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Sentenza

Il PM fa ricorso per Cassazione quando e' maturata la prescrizione: ammissibile per la Cassazione.
Il PM fa ricorso per Cassazione quando e' maturata la prescrizione: ammissibile per la Cassazione.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 aprile – 23 luglio 2014, n. 32619
Presidente Fiandanese – Relatore Verga

Motivi della decisione

Con sentenza in data 18 febbraio 2013 la Corte d'appello di Bari in riforma della sentenza emessa il 13 gennaio 2009 dal locale Tribunale che aveva condannato P.P. e G.A. per concorso in rapina aggravata (capo A), violenza privata (capo B) e lesioni aggravate (capo C) in danno di D.R.S. e falso ideologico in atto pubblico (capo D) assolveva gli imputati dai reati di cui ai capi A, B e C e dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo D) perché estinto per intervenuta prescrizione.
Riteneva la corte territoriale che non vi era prova della sussistenza dei reati essendo intrinsecamente inattendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa, costituitasi parte civile, per discrasie evidenziate tra quanto riferito in denuncia e quanto dichiarato al P.M. nonché per contrasto con fonti di prova estrinseche di natura orale (testimonianza B.A. e C.O. ).
Ricorre per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Bari deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:
1. manifesta illogicità, carenza e contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova. Con riguardo alla discrasia evidenziata dalla corte territoriale tra le dichiarazioni rese dalla parte offesa in sede di denuncia e quelle rese al pubblico ministero afferente la questione se la materiale azione violenta in danno del D.R. sia stata tenuta da entrambi o da un solo poliziotto rileva il ricorrente che i giudici d'appello sono incorsi in un errore di metodologia esegetica delle dichiarazioni della parte offesa che conduce a delle conclusioni illogiche avendo confrontato narrazione di diverso grado descrittivo del fatto e da tale raffronto segnalato difformità ritenute valide a vulnerare l'attendibilità intrinseca del dichiarante. Il ricorrente rileva che dalla lettura dei verbali delle dichiarazioni della parte lesa emergono due livelli di descrizione dei fatti accaduti: uno di tipo generico in cui il D.R. dichiara di essere stato aggredito da entrambi i poliziotti; un altro più dettagliato con cui espone le sequenze dell'aggressione, dal quale si comprende chi in effetti lo ha materialmente percosso. Viene evidenziato che le due modalità di riferire i fatti si riscontrano non solo nel raffronto fra le dichiarazioni rese in tempi diversi ma anche nell'ambito della stessa denuncia resa ai carabinieri di Molfetta come pure in occasione delle informazioni assunte dal pubblico ministero il 7 marzo 2005. Sostiene il ricorrente che l'evidenziato errore metodologico inquina di illogicità l'argomento di inattendibilità intrinseca del dichiarante. Altrettanto illogico si atteggia l'ulteriore argomento assunto dalla corte d'appello per destabilizzare l'attendibilità intrinseca del denunciante. La Corte d'Appello omette di considerare se effettivamente la individuazione di G. come il poliziotto che ricevette il portafogli e quindi poi colpì il D.R. , sia caratterizzata da un grado di certezza capace di contrapporsi alle successive reiterate dichiarazioni di D.R. che, diversamente, in modo coerente e preciso, ha riferito che il portafogli gli venne inizialmente preso anzi gli venne strappato di mano dal poliziotto che aveva i capelli corti a spazzola, brizzolati ai lati e con i gradi, ossia da P. , il quale poi lo colpì con la torcia. Rileva altresì che i giudici d'appello hanno clamorosamente trascurato di prendere in esame quanto riferito dalla parte offesa immediatamente dopo aver descritto ai carabinieri le fattezze fisiche del poliziotto che ricevette il portafogli e quindi poi lo colpì. A domanda della polizia giudiziaria il D.R. ha infatti dichiarato: il semplice poliziotto durante la fase descritta fingeva di prendere appunti su un bloc-notes. A me comunque non hanno fatto sottoscrivere nulla. Sostiene che troppo superficiale e parcellizzato si rivela l'esame svolto dalla corte