carattere preliminare, nonostante l'apprezzabile sforzo ricostruttivo, non può essere condiviso.
Invero, e ciò solo basterebbe, la sentenza di questa Corte con la quale venne annullata la sentenza d'appello, escluso che l'imputato rivestisse il ruolo di pubblico ufficiale e d'incaricato di pubblico servizio, ha, tuttavia, espressamente statuito sulla procedibilità officiosa per il reato di cui all'art. 609bis, cod. pen., “in quanto risulta connesso, nella imputazione originaria, al delitto di cui all'art. 479 cod. pen., a nulla rilevando che per quest'ultimo fatto il prevenuto è stato assolto per insussistenza del fatto stesso (Cass. 22/6/2005, n. 33775; Cass. 4/12/1997, n. 1506)”, ribaltando, così, l'opposto giudizio espresso dal Giudice di primo grado. Né può qualificarsi la statuizione in parola come un mero obiter senza ricadute sulla decisione, in quanto, ove fosse vero l'assunto impugnatorio, venuta meno la procedibilità derivante dalla funzione di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, il procedimento avrebbe dovuto ineluttabilmente essere definito in sede di legittimità annullandosi senza rinvio la sentenza impugnata per difetto di procedibilità per mancanza di querela; al contrario, l'annullamento, disposto con rinvio, afferisce al quadro motivazionale del costringimento operato mediante minaccia, essendo stato escluso l'abuso di autorità, a cagione della posizione soggettiva dell'agente, non ritenuta assimilabile a quella derivante da investitura pubblicistica. La irrevocabilità, poi, della statuizione di legittimità sui punti definiti preclude tassativamente di riesaminare la questione.
5.1. Occorre considerare, che solida nella giurisprudenza di questa Suprema Corte è la distinzione tra l'effetto preclusivo derivante dall'impugnazione, il quale sedimenta in giudicato sul singolo capo (ciascuna decisione messa relativamente ad uno dei reati ascritti) solo allorquando resti esaurita ogni vertenza concernente i singoli punti di quel capo (art. 597, cod. proc. pen.) - S.U. n. 1 del 19/1/2000 - e il giudicato preclusivo a formazione progressiva, al quale da vita la norma speciale di cui all'art. 624, cod. proc. pen., la quale, appunto, dispone che “Se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata”. (S.U., 26/3/1997, n. 4904; 19/1/1994, Cellerini ed altro; 11/5/1993, Ligresti ed altro; 23/11/1990, Agnese ed altro; Sez. II, 29/10/1998, n. 11544, Rv. 211905; Sez. VI, 2/4/1998, n. 5578, Rv. 210612).
In particolare, hanno avuto modo di chiarire le Sezioni Unite di questa Suprema Corte che, in tema di giudicato progressivo la sentenza “conclude un iter processuale attraverso il quale si riduce progressivamente lo spazio del thema decidendum, con le questioni interne già definite ovvero non impugnate, in direzione dell'accertamento del fatto, della responsabilità dell'autore e della (eventuale) punizione dello stesso... Deriva, quindi, una situazione endoprocessuale che, se consente il riconoscimento di cause di non punibilità sopravvenute (arg. ex artt. 129 e 609, e. 2, c.p.p.), trova però nella regiudicata il limite invalicabile della loro applicazione”. Sicché, “il giudicato (progressivo) formatosi sull'accertamento del reato e della responsabilità dell'imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l'applicazione di cause estintive sopravvenute all'annullamento parziale (arg. ex 624, c. 1, c.p.p.)... Corollario dei principi suesposti è che la possibilità di applicare l'art. 129 c.p.p. nel giudizio di rinvio, in particolare con riferimento a cause estintive sopravvenute all'annullamento, sussiste solo nei limiti della compatibilita con la decisione adottata in sede di legittimità e col conseguente spazio decisorio attribuito in via residuale al giudice di rinvio: formatosi il giudicato sull'accertamento del reato e della responsabilità dell'imputato, dette cause sono inapplicabili non avendo possibilità d'incidere sul decisum” (Sez. Un., 26.3.1997, n. 4904).
