Legittima difesa e limiti dell'uso di un'arma per difendersi.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 14 novembre 2013 - 10 gennaio 2014, n. 691
Presidente Sirena – Relatore Bianchi
Ritenuto in fatto
1. Il gup del tribunale di Avellino, all'esito di giudizio abbreviato, riteneva G.C.A. responsabile del delitto di omicidio colposo aggravato ai sensi dell'articolo 61 n.3 cod.pen. in danno di M.M. , così riqualificata l'originaria imputazione di omicidio volontario.
2.La corte di assise di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto le concesse attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante ed ha rideterminato la pena inflitta in anni uno e mesi quattro di reclusione con sospensione condizionale della stessa. Questi i fatti all'origine della vicenda: poco prima della mezzanotte del (omissis) , due persone si erano arrampicate sul solaio di un fabbricato in costruzione eretto lateralmente all'area su cui si trovava l'abitazione del G.C. ; quest'ultimo, allertato dai rumori provenienti dal fabbricato in questione, prelevava dal cassetto del comodino la pistola da lui legalmente detenuta e dopo avere acceso la luce della camera da letto e spalancata la finestra, esplodeva al buio tre colpi di pistola, di cui uno attingeva alla schiena, nella regione lombare, M.M. , recidendo la vena iliaca e cagionando la morte del predetto a seguito della violenta emorragia. Entrambi i giudici non davano credito alla versione fornita dall'imputato secondo cui i rumori provenivano dal bar sottostante in cui i ladri, o almeno uno di essi, stava cercando di entrare e ritenevano che la fattispecie non potesse essere ricondotta alla scriminante della legittima difesa sia pure putativa, ma che invece si dovesse riconoscere la responsabilità del G.C. per omicidio colposo con previsione dell'evento. In particolare si accertava che ad agire erano stati tre malviventi intenzionati a commettere un furto in un vicino caseificio, due dei quali si erano posizionati sul fabbricato in costruzione prospiciente l'abitazione dell'imputato, mentre il terzo era in attesa con la sua vettura di fronte al bar di proprietà del medesimo; l'imputato sentendo i rumori provenienti dal solaio dirimpetto alla sua camera da letto, usciva sul terrazzo e volontariamente faceva fuoco in direzione del luogo da cui aveva udito provenire i rumori, nel buio più totale poiché quella notte il faro, che pure era stato collocato per illuminare la zona, era spento. A questo accertamento in fatto i giudici pervenivano sulla base di una dettagliata valutazione delle risultanze processuali basata sulle dichiarazioni del figlio dello stesso imputato il quale riferiva che il padre gli aveva detto "di aver visto o sentito un casino di fronte dove è sito un manufatto in cemento armato"; tale ricostruzione era confermata dal fatto che i colpi di pistola erano stati esplosi dall'imputato proprio in direzione di quel punto e dalla circostanza che lo stesso imputato, accompagnato dal figlio, si era subito dopo recato fuori dell'abitazione per vedere cosa era successo, e non nel bar sottostante; coincidente era la ricostruzione dell'accaduto effettuata dai parenti dell'ucciso i quali avevano riferito che i complici avevano loro raccontato di aver avuto intenzione di perpetrare un furto in un caseificio posto nelle adiacenze del fabbricato su cui si erano appostati; non valevano in contrario le dichiarazioni rese dallo stesso imputato e dai suoi familiari in particolare il padre di quest'ultimo C. e la moglie, nonché dalla dipendente C. ; si trattava di dichiarazioni tra di loro contraddittorie e non lineari e non riscontrate (da segni di effrazione sulla finestra o da impronte); evidente era l'intento difensivo dell'imputato. La sentenza di appello si faceva poi carico della obiezione secondo cui non era verosimile che l'imputato, addormentato nel suo letto avesse potuto udire dei rumori che si erano verificati a circa 70 m di distanza dalla sua posizione, secondo quella che era stata la ricostruzione dei fatti della sentenza di primo grado; al riguardo osservava che in realtà tra la finestra della camera da letto dell'imputato e la parte prospiciente del fabbricato in costruzione vi erano 26,80 mt, mentre i 70 mt. di cui alla sentenza di primo grado erano quelli che separavano la finestra dal posto in cui sono state trovate alcune macchie di sangue.
La Corte, come già il giudice di primo grado, riteneva errata la tesi sostenuta dalla difesa secondo cui doveva ravvisarsi la legittima difesa così come configurata a seguito della legge n. 59 del 2006: difettavano nella fattispecie i requisiti dell'attualità dell'offesa e della inevitabilità dell'uso dell'arma per cui la reazione armata è consentita soltanto se diretta a difendere la propria o l'altrui incolumità ovvero i beni propri o altrui quando non vi è desistenza dell'autore e sussiste pericolo di aggressione, condizioni queste del tutto inesistenti nel caso in esame; neppure poteva ravvisarsi l'eccesso colposo che presuppone la sussistenza degli stessi requisiti della legittima.
3.Ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell'imputato. Con un primo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti che assume essere manifestamente illogica, contraddittoria e travisante rispetto ad elementi di prova aventi il carattere della decisività in quanto dimostrerebbero la sussistenza della scriminante invocata, quantomeno nella forma putativa. Il ricorrente si duole che sia stata attribuita assoluta attendibilità e verosimiglianza alle sole sommarie informazioni testimoniali rese dal figlio dell'imputato, G.C.G. , trascurando invece altri decisivi elementi di prova incompatibili e contrastanti con la ricostruzione accettata dalla sentenza e non attribuendo alcun rilievo alle dichiarazioni dell'imputato e degli altri suoi congiunti. Bisognava tenere conto della collocazione non solo della vittima, ma anche e piuttosto di quella dei suoi complici: i malviventi erano in tre, uno era pacificamente posizionato davanti al bar tabacchi con la propria autovettura in attesa, uno - quello ucciso - era sul solaio del fabbricato in costruzione, ma il terzo ben poteva essersi introdotto o aver tentato di introdursi nel bar tabacchi del C. , sito sotto l'abitazione, così come sempre sostenuto dall'imputato; la corte d'appello ha respinto questa ipotesi difensiva basandosi sulla ricostruzione dell'accaduto derivante dalle deposizioni dei congiunti del M. che avevano raccontato quanto loro riferito dai complici: si trattava di testimonianze de relato inutilizzabili per violazione dell'articolo 195 del codice di rito, atteso che la fonte diretta le aveva smentite negando il proprio coinvolgimento nell'accaduto; inoltre le stesse erano in violazione dell'articolo 192, 2 e 4 co., trattandosi di soggetti indagati di un reato collegato a quello per cui si procede e che quindi avrebbero dovuto essere sottoposte al vaglio della attendibilità; si trattava in ogni caso di dichiarazioni parziali (i due avevano taciuto il fatto che il M. era stato gravemente ferito) e interessate in quanto volte a sminuire la propria responsabilità riferendo di una mera attività preparatoria; la motivazione è ancora illogica nella parte in cui ritiene non plausibile che solo uno dei complici abbia tentato di introdursi nell'esercizio commerciale perché sarebbe illogico che gli altri non avessero collaborato attivamente a tale parte del'azione; non si tiene conto che in un bar tabacchi il bottino è costituito da denaro, valori bollati, sigarette agevolmente asportabili anche da una sola persona. Il ricorrente contesta che non si sia accolta la richiesta di rinnovazione del dibattimento per acquisire le planimetrie e le foto dello stato dei luoghi raffiguranti la collocazione del bar tabacchi, dell'edificio in costruzione e del caseificio assolutamente necessarie per accertare l'esatta posizione del M. e dei suoi complici e dimostrare che gli stessi non avevano intenzione di compiere un furto al caseificio, così come ritenuto in sentenza, ma bensì di accedere al bar tabacchi posto sotto l'abitazione dell'imputato. Contesta altresì che anche ammesso che la vittima si trovasse a 27 mt. dalla camera da letto dell'imputato, si sia ritenuto possibile che il G.C. abbia udito dei rumori mentre dormiva nella sua camera da letto; è illogico ritenere che la sua attenzione sia stata richiamata dalla torcia elettrica trovata in possesso del M. dato che questa torcia stata ritrovata nella tasca dei pantaloni.