territoriale sulle dichiarazioni della parte offesa e rileva che non appare coerente con la logica ermeneutica estrapolare un frammento della dichiarazioni rese dai carabinieri e utilizzarlo come atto destabilizzante la credibilità del dichiarante e vulnerare così la portata probatoria della complessiva dichiarazione e di quelle successivamente rese ancor più quando quel frammento trovava immediata smentita nelle precisazioni date su quello che durante la fase descrittiva faceva il poliziotto semplice. Tesi ribadita anche in dibattimento a seguito di domande specifiche a lui rivolte sia dal pubblico ministero che dal presidente del tribunale quando ancora confermò di essere stato percosso solo da P. . In sintesi lamenta che la corte territoriale si è limitata a prendere atto della divergenza nel racconto senza però effettuare alcun doveroso esame sulla reale consistenza di siffatta divergenza;
2. illogicità della motivazione nella parte in cui fornisce, nell'ambito della affermazione della inattendibilità D.R. , argomenti volti a dimostrare che le dichiarazioni rese da quest'ultimo contrastano con quelle del vigilante B.A. . Secondo il ricorrente rimane inspiegato in cosa risieda in definitiva il conclamato evidente contrasto dal momento che la parte offesa, come richiamato dagli stessi giudici di secondo grado, non ha dato indicazione alcuna che induca a ritenere che quel colloquio con G. (in quel mentre seduto all'interno dell'auto di servizio parcheggiata in una stradina di accesso) potesse essere ascoltato dal metronotte, rimasto a sua volta all'interno della propria autovettura, impegnato a parlare con P. . Ha inoltre sottolineato che il G. nel corso dell'interrogatorio di garanzia ha riferito che in quel contesto quando era al posto di guida, la persona controllata lo supplicava di non redigere il verbale per non rovinarlo (si era messo in ginocchio ed aveva cominciato a piangere sbattendo le mani contro lo sportello). Quindi se il B. nulla di strano ha notato o sentito la conclusione non poteva che essere che la distanza era tale da non permettergli nemmeno di percepire questo particolare atteggiamento di D.R. , riferito dallo stesso G. . Contesta inoltre che le dichiarazioni del D.R. contrastino con quelle riferite dal teste C.O. escusso per la prima volta nel giudizio d'appello, su richiesta formulata dalla difesa di G. . Sostiene che la corte territoriale ha travisato la deposizione del C. laddove ha affermato che quella notte il D.R. subì delle lesioni, ma ha assunto che le stesse non potevano ascriversi all'imputato perché tra il controllo effettuato dai poliziotti e l'incontro con il C. , che per primo aveva apprezzato la presenza di lesioni trascorse un'apprezzabile lasso di tempo (circa due ore) durante le quali non poteva escludersi che il D.R. fosse stata vittima di un'aggressione da parte di persona nota come dal medesimo dichiarato al medico del pronto soccorso di (…). Evidenzia che quanto indicato è in contrasto con quanto offerto dal compendio probatorio. Il C. ha dato pieno riscontro a quanto sostenuto dalla parte offesa fin dalla denuncia presso la stazione dei carabinieri del 17 gennaio 2005 ossia di essere stato cercato dalle ore 1,00 presso quel comando dal D.R. al quale venne riferito che il C. era fuori per servizio. Il C. ha ricordato che quando poco prima delle 3,00 rientrò in caserma per gli adempimenti correlati ad un incidente stradale venne informato da militari che una persona lo cercava. Persona che si era subito dopo ripresentata in caserma.
Il responsabile civile Ministero dell'Interno depositava memoria con la quale chiedeva il rigetto del ricorso ritenendo che la Corte Territoriale aveva correttamente ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dalla parte offesa.
I motivi di ricorso presentati dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Bari sono fondati.
La ricostruzione delle vicende processuali, così come risulta dal testo delle sentenze dei giudici di merito dei due gradi di giudizio, raffrontata, per singole parti della sentenza impugnata, con i motivi di ricorso del Procuratore Generale ricorrente, evidenzia come sia stato inosservato l'obbligo motivazionale facente carico al giudice di secondo grado.