In perfetta coerenza con l'assetto interpretativo sopra delineato la Corte di merito ha disatteso la pretesa del M. , e, dopo aver distinto tra punti e capi e chiarito non costituire punto della decisione impugnata le argomentazioni svolte a sostegno delle singole statuizioni, ha esattamente soggiunto che “Nel caso di specie, punto assolutamente rilevante della decisione era ed è la procedibilità d'ufficio del reato contestato all'imputato sub a) dal momento che per lo stesso non era stata presentata querela alcuna. È in relazione a questo punto e alla decisione affermativa al riguardo adottata dal primo giudice che deve dunque aversi riguardo al fine di verificare se, in relazione ai successivi gradi, si sia o meno formata quella preclusione processuale che, a detta della difesa, avrebbe decisivo rilievo nel presente giudizio di rinvio”, concludendo nel senso che “il tema della procedibilità officiosa del reato fu riproposto dalla difesa dell'imputato, soccombete sul punto in primo grado, sia davanti al giudice dell'appello sia davanti alla Suprema Corte (settimo motivo); questo è sufficiente per dimostrare che sul punto della procedibilità non si era formata alcuna preclusione processuale come tale ostativa all'affermazione della Suprema Corte”. In definitiva, in presenza di più condizioni di procedibilità, alternative e concorrenti fra loro, l'esclusione da parte del giudice di primo grado di quella di cui al n. 4 dell'art. 609septies, cod. pen., non procura preclusione decisoria di sorta, in quanto lo stesso giudice rinviene nell'ipotesi di cui al n. 3 della medesima disposizione idonea condizione di procedibilità d'ufficio, in senso sfavorevole all'imputato.
Né il P.M. avrebbe potuto impugnare una decisione che lo vedeva vincitore, difettando di concreto ed attuale interesse (per una l'applicazione del predetto principio, si veda Cass., Sez. II, n. 4499 del 13/11/1996, Rv. 206851).
6. Costituisce fermo principio che il giudice del rinvio, in caso di annullamento per vizio di motivazione (come nel caso di specie), vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti censurati dalla Suprema Corte, resta, tuttavia, libero di pervenire allo stesso risultato decisorio della statuizione annullata attingendo ad argomenti diversi da quelli censurati in sede di legittimità o, se del caso, rielaborando o integrando quelli già svolti (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. IV, n. 5552/2000; id., Sez. III, n. 4759/2000; id., Sez. I, n. 3752/2000; id., Sez. V, n. 2136/1999).
Consegue a ciò che il giudice del rinvio non viene meno all'obbligo di conformarsi al giudicato interno ove pervenga alla responsabilità dell'imputato, valorizzando argomenti, o arricchendo snodi logici pur già evocati in sede di merito.
In definitiva, il vizio evidenziato viene circoscritto e, in un certo senso, perimetrato da considerazioni fattuali ed enunciazioni valutative, ma queste, pur utili a rendere percepibile il vizio medesimo, non si impongono quali statuizioni vincolanti per il giudice del rinvio (cfr. Cass., Sez. I, n. 1397/1998).
Nel caso in esame il giudice del rinvio, preso atto del vizio motivazionale censurato, individuando le salienti circostanze che inducevano ad affermare che l'imputato, per l'autorevolezza di cui godeva all'interno della struttura comunitaria, per la sua forte e prevaricante personalità e per i suoi modi spicci, arroganti ed autoritari e per il modo con il quale brandiva l'esercizio, vero o che tale appariva alle ospiti, straniere e in condizioni di evidente minusvalenza, aveva procurato una effettiva ed illecita compressione della sfera volitiva delle persone offese.
Le conclusioni alle quali è pervenuto il Giudice del rinvio, scevre, come si vedrà, di quei gravi vizi logici, prospettati dal ricorrente, non possono in questa sede essere disattese.
Ovviamente, in questa sede non sarebbe consentito sostituire la motivazione del giudice di merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse di una qualche plausibilità.
Sull'argomento può richiamarsi, fra le tante, la seguente massima, tratta dalla sentenza n.15556 del 12/2/2008 di questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio di legittimità sulla motivazione: il nuovo testo dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., come modificato dalla I. 20 febbraio 2006 n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il "novum" normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere a un'inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione.
6.1. Unitariamente considerate le censure esplicitate ai motivi dal secondo al sesto, tutte tese ad evidenziare incongruenze motivazionali e correlate violazioni di legge in ordine al vaglio probatorio, anche in relazione alle indicazioni provenienti dalla sentenza di legittimità che ha negato l'adeguatezza del corredo probatorio approntato dai Giudici del merito, non sono condivise dal Collegio, per le ragioni generali di metodo e contenuto prima evidenziate e, nello specifico, avuto presenti le osservazioni di cui appresso.
