La madre amministratore di fatto. La figlia amministratore di diritto. Rispondono entrambe di omesso versamento delle ritenute certificate e dell’IVA dichiarata .
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 6 febbraio – 3 aprile 2014, n. 15172
Presidente Squassoni – Relatore Di Nicola
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza emessa in data 21 maggio 2013, in parziale riforma della sentenza in data 4 maggio 2012 del Tribunale di Brescia, riduceva, concesse le attenuanti generiche, la pena inflitta a L.Z. a mesi otto di reclusione.
Alla ricorrente era contestato il reato previsto e punito dall'art.10 bis d.l.vo 10 marzo 2000, n.74 perché nella qualità di legale rappresentante della NOVA s.r.l., non versava, per l'anno 2006, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per un ammontare complessivo di € 96.566,00 (capo a) nonché il reato di cui ali' art. 10 ter d.l.vo n. 74 del 2000 perché, nella suddetta qualità, non versava, in relazione all'annualità 2006, l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, per un ammontare complessivo pari ad € 141.095.00.
La Corte territoriale giungeva alla sopraindicata conclusione escludendo che l'imputata fosse una semplice prestanome per avere consapevolmente assunto la carica di amministratore della Nova s.r.l. e, come da ella stessa dichiarato, avendo avuto, nel novembre 2006 e pertanto ben prima del perfezionarsi degli illeciti penali, piena contezza della situazione societaria.
Secondo la Corte del merito competeva pertanto all'imputata, che in piena scienza e coscienza aveva volontariamente accettato l'assunzione della carica societaria, l'esercizio della vigilanza connessa a detta carica, né un tale obbligo poteva venir meno in ragione della asserita posizione di amministratrice di fatto della madre.
2. Per l'annullamento della sentenza ricorre personalmente per cassazione L.Z. affidando il gravame ai seguenti tre motivi.
2.1. Con il primo denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione derivante da omessa valutazione di atti dei procedimento specificatamente indicati nei motivi di gravame.
Si sostiene che la Corte territoriale abbia omesso di valutare alcuni dati incontroversi già oggetto di specifici motivi di impugnazione, quali il fatto che la Zecchini si recasse in azienda solo sporadicamente, non avesse la gestione della società e neppure il potere di compiere l'azione doverosa o di impedire che essa venisse omessa dall'amministratrice di fatto verso la quale riponeva, trattandosi della madre, la massima fiducia e che invece apponeva anche la firma contraffatta della figlia sui documenti fiscali, gestiva il rapporto con le banche, con i dipendenti, con i clienti e fornitori ed intratteneva esclusivamente i rapporti con il commercialista della società, prendendo decisioni relative all'azienda (ad. es. redazione bilanci).
L'omessa motivazione su punti tanto decisivi ha comportato, secondo la ricorrente, un'affermazione di responsabilità fondata su motivazione meramente apodittica e contraddittoria, e perciò necessitante di cassazione.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per erronea interpretazione della legge e vizio logico, contraddittorietà e difetto di motivazione e illogicità della stessa circa la posizione soggettiva della ricorrente.
Si assume come la Corte territoriale, da un lato, abbia omesso di valutare in motivazione le osservazioni sollevate dalla difesa circa l'impossibilità di ascrivere, anche a solo titolo di dolo eventuale, non solo le condotte commissive bensì anche quelle omissive proprie dell'amministratrice di diritto, atteso il rapporto di naturale di fiducia che legava la figlia alla madre e, dall'altro, come abbia erroneamente interpretato l'art. 1, comma 4, d.P.R. 1998, n. 322 per il quale la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l'amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale.
Sotto tale specifico profilo, la Corte del merito avrebbe omesso di considerare come il rappresentante legale debba ritenersi mancante, non solo quando sia inesistente la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non abbia alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non sia in condizione di presentare la dichiarazione perché non disponga dei documenti contabili detenuti dall'amministratore di fatto. In tale situazione l'intraneo deve ritenersi colui che, sia pure di fatto, ha l'amministrazione della società mentre al prestanome potrebbe essergli addebitato il fatto a titolo di concorso a norma dell'art. 2392 cod. civ. e art. 40 cpv. cod. pen. a condizione che ricorra, situazione nella specie non sussistente, l'elemento soggettivo proprio del singolo reato.
2.3 Con il terzo ed ultimo motivo di gravame si denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., il vizio di mancata assunzione di prove richieste dall'imputata, sostenendosi come la Corte bresciana abbia rigettato la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale finalizzata all'assunzione di prove decisive con specifico riferimento al ruolo di mero prestanome, senza alcun potere o ingerenza nella gestione della società da parte della Z.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza di tutti i motivi.
2. Il primo ed il secondo motivo di gravame, essendo tra loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente esaminati.