Se è vero che l'art. 546, comma 1, lett. e), prevede tra i requisiti della sentenza quello di una "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata", è pur vero che il disposto dello stesso articolo pone a carico del giudice di merito l'obbligo di "indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie", così come, per quanto concerne la valutazione delle prove, l'art. 192, comma 1, c.p.p., impone di dare "conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati". La concisione nella esposizione, pertanto, significa, con riferimento ai motivi di diritto, che il giudice non deve fare uno sfoggio di erudizione giuridica che non sia funzionale alla esplicitazione dei criteri adottati, e, con riferimento ai motivi di fatto, che nel testo della sentenza non deve trovare ingresso una pura e semplice elencazione delle risultanze dibattimentali, ma solo una sintesi valutativa degli elementi probatori, considerati singolarmente e nel loro insieme, e comparativa di quelli a favore e contro l'imputato. Solo una chiara, completa e articolata motivazione consente infatti al giudice di Cassazione di rilevare se e in quale punto della motivazione emerga il vizio dell'argomentazione.
Ciò detto deve rilevarsi con riferimento alla sentenza impugnata che il giudice di appello non ha proceduto ad una totale ricostruzione delle risultanze processuali al fine di valutarne il contenuto in modo difforme dal giudice di prima istanza, ma si è limitato ad enucleare dalle risultanze processuali descritte dal giudice di primo grado e non autonomamente ricostruite quelle che apparivano funzionali al successivo discorso critico contrastante con quello della sentenza appellata. Al giudice di legittimità, per potere effettuare il doveroso controllo sulla esistenza stessa o sulla manifesta illogicità della motivazione, non rimane perciò altro che riportarsi alla esposizione delle risultanze processuali, così come contenuta nella sentenza di primo grado e non compiutamente ed esattamente riportate nella sentenza di appello.
Deve aggiungersi che è giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 1A, 22/11/1993-4/2/1994, n. 1309, Albergamo, riv. 197250; Sez. 3A, 14/2- 23/4/1994, n. 4700, Scauri, riv. 197497; Sez. 2A, 2/3-4/5/1994, n. 5112, Palazzotto, riv. 198487; Sez. 2^, 13/11-5/12/1997, n. 11220, Ambrosino, riv. 209145; Sez. 6^, 20/113/3/2003, n. 224079). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest'ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall'appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure.
La totale riforma della sentenza di primo grado impone invece al giudice di appello,secondo una regola di giudizio, sempre ribadita da questa Corte (sez. 1^ sentenza n. 1381 del 10/02/1995, ud. 16/12/1994, PM C/Verderosa Rv. 201487; sez. 2^ 12.12.2002 n. 15756 PG in proc. contrada rv. 225564), la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incocrenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. L'alternatività della spiegazione di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano verosimile la conclusione di un "iter" logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche. Il supporto motivazionale di una decisione giurisdizionale per essere logico deve essere conforme ai canoni che presiedono alle forme corrette del ragionamento in direzione della dimostrazione della verità. In questo caso, dunque, il giudice di appello deve raffrontare il proprio decisum non solo con le censure dell'appellante, ma anche con il giudizio espresso dal primo giudice, che si compone sia della ricostruzione del fatto che della valutazione complessiva degli elementi probatori, nel loro valore intrinseco e nelle connessioni tra essi esistenti. È quindi indispensabile, ai fini di un persuasivo e completo giudizio di legittimità, rilevare il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione non solo dal testo della sentenza di appello, ma anche dal suo raffronto col testo della sentenza appellata, soprattutto quando il vizio investa la valutazione dell'intero quadro probatorio.