I) Come si è anticipato, il giudice del rinvio, in presenza di una statuizione di legittimità, la quale gli restituisce il processo, perché, individuate le manchevolezze argomentative, proceda a nuovo vaglio, non vincolato da alcuna affermazione di diritto cogente, libero nei risultati, è tenuto a rivedere organicamente l'evidenze probatorie in atti, indirizzando la propria analisi alla soddisfazione di quegli ambiti rimasti non adeguatamente esplorati, evidenziati in sede di legittimità. Ciò non significa affatto, al contrario di quel che assume il ricorrente, che il predetto giudice debba disconoscere la “piattaforma probatoria” che ha a disposizione, o che debba, necessariamente, ricercare nuove prove o portare alla luce reperti probatori rimasti negletti. Quel che occorre è un complessivo ed organico riesame delle evidenze probatorie, con le conseguenti ricadute in termini di valorizzazione/svalorizzazione di determinate refluenze sul discorso logico decisionale, che soddisfi l'esigenza di completezza e coerenza argomentativa individuata dalla sentenza di annullamento.
Esattamente questa è l'opera che ha compiuto la Corte bresciana in sede di rinvio, traendone le conseguenze non gradite al ricorrente. Proprio al fine di verificare la qualità delle pressioni esercitate dal sacerdote sulle ospiti, onde accertare la rispondenza della condotta al paradigma incriminatorio della costrizione (e non più della semplice induzione), la Corte territoriale ha scandagliato minuziosamente (pagg. 22-26) il modo di rapportarsi dell'imputato con le predette ospiti, di concepire la struttura, al cui vertice si trovava indiscussamente, di gestire dei rapporti con l'autorità di polizia, incaricata di autorizzare la permanenza per motivi umanitari sul territorio nazionale delle cittadine extracomunitarie (sfuggite a contesti violenti e criminali che ne sfruttavano la prostituzione) nonché con gli operatori e i collaboratori della comunità. La conclusione, coerente e del tutto consequenziale, vede stagliarsi con assoluta nitidezza la figura di un uomo dai modi brutali, grevi e sbrigativi, aduso all'esercizio arrogante del potere che si trovava a gestire, "padre padrone", che agli occhi delle ragazze ospitate, certamente fragili (ove l'aggettivo non esprime, al contrario dell'allusione di cui in ricorso, il generico e qui banale concetto di inesperto abitante del mondo, bensì il modo d'essere di soggetti che, per ragioni che in questa sede non possono essere neppure accennate, si trovino in balia di scelte di vita, eventi, contesti, povertà relazionali, che li fanno agevole preda d'istinti predatori altrui), appariva il dominus assoluto dal quale dipendeva la serenità della loro vita futura (permanenza in Italia o restituzione a quel mondo violento e minaccioso dal quale erano fuggiti).
Ovviamente il descritto quadro ambientale non è dimostrativo in sé della costrizione, ma indubbiamente appare necessario a corroborare l'assunto accusatorio.
Invero, sgombrato il campo dalla pretesa erronea, più volte coltivata nel ricorso, secondo la quale la costrizione importerebbe l'annichilimento pressoché assoluto della volontà di determinazione della vittima, il che corrisponderebbe, invece, all'esercizio della violenza tout court, in quanto il soggetto passivo non agirebbe, ma sarebbe agito, ove si passi all'analisi della nozione di costrizione, richiamato dall'art. 609bis, cod. pen., escluso potersi risolvere la costrizione nella sola circostanza che il soggetto agente ricopra posizione autoritativa (Cass., Sez. III, n. 36595 del 22/5/2012, Rv. 253389), si è più volte in modo condiviso affermato che l'idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima va esaminata non secondo criteri astratti e aprioristici, ma valorizzando in concreto ogni circostanza oggettiva e soggettiva, sicché essa può sussistere anche in relazione ad una intimidazione psicologica attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase esecutiva (Cass., Sez. III, n. 14085 del 24/10/2013, Rv. 255022; n. 1911 del 2000, Rv. 215695; n. 3141 del 1994, Rv. 198709). Si è, inoltre, chiarito che la minaccia resta integrata anche dalla prospettazione, da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando essa sia finalizzata ai conseguimento dell'ulteriore vantaggio di tipo sessuale, non giuridicamente tutelato, ottenendo per tale via un profitto ingiusto e "contra ius" (Cass., Sez. III, n. 37251 dell'11/6/2008, Rv. 241277; n. 12082 del 2008, Rv. 239740; n. 774 del 2008, Rv. 238904; n. 16618 del 2003, Rv. 224399); a maggior ragione, quindi, come nel caso al vaglio, ove l'imputato esigeva la soddisfazione delle sue pulsioni sessuali sotto la minaccia di riferire al'autorità competente circostanze, se del caso pur vere, che avrebbero potuto indurre questa a non rinnovare il permesso di soggiorno.