Per quanto riguarda le dichiarazioni dell'imputato e dei suoi familiari il ricorrente deduce la violazione degli articoli 192, 195, 546 lettera e 603 del codice di rito e la manifesta illogicità contraddittorietà e travisamento delle prove; contesta che si siano ritenute inattendibili le dichiarazioni della moglie e del padre dell'imputato secondo cui essi avevano appreso dall'imputato che aveva sparato perché c'erano dei ladri che stavano tentando di entrare nel bar o in casa; e quelle di Ma.Vi. che aveva riferito di aver constatato che la finestra del bar tabacchi era aperta con l'avvolgibile in posizione obliqua e le toghe attaccate tra di loro.
Con riferimento alle sommarie informazioni rese dal figlio dell'imputato si eccepisce la violazione degli articoli 192 e 195 in quanto non riscontrate, essendo le dichiarazioni dei parenti dell'ucciso non utilizzabili in quanto de relato.
Con un secondo motivo di ricorso si deduce violazione di legge in relazione agli articoli 52, 55, 133 del cod.pen. ed agli articoli 192 e 546 lettera e) del codice di procedura penale. Il ricorrente sostiene che quand'anche si volesse aderire alla ricostruzione della dinamica dei fatti operata dai giudici del merito secondo cui due dei tre malviventi si trovavano nel fabbricato in costruzione mentre il terzo attendeva in macchina e l'imputato, dopo aver percepito dei rumori provenire dal suddetto manufatto, sparò nella direzione da cui provenivano i rumori, anche in tal caso avrebbe dovuto trovare applicazione la scriminante della legittima difesa quantomeno in forma putativa, oppure in subordine l'eccesso colposo di legittima difesa e dunque il trattamento sanzionatorio avrebbe dovuto essere diverso e più mite. Infatti era pacifico che il fabbricato in cui i malviventi si trovavano era di proprietà dell'imputato, come accertato dal giudice di primo grado, e che nello stesso edificio in costruzione vi era un locale dell'imputato adibito al deposito delle merci; quindi, trovandosi i malviventi in quel luogo per motivi illeciti, la reazione del C. doveva considerarsi scriminata in base all'articolo 52, co.2, cod.pen. in presenza di un pericolo attuale di una offesa ingiusta ai beni custoditi nel suddetto deposito; la presunzione di proporzionalità introdotta dalla legge 59/ 2006 ove vi sia violazione di domicilio è configurabile, per costante orientamento di legittimità, sia nell'ipotesi di legittima difesa obiettivamente esistente sia in ipotesi di legittima difesa putativa incolpevole; quindi quand'anche i ladri non avessero avuto di mira il magazzino deposito, tale essendo comunque la percezione dell'imputato in considerazione dei rumori sentiti, l'uso dell'arma sarebbe stato comunque scriminato; l'attualità dell'offesa era conclamata dalla presenza notturna e furtiva quantomeno del M. in un luogo di proprietà dell'imputato con conseguente integrazione del delitto di violazione di domicilio; la motivazione si presenta apodittica dove si afferma che non vi era pericolo di aggressione e che l'imputato ha posto in essere un comportamento aggressivo in cosciente totale difetto di necessità difensive. Con un terzo motivo si deduce difetto di motivazione in relazione all'articolo 62 n.5 cod.pen. per diniego della circostanza attenuante del concorso doloso dell'offeso che è sostenuta da una motivazione contrastante con i principi applicativi della circostanza stessa. Con un quarto motivo si deduce manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione per quanto riguarda il mancato riconoscimento dell'attenuante della provocazione essendosi trascurato che la vittima e i suoi complici si trovavano in un fabbricato di proprietà dell'imputato e che l'imputato aveva già subito altri furti in precedenza per cui si era in presenza della cosiddetta "provocazione per accumulo" tale cioè da scatenare, pur in presenza di un episodio apparentemente minore, uno stato d'ira frutto della carica di paura, dolore e sofferenza accumulati e sedimentati nel tempo. Con un quinto motivo censura la ritenuta colpa cosciente avendo i giudici omesso di valutare circostanze decisive pacificamente acclarate che deponevano per la mancata previsione dell'evento in concreto verificarsi e quindi per l'insussistenza dell'aggravante contestata; era infatti pacifico che il comportamento dell'imputato si era concretizzato in una reazione impulsiva frutto di uno stato di estrema concitazione, aggravata dal brusco risveglio e dalla paura che qualcosa di grave stesse per accadere. Con un sesto motivo lamenta il difetto di motivazione in relazione all'art. 133 cod.pen. essendosi il giudice allontanato dal minimo edittale con una motivazione del tutto apparente sulla gravità del fatto con riferimento al grado della colpa. Con il settimo motivo si contesta la mancanza di motivazione sulla richiesta di sospensione della provvisionale.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non merita accoglimento risultando in parte infondati e in parte inammissibili i motivi dedotti.
Osserva in primo luogo il Collegio, con riferimento alle eccezione di inutilizzabilità della prova ex art. 195 cod.proc.pen. che, essendosi il giudizio celebrato con rito abbreviato, sono diventati pienamente utilizzabili tutti gli atti assunti nella fase delle indagini preliminari, tra cui le dichiarazioni rese dai familiari del defunto M. di cui si eccepisce appunto la inutilizzabilità;
certamente le stesse non sono affette da inutilizzabilità patologica atteso che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte le dichiarazioni "de relato" sono utilizzabili anche nel giudizio ordinario ove nessuna delle parti si sia avvalsa del diritto di chiedere che sia chiamato a deporre il teste di riferimento, essendo l'ipotesi di inutilizzabilità circoscritta, per legge, solo al caso in cui il giudice abbia omesso la citazione dei testimoni diretti, nonostante l'espressa richiesta di parte (da ultimo sez. 4, 17.1.2012 n.35913 Rv. 254071); a volerle ritenere inutilizzabili, si tratterebbe dunque di inutilizzabilità c.d. fisiologica che non opera nel giudizio abbreviato, in cui rileva solo la inutilizzabilità patologica e cioè quella afferente alla inosservanza di un espresso precetto normativo (sez. un. 21.6.2000 n.16 Tammaro).
Le stesse sono state ritenute attendibili sia dal giudice di primo grado che da quello di appello avendo già la sentenza di primo grado posto in evidenza la coerenza con le risultanze degli accertamenti espletati sul luogo dei fatti dagli inquirenti e la evidenza delle ragioni per le quali le fonti dirette non le hanno confermate essendo le stesse indicative della propria responsabilità. Al riguardo è solo il caso di aggiungere che per giurisprudenza costante non può formare oggetto di ricorso per cassazione la valutazione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni dei fatti e l'indagine sull'attendibilità dei testimoni salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione (da ultimo sez. 2, 5.5.2011 n.20806 Rv.250362); infatti il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema.
Considerazioni analoghe valgono per la richiesta di rinnovazione del dibattimento avanzata per produrre planimetria e fotografie dello stato dei luoghi, istanza rigettata dalla Corte di appello che ha ritenuto superflua tale produzione; è noto che la rinnovazione del dibattimento nel giudizio di appello è istituto discrezionale e del tutto eccezionale cui il giudice può fare ricorso quando ritiene che le stesse risultino assolutamente indispensabili ai fini della decisione, e che proprio in relazione a tali caratteristiche dell'istituto la giurisprudenza di questa Corte è pacifica nell'affermare che mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell'uso del potere discrezionale, derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell'acquisizione probatoria, nella ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione può1 essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in ordine alla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessita1 di rinnovare il dibattimento. Alla luce di tali principi nessuna censura è ravvisabile nei confronti della ordinanza emessa dalla Corte di appello che ha espressamente ritenuto superflua la produzione di planimetrie e fotografie relative allo stato dei luoghi dal momento che si trattava di circostanze già chiarite in sede di indagini preliminari, attraverso la descrizione dei luoghi e gli schizzi redatti dai Carabinieri.
Tanto premesso, il primo motivo di gravame è inammissibile. Con esso si contesta la ricostruzione del fatto cui sono pervenuti i giudici di merito sostenendo che vi era stato un tentativo di furto nel bar dell'imputato sottostante l'abitazione. Il motivo, tendente o ad una ricostruzione del fatto diversa da quella accertata dai giudici di merito è inammissibile in quanto la verifica che la Corte di cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza non può essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito.