È insegnamento costante di questa Suprema Corte che, ai sensi dell'art. 192 c.p.p., non può dirsi adempiuto l'onere della motivazione ove il giudice si limiti ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi probatori, senza pervenire a quella valutazione unitaria della prova, che è principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni interpretativi dettati dalla norma stessa (Sez. Un., 4/2/92-4/6/1992, n. 6682, Musumeci, Riv. 191230; Sez. 6^, 28/9-3/11/1992, n. 10642, Runci, Riv. 192157; Sez. 6^, 25/6-5/9/1996, n. 8314, Cotoli, Riv. 206131). Nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione tutti e ciascuno degli elementi processualmente emersi, non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante, che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la verità del caso concreto. Viola tale principio il giudice, che abbia smembrato gli elementi processualmente emersi sottoposti alla sua valutazione, rinvenendo per ciascuno giustificazioni sommarie od apodittiche e omettendo di considerare se nel loro insieme non fossero tali da consentire la configurabilità in concreto del reato contestato. Ciò detto deve rilevarsi che i giudici d'appello nella sentenza impugnata si sono limitati ad affermare che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, le dichiarazioni della persona offesa, sulle quali ritengono che sostanzialmente si sia fondata l'affermazione di responsabilità degli imputati, non potevano considerarsi intrinsecamente credibili perché in contrasto con quanto riferito dal teste B.A. e perché vi era una rilevante difformità, afferente il nucleo essenziale dell'imputazione, tra il contenuto della denuncia sporta il 17 gennaio 2005 alle ore 12.30 e le dichiarazioni rese dalla vittima a sommarie informazioni innanzi al pubblico ministero 7.3.2005 e quelle rese al dibattimento e hanno ritenuto tale premessa assorbente qualsiasi ulteriore valutazione dei dati probatori emersi nel corso del procedimento, senza considerare che, come sottolineato dal ricorrente Procuratore Generale, dalle varie dichiarazioni della parte lesa emergono due livelli di descrizione dei fatti accaduti: uno, nella immediatezza, di tipo generico in cui il D.R. denuncia di essere stato aggredito da due poliziotti, fornendo però una specifica descrizione fisica degli stessi, nonché dei gradi, che ha consentito la loro certa identificazione; un altro più dettagliato (deposizione avanti il P.M. confermata in sede dibattimentale) con cui espone le sequenze dell'aggressione, dal quale si comprende il ruolo assunto da ciascuno nell'azione delittuosa (cfr. p. 10 sentenza 1^ grado) pur nella precisazione che i due poliziotti erano perfettamente d'accordo tra loro.
Così come non emerge un effettivo contrasto tra la sua ricostruzione dei fatti e quella resa dal teste B. considerato che la parte offesa, come richiamato dagli stessi giudici di secondo grado, non ha dato indicazione alcuna che induca a ritenere che quel colloquio con G. (in quel mentre seduto all'interno dell'auto di servizio parcheggiata in una stradina di accesso) potesse essere ascoltato dal metronotte, rimasto a sua volta all'interno della propria autovettura, impegnato a parlare con P. , e considerato anche che il G. nel corso dell'interrogatorio di garanzia aveva riferito che in quel contesto quando era al posto di guida, la persona controllata lo supplicava di non redigere il verbale per non rovinarlo (si era messo in ginocchio ed aveva cominciato a piangere sbattendo le mani contro lo sportello - pag. 19 sentenza di primo grado...). Quindi se il B. nulla di strano ha notato o sentito non può che ritenersi che si trovava ad una distanza tale da non permettergli nemmeno di percepire questo particolare atteggiamento di D.R. , riferito dallo stesso imputato G. . È il caso tuttavia di aggiungere che, con riguardo alla prova dichiarativa, la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente devono essere valutate unitariamente. Nel caso in esame invece i giudici d'appello sulla premessa dell'assenza di intrinseca attendibilità delle dichiarazioni del D.R. hanno ritenuto non necessaria la valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante e l'accertamento di dati obiettivi di riscontro ritenendo apoditticamente che l'unico dato certo che emergeva dalla vicenda in esame era solo quello che quella notte il D.R. ebbe a subire delle lesioni personali. Lesioni che, secondo i giudici d'Appello, non potevano essere ascritte agli odierni imputati anche perché tra il controllo effettuato dai prevenuti nei confronti del D.R. e l'incontro presso la compagnia carabinieri di Molfetta con il vicebrigadiere C. , che per primo apprezzò la presenza di tali lesioni, trascