Imputato di diffamazione per aver inviato una email alla ditta che aveva realizzato dei lavori di ristrutturazione, addebitando incapacità, millanterie ed imperizie persino imbarazzanti. Per la Cassazione non c'è reato.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 marzo – 11 novembre 2014, n. 46458
Presidente Bruno – Relatore Micheli
Ritenuto in fatto
A.T. ricorre per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, in forza della quale è stata pronunciata la sua condanna alla pena di euro 400,00 di multa per il delitto di diffamazione, in ipotesi commesso in danno di G.F.; i fatti si riferiscono all'invio di una comunicazione e-mail (all'indirizzo di posta elettronica della segreteria della Gesco s.r.l., di cui il F. era amministratore unico) recante presunte frasi offensive, segnalando il T. l'intenzione di perseguire in giudizio il destinatario a causa di gravi imperizie palesate nel corso di lavori di ristrutturazione di un immobile, commissionati dallo stesso imputato, e nella quale si addebitavano incapacità, millanterie ed imperizie "persino imbarazzanti".
Il ricorrente formula due motivi di doglianza.
Con il primo, si lamentano carenze motivazionali della sentenza impugnata in punto di valutazione delle risultanze istruttorie, anche a proposito della presunta sussistenza del requisito della comunicazione con più persone, necessario per ravvisare il delitto contestato in rubrica.
Il T. fa presente di avere inviato la predetta e-mail all'indirizzo commerciale della società cui egli si era rivolto per l'esecuzione dei ricordati lavori, ergo esattamente alla persona giuridica con la quale era in corso un rapporto contrattuale: ciò comporta che non potrebbe intendersi sussistente il requisito della diffusione della frase offensiva dell'altrui reputazione, «essendo questa rimasta del tutto compresa all'interno della struttura cui la stessa comunicazione era indirizzata». Perciò, a nulla potrebbe rilevare la circostanza che più persone fisiche, operanti nell'ambito di quella struttura, ebbero modo di leggere la missiva, mirando il ricorrente soltanto a «raggiungere la società ed a questa manifestare [...] la propria insoddisfazione rispetto al rapporto d'opera mal eseguito».
Con il secondo, viene segnalato un ulteriore profilo di carenza di motivazione, nonché inosservanza ed erronea applicazione di legge penale, laddove il giudice di merito non ha inteso ravvisare gli estremi della scriminante del diritto di critica: essendo pacifiche le inadempienze della controparte, come emerso in sede civile, la tesi del T. è che egli volle «evidenziare le proprie giuste rimostranze rispetto ai lavori di ristrutturazione del proprio immobile, rispetto ai quali la perizia versata agli atti del dibattimento non ha fatto altro che confermare la presenza di plurimi vizi delle opere commissionate». Il ricorrente contesta altresì che possa assumere rilevanza penale la manifestazione della volontà di conferire mandato ad un legale per la tutela di un proprio diritto, vero o preteso che sia espressioni offensive, per quanto percepibili anche da soggetti ulteriori, erano infatti contenute in una comunicazione inviata all'indirizzo di posta elettronica della società cui l'imputato intendeva rivolgere il proprio disappunto, e dunque - almeno in prima battuta - a chi era preposto alla gestione della stessa. Inoltre, appare evidente che nella fattispecie si debbano ravvisare gli estremi di un legittimo diritto di critica, esercitato dall'odierno ricorrente: non è contestato che egli avesse concluso un contratto con la società di cui il querelante era amministratore, in vista dell'esecuzione di lavori di ristrutturazione di un immobile, ed in quel contesto l'imputato volle rappresentare che a suo avviso vi erano stati gravi inadempimenti. Coerentemente, manifestò il proposito di rivalersi in giudizio, stigmatizzando la condotta di chi si era presentato come soggetto esperto e qualificato per gli interventi commissionati quando la realtà aveva - sempre secondo la sua opinione - dimostrato il contrario.
L'imputato utilizzò senz'altro espressioni di forte censura, invocando la grossolanità delle imperizie che egli aveva ritenuto di riscontrare e parlando di incapacità e millanterie rispetto alla professionalità che gli era stata garantita, ma non può affermarsi che egli valicò i limiti della continenza, da intendere superati solo al cospetto di « espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato» (Cass., Sez. V, n. 15060 del 23/02/2011, Dessi, Rv 250174). Né può assumere rilievo il paventato intendimento di rivolgersi ad un legale e di agire in giudizio per ottenere la soddisfazione delle pretese vantate, non essendovi alcun elemento per poter ritenere che quelle doglianze fossero palesemente infondate e strumentali a perseguire un ipotetico profitto ingiusto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato.
12-11-2014 23:32
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