È poi, appena il caso di soggiungere che la storia personale delle vittime e l'esercizio passato (od anche attuale) della prostituzione non costituiscono circostanze che attenuino o, addirittura, escludano la penale responsabilità dell'agente, per ragioni fin troppo ovvie per meritare di essere riprese in questa sede. Peraltro, questa Corte ha avuto modo di affermare che integra il reato di violenza sessuale anche la pretesa di ottenere un rapporto sessuale non consensuale da esercente la prostituzione, la quale nel corso del detto esercizio resta libera di autodeterminare la propria sfera sessuale (Cass., Sez. III, n. 19732 dell'8/4/2010, Rv. 247490). Né, infine, ha valore scriminante il fatto che la vittima non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l'autore per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei confronti della vittima abbia la consapevolezza del rifiuto implicito ai congiungimenti carnali (Cass., Sez. III, n. 29725 del 23/5/2013, Rv. 256823; Cass. n. 16292 del 2006, Rv. 234171).
II) Il M. ha enfatizzata la circostanza che i motivi che avevano portato al diniego del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie di Z.N. e di K.S. erano fondate e non figlie di costrutto ritorsivo del predetto e che la redazione della relazione non era frutto della individuale elaborazione del medesimo, bensì delle riflessioni svolte dall'Equipe, di cui il M. si limitava a far parte. La sentenza impugnata (pag. 36) smentisce convincentemente l'assunto, sulla base delle risultanze istruttorie: quali che fossero le modalità operative in concreto adottate, al M. restava sempre l'ultima parola (non solo talune relazioni risultavano essere da lui solo firmate, ma nessuna veniva inoltrata senza il suo visto e, nel merito, era sempre la sua opinione quella che prevaleva). Senza significato discolpante, poi, viene correttamente valutata (pag. 38) l'eventuale rispondenza della relazione a fatti veritieri, stante che quel che rileva è l'uso strumentale del potere (reale, ma il discorso non muterebbe, pur ove si trattasse di mera percezione soggettiva della vittima) di incidere sul futuro delle ragazze, in ansiosa attesa di regolarizzare la propria posizione in Italia, integrando la risposta negativa lo spauracchio di un rimpatrio forzato foriero di assai nefaste conseguenze.
Pienamente persuasiva risulta l'interpretazione delle pressioni esercitate dalla Z. sull'imputato, immediatamente dopo aver saputo del provvedimento negativo emesso dalla pubblica autorità nei di lei confronti - la minaccia della donna, percepita come estrinsecazione di volontà di “rovinare” il sacerdote, non poteva di certo consistere nella richiesta di una modesta somma di denaro e aver, lo stesso, avuto l'effetto di costringere il M. a ritornare sui suoi passi, redigendo una seconda, e favorevole, relazione (pag. 29) -.
Le dichiarazioni largamente concordanti di una pluralità di soggetti legati alla comunità da vincoli professionali e solidaristici, scevri, tutti, da motivi di astio o rancore nei confronti del religioso, del quale, anzi non hanno mai mancato di esaltarne i meriti, non possono essere svalorizzate, giudicandole frutto, ora di pettegolezzo, ora di esagerazione, ora ancora di fraintendimenti (si veda in specie, pagg. 22-36; 28-31 e 34). Al contrario, esse, passate al vaglio critico della Corte territoriale, appaiono concordanti, plausibili e veritiere; a fronte delle predette dichiarazioni la Corte di merito ha agevolmente individuato e circoscritto talune testimonianze di comodo, introdotte dall'imputato nel tentativo di discolparsi (pag. 46).
Quanto ai riscontri estrinseci invocati, in primo luogo non pare inutile ricordare che le dichiarazioni delle persone offese non rientrano fra quelle di cui al comma 3 dell'art. 192, cod. proc. pen. e, di conseguenza, le verifiche che vanno doverosamente effettuate si collocano nell'alveo ordinario del vaglio della credibilità della persona offesa testimone. Di poi, non resta che rilevare che il detto vaglio risulta essere stato effettuato, con solidità e ampiezza di argomenti, dalla Corte di merito, la quale, in sintesi, ha escluso, quale mera evenienza non rientrante nel ragionevole dubbio decisionale, l'ipotesi che le persone offese, ordendo articolata callida congiura nei confronti del prete, del quale, peraltro, non potevano che essere debitrici riconoscenti, abbiano preventivamente sparso la voce di essere sottoposte a vessazioni sessuali dal medesimo (pag. 28).