Con essi, la ricorrente censura l'impugnata sentenza per non avere riconosciuto che la Z. fosse mero prestanome della madre e, dunque, estranea ai fatti a lei addebitati o quantomeno perché si sarebbe dovuto ritenere assente l'elemento soggettivo del reato.
Le doglianze sono prive di fondamento, avendo la Corte territoriale accertato come la Z., laureata in economia e commercio, fosse dotata di tutti gli strumenti culturali necessari affinché avesse piena consapevolezza di quali fossero gli obblighi riconnessi dalla legge alla carica di amministratore di società; come fosse pienamente integrata nella sua famiglia, svolgendo un ruolo attivo nella società stessa, e come interloquisse con i familiari circa le problematiche dell'impresa.
Avendo peraltro rilevato come la posizione di amministratore dì fatto della società da parte della madre fosse stata esclusa dalla sentenza di primo grado, la Corte territoriale non ha mancato di sottolineare come sia stata la stessa Z. ad affermare che nel novembre 2006, e dunque in epoca antecedente al perfezionamento degli illeciti penali, avesse avuto piena contezza della situazione societaria.
Tenuto conto di ciò, la Corte bresciana ha fatto buon governo dei principi espressi da questa Corte secondo cui l'amministratore di diritto di una società è penalmente responsabile - o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino - anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sull'amministratore di diritto, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto (Sez. 3, 25/05/2011, n. 25047, Piga, Rv. 250677; Sez. 3, 06/04/2006, n. 22919, Furini, Rv. 234474).
Tale approdo giurisprudenziale fonda sul condivisibile rilievo che gli amministratori di società sono titolari di una posizione di garanzia, nel senso che su di loro comunque incombe, in presenza di un dovere giuridico di attivarsi per evitare che l'evento temuto si verifichi, l'obbligo di impedire l'evento pregiudizievole, anche se prodotto da una condotta costituente reato posta in essere da altri.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito come le componenti essenziali della posizione di garanzia, in cui versi il titolare dell'obbligo, siano, da un lato, una fonte normativa di diritto privato o pubblico che costituisca il dovere di intervento e, dall'altro, l'esistenza di un potere attraverso il corretto uso del quale il soggetto garante sia in grado di impedire l'evento (Sez. 4, 21/05/1998, n. 8217, Fornari ed altro, Rv. 212144), tanto sull'esatto presupposto che la norma dell'art. 40 capoverso cod. pen., secondo la quale non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, può e deve essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli artt. 2, 32, 41, comma secondo, della costituzione (Sez. 4, Sentenza 06/12/1990, n. 4793, dep. 29/04/1991, Bonetti, Rv. 191792).
Va dunque ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia individuato la posizione di garanzia dell'amministratore di società di capitali nell'art. 2392 cod. civ. secondo il quale sussiste la responsabilità degli amministratori quando essi, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
Sicché, al cospetto di una motivazione logica ed adeguata dal parte della Corte del merito circa la prova positiva di una concreta ingerenza della ricorrente negli affari della società, è del tutto azzardato affermare che la Z. fosse una semplice prestanome, completamente disinteressata agli andamenti aziendali e che tutti gli affari sociali fossero gestiti dalla madre senza implicazione di alcun genere da parte sua.
Tale è la ragione per la quale è del tutto improprio il riferimento contenuto nel ricorso alla sentenza n. 23425 del 2011 di questa Sezione dove, a prospettiva rovesciata, è stato affermato il principio, assolutamente non in contrasto con i precedenti, secondo il quale il rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando manca la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non abbia alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non sia in condizione di presentare la dichiarazione dei redditi non disponendo dei documenti contabili detenuti dall'amministratore di fatto.
Nel caso di specie, è infatti assente il presupposto (che la Z. cioè fosse prestanome della madre e che non avesse avuto alcun potere o ingerenza nella gestione della società) dal quale la ricorrente pretende scaturiscano le conseguenze di favore in punto di insussistenza dell'elemento materiale o psicologico del reato.
3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
La Corte territoriale ha infatti negato l'ingresso alla invocata rinnovazione del dibattimento in appello sul condivisibile presupposto che le emergenze processuali, ivi comprese le stesse dichiarazioni della Z., deponessero nel senso di escludere che la ricorrente fosse mero prestanome della madre.
Dovendosi ricordare come, in fatto, sia stata accertata l'ingerenza della ricorrente negli affari sociali e fondandosi il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello su una struttura argomentativa della motivazione basata su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (Sez. 6, del 16/07/2013, n. 30774, Trecca, Rv. 257741), la logica e congrua motivazione adottata in parte qua dalla Corte del merito si sottrae al sindacato di legittimità, con la conseguente manifesta infondatezza del motivo di ricorso.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 136 della Corte costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
05-04-2014 00:03
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