Come noto, anche dopo la riforma dell'art. 606, comma primo, lett. e) ad opera dell'art. 8 della L. n. 46 del 2006, non e1 consentito dedurre in Cassazione il vizio di travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità1 di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. È invece, consentito dedurre il vizio di "travisamento della prova", che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale; vizio quest'ultimo che però assolutamente non sussiste nel presente caso atteso che - come peraltro lo stesso ricorso mette in luce - ciò di cui ci si duole è che il giudice non abbia bene interpretato le dichiarazioni dei testi, non abbia attribuito attendibilità a quelle del padre, della moglie e della dipendente dell'imputato e di conseguenza non abbia correttamente ricostruito i fatti, nel senso della versione sostenuta dall'imputato.
Nel caso di specie, richiamato quanto sopra detto circa il controllo sulla attendibilità dei testimoni, deve rilevarsi che la Corte di appello ha indicato nelle divergenze risultate nelle testimonianze del padre (la cui prima dichiarazione volta a assumersi la responsabilità degli spari è risultata palesemente falsa) e della moglie dell'imputato la ragione della loro ritenuta inattendibilità e nell'assenza assoluta di tracce di effrazione alla finestra e alla serranda o di rilevamento di impronte da parte degli agenti operanti quella della inattendibilità della dipendente C. ; tracce neppure rinvenute dall'imputato nel suo primo sopraluogo. Condivisibile è anche l'osservazione secondo cui se i malviventi avessero avuto di mira il bar dell'imputato non si comprende perché solo uno vi sarebbe penetrato o avrebbe tentato di penetrarvi, mentre l'altro era sul solaio del fabbricato in costruzione; viceversa ha osservato la Corte che la ricostruzione risultante dalle dichiarazioni del figlio era confermata, oltre che dalle dichiarazioni dei familiari dei complici del M. , dalla direzione degli spari e dal comportamento di padre e figlio che dopo l'esplosione dei colpi si sono recati in primo luogo a ispezionare l'esterno della casa e non il bar da cui, secondo l'imputato, provenivano i rumori; ha altresì precisato, facendo riferimento alla testimonianza di una delle guardie giurate, che l'antifurto aveva suonato dopo l'esplosione dei colpi e non prima (al tentativo di qualcuno di penetrare nel bar); che la distanza minima tra il fabbricato e la camera da letto del C. era di ca. 26 mt. Su tali basi è avvenuta la ricostruzione del fatto nel senso sopra specificato e cioè che due dei tre malviventi si trovavano sul solaio del fabbricato in costruzione (il terzo attendeva in macchina) allorché l'imputato, avendo udito dei rumori, uscì sul balcone della camera da letto e sparò nella direzione da cui provenivano i rumori stessi; né la vittima né i suoi complici avevano mai neppure tentato di fare ingresso nel bar del C. .
Si tratta di ricostruzione che per quanto sopra detto deve aversi per definitiva, e tanto meno può contestarsi, come vorrebbe il ricorso, per il fatto che la sentenza non ha spiegato come era possibile che l'imputato avesse sentito dei rumori dalla distanza di 26 metri, trovandosi addormentato nella sua camera da letto con la televisione accesa, avendo già la sentenza giustificato tale circostanza con la maggior possibilità di percepire i rumori nottetempo ed essendo comunque un dato di fatto pacifico, per averlo riferito lo stesso imputato, che egli fu messo in allarme da rumori provenienti dall'esterno.
Passando all'esame del secondo motivo, con esso il ricorrente ripropone la tesi, già sostenuta davanti alla Corte di appello, secondo cui anche a voler accedere alla ricostruzione di cui sopra, il comportamento del G.C. sarebbe comunque inquadrabile nella legittima difesa, effettiva o putativa, ex art. 52, co.2 e 3 cod.pen. come modificati dalla legge n. 59 del 2006, dal momento che i ladri si erano introdotti nella sua proprietà, quale era il fabbricato in costruzione collocato su terreno proprio, con evidente intento di rubare in un locale dell'imputato adibito a deposito merci che ivi si trovava. Ora, a prescindere dalla considerazione che questo intento di voler rubare nel deposito merci è inconciliabile con la tesi sostenuta in via principale secondo cui l'obbiettivo era costituito dal bar sottostante l'abitazione, esso è altresì inconciliabile con l'accertamento in fatto compiuto dalla sentenza nel senso che i ladri avevano di mira il vicino caseificio; si tratta dunque all'evidenza di una tesi difensiva di cui non si può tenere conto, e che comunque risulta, per quanto si dirà, sostanzialmente irrilevante.
Ciò che rileva è che avendo i ladri fatto ingresso nella proprietà del G.C. e potendo darsi per scontato che quest'ultimo, udendo dei rumori in ora notturna, abbia pensato alla possibile presenza di persone male intenzionate, deve valutarsi se poteva trovare applicazione la scriminante della legittima difesa come risultante dalla modifica normativa intervenuta sull'art. 52, co.2, cod.pen.
È noto che con la legge 13 febbraio 2006 n.59, allo scopo dichiarato di rafforzare la difesa dei cittadini a fronte del fenomeno delle "rapine in ville", si è ritenuto utile introdurre nell'ordinamento uno strumento di autotutela che superasse le incertezze interpretative esistenti in tema di legittima difesa; a tal fine si sono aggiunti all'art. 52 del codice penale i seguenti due commi: "Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale".
Si è in tal modo introdotta una presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa quando sia configurabile la violazione di domicilio da parte dell'aggressore, ossia l'effettiva introduzione di costui nel domicilio altrui, contro la volontà del soggetto legittimato ad escluderne la presenza. In tal caso, l'uso dell'arma legittimamente detenuta è ritenuto proporzionato per legge, se finalizzato a difendere la propria o l'altrui incolumità ovvero i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione. In presenza delle suddette condizioni, non è più rimesso ad apprezzamento discrezionale il giudizio sulla proporzionalità della difesa all'offesa, essendo il rapporto di proporzionalità sussistente per legge, sia in ipotesi di legittima difesa obiettivamente sussistente sia in ipotesi di legittima difesa putativa incolpevole. Al riguardo la giurisprudenza di questa Corte (sez. 1, 26.11.2009 n.47117 Rv.245884) ha però precisato che il requisito della proporzione tra offesa e difesa viene meno nel caso di conflitto fra beni eterogenei, allorché la consistenza dell'interesse leso (la vita della persona) sia molto più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionali, di quello difeso (l'integrità fisica), ed il danno inflitto con l'azione difensiva (la morte dell'offensore) abbia un'intensità e un'incidenza di gran lunga superiore a quella del danno minacciato (lesioni personali, neppure gravi al momento dell'inizio dell'azione omicida).
Ma, prima ancora di occuparsi della presunzione di proporzionalità, ciò che rileva in questa sede osservare è che non ogni pericolo che si concretizza nell'ambito del domicilio giustifica la reazione difensiva, come sembra ritenere il ricorrente, atteso che dall'esame del testo normativo risulta chiaramente, essendo la nuova disposizione inserita dopo il primo comma dell'art. 52, che restano fermi i requisiti strutturali da tale norma stabiliti e cioè: pericolo attuale di offesa ingiusta, da un lato, costrizione e necessità della difesa, dall'altro. Ciò è già stato chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (sez. 1, 8.3.2007 n. 16677 Rv. 236502) secondo cui le modifiche apportate dalla legge 13 febbraio 2006, n. 59 all'art. 52 cod. pen., hanno riguardato solo il concetto di proporzionalità, fermi restando i presupposti dell'attualità dell'offesa e della inevitabilità dell'uso delle armi come mezzo di difesa della propria o dell'altrui incolumità; di conseguenza, la reazione a difesa dei beni è legittima solo quando non vi sia desistenza ed anzi sussista un pericolo attuale per l'incolumità fisica dell'aggredito o di altri. Concetti ribaditi da altra pronuncia (sez. 1, 21.2.2007 n.12466 Rv. 236217) nel senso che la causa di giustificazione prevista dall'art. 52, comma secondo, cod. pen., così come modificato dall'art. 1 L. 13 febbraio 2006 n. 59, non consente un'indiscriminata reazione nei confronti del soggetto che si introduca fraudolentemente nella propria dimora, ma presuppone un attacco, nell'ambiente domestico, alla propria o altrui incolumità, o quanto meno un pericolo di aggressione. Venendo al caso di specie, è del tutto corretta la motivazione della Corte di appello che ha ribadito la impossibilità di applicare la scriminante in relazione alla eccepita proprietà del fabbricato