La circostanza, poi, che le condotte criminose dell'imputato non siano emerse a séguito di denunzie delle vittime, ma ad opera delle dichiarazioni di una delle collaboratrici (suor D.R. ) e di una delle ospiti, estranea al "trattamento", rafforza la portata persuasiva della ricostruzione accolta nella sentenza: il profondo stato di soggezione nel quale versavano le donne vessate impediva loro di esporre i fatti all'autorità; fatti che solo a cagione del livello d'insopportabile pervasività raggiunto avevano indotto gli stessi operatori, dopo aver visto fallire i tentativi "interni" di sedare le bramosie del M. , a rivolgersi alla Polizia. I titubamenti, le remore, i ritardi, le reticenze non si spiegano, come vorrebbe il ricorrente, con l'appalesarsi di dubbi sulla condotta del l'uomo, peraltro vistosamente esibita senza pudore, quanto con lo scopo di ridurre al minimo lo scandalo.
Senza fondamento deve ritenersi la contestazione d'attendibilità di Z.N. e K.S. .
Invero, la Corte di Brescia, senza lasciare adito a dubbi, non viene meno al dovere di verificare l'attendibilità in parola. Così resta spiegato (pagg. 26-38) che la Z. non ebbe mai a prestarsi volontariamente ai desiderata sessuali del M. , al quale non era affatto legata da sentimento amoroso; resta spiegata la ragione dei suoi tentennamenti e delle discrasie evidenziate nel corso dei vari esami; resta confermato il tentativo di subornazione operato dall'imputato; resta confermata la descrizione dei rapporti sessuali, anche di quello tenutosi in ospedale, ove la donna trovavasi ricoverata (certo rocambolesco, se si fosse trattato di rapporto imposto con la violenza fisica, ma non di certo se estorto con la minaccia, come nel caso).
Non dissimilmente per la K. la Corte di merito non si è sottratta alla necessaria verifica (pagg. 38-42) e le deposizioni della O. (la psicologa) e di G.O. , che non v'è ragione di ritenere inattendibili, trovano granitica conferma nelle ammissioni dell'imputato, il quale ha dichiarato di aver imposto un bacio lascivo per verificare se la donna fosse ancora disponibile alla prostituzione (in verità la O. ha riferito che l'uomo, esprimendosi in termini assai più grevi, aveva precisato che ciò aveva fatto al fine di verificare fino a che punto fossero “troie”).
6.2. Il settimo motivo, a cagione della sua manifesta infondatezza, non supera il vaglio d'ammissibilità.
Rientra nel potere discrezionale del giudice la scelta del trattamento sanzionatorio, potere che resta insindacabile, ove, come nel caso in esame, non emergano vizi motivazionali rilevabili in questa sede: al contrario di quel che si adduce in ricorso, la sentenza gravata mostra di aver tenuto conto delle emergenze fattuali favorevoli all'imputato ed in primo luogo della sua dedizione (almeno per il passato non oscurata, parrebbe, da fatti analoghi) all'aiuto sociale e, tuttavia, di quelle a lui sfavorevoli, plurime, assai gravi e prevalenti (pag. 50 e ss.). Per le medesime ragioni resta incensurabile il giudizio di immeritevolezza delle attenuanti generiche (pervicace ostinazione a dare libero sfogo ai propri istinti libidinosi per lungo tempo, senza remore e, spesso, facendo sfoggio del proprio potere esercitato sulle donne che gli erano in balia; assenza di fattiva resipiscenza; tentativi di subornazione).
Quanto, poi, alla rivendicata attenuante di cui all'ultimo comma dell'art. 609 bis, cod. pen., basti chiarire che la sentenza d'appello ha esattamente valorizzato la “qualità dell'atto lesivo”, che le pregresse esperienze delle vittime non allevia affatto (Cass., Sez. III, n. 3189 dell'8/1/2009, Rv. 242670), restando integra la grave compromissione del bene dell'autodeterminazione della propria libertà sessuale, protratta per lungo tempo (esclude che, in presenza di rapporti imposti per un significativo tratto temporale la circostanza che gli stessi non possano qualificasi completi possa assumere rilievo al fine di ottenere l'attenuante in parola, Cass., III, n. 24250 del 13/5/2000, Rv. 247286); nonché la significativa ricaduta sul bene della percezione del Se,H largamente compromessa in soggetti, già segnati da vicende di deprivazione morale e materiale, offesi e ulteriormente "traditi" in strutture d'accoglienza e da soggetti che ai loro occhi si presentavano come salvifiche (si è già condivisamente affermato che le circostanze delle quali il giudice deve tener conto al fine di verificare la ricorrenza dell'attenuante in discorso sono solo quelle di cui al comma primo dell'art. 133, cod. pen., Cass., Sez. III, n. 27272 del 15/6/2010, Rv. 247931).
7. All'epilogo consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
31-05-2014 04:52
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