in costruzione facendo difetto i requisiti si del pericolo attuale di un'offesa ingiusta e della inevitabilità della difesa; come già osservato dalla sentenza di primo grado, i ladri erano infatti sul solaio del fabbricato in costruzione, a debita distanza dall'abitazione dell'imputato, addirittura su un altro fabbricato dal quale non sarebbe stato possibile raggiungere con immediatezza la casa del medesimo e neanche il deposito; non risulta in alcun modo che gli stessi abbiano posto in essere un qualche atteggiamento minaccioso che potesse rappresentare pericolo per l'incolumità dell'imputato; il quale ben avrebbe potuto limitarsi a fare rumore con qualche altro mezzo meno pericoloso dell'arma se non semplicemente ad accendere il faro che illuminava la casa. Difettano dunque i requisiti, richiesti dall'art. 52 co.2, del pericolo attuale per la propria incolumità o per i propri beni, con pericolo in quest'ultimo caso anche per l'incolumità.
Neppure poteva applicarsi la esimente putativa, invocabile nel solo caso di legittima difesa putativa incolpevole (sez. 1, 9.2.2011 n.11610 Rv. 249875); laddove invece se l'agente ha ritenuto per errore, determinato da colpa, di trovarsi nelle condizioni previste dalla difesa legittima, obiettivamente non sussistenti, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. La legittima difesa putativa non può valutarsi al lume di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo stato d'animo dell'agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo invece essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l'errore; essa, può configurarsi se ed in quanto l'erronea opinione della necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell'animo dell'agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo; persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l'azione della difesa venga ad estrinsecarsi. E con riferimento al caso di specie la situazione concreta in cui si è trovato l'imputato, semplicemente allertato da rumori provenienti da un punto esterno all'abitazione di cui neppure era certa la causa, correttamente è stata ritenuta tale da non integrare legittima difesa putativa incolpevole.
Non può essere configurato l'eccesso colposo previsto dall'art. 55 cod. pen. in mancanza di una situazione di effettiva sussistenza della singola scriminante, di cui si eccedono colposamente i limiti. Peraltro non è dato comprendere quale sarebbe l'interesse dell'imputato a vedersi riconosciuta tale fattispecie che è sottoposta al medesimo trattamento sanzionatorio del delitto colposo. Corretta è la motivazione con cui è stata ritenuta la colpa cosciente osservandosi che era concretamente prevedibile da parte del G.C. la possibilità di colpire una persona sparando volontariamente tre colpi di pistola (legittimamente detenuta), al buio, ad altezza d'uomo. La sentenza non merita censura neppure per quanto riguarda la esclusione delle attenuanti; quella della provocazione anche nella forma della reazione per accumulo richiede pur sempre la proporzione tra il fatto ingiusto e la reazione nella specie correttamente ritenuta insussistente; quella del concorso del fatto del terzo richiede, secondo la giurisprudenza di questa Corte non solo l'integrazione di un elemento materiale, quale è l'inserimento del comportamento della persona offesa nella serie delle cause determinatrici dell'evento (nella specie sussistente) ma anche di un elemento psichico, consistente nella volontà di concorrere a determinare lo stesso evento (da ultimo sez. 1, 7.3.2012 n. 14802 Rv. 252265) nella specie certamente insussistente.
Da ultimo prive di effettiva consistenza si rilevano le censure sulla determinazione della pena tanto più considerato che il giudice di appello ha rideterminato a favore dell'imputato la pena base e ha ritenuto la prevalenza delle attenuanti generiche sulla aggravante nonché quelle relative alla richiesta di sospensione della provvisionale questione quest'ultima assorbita dalla pronuncia della presente decisione.
2. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
13-01-2014 21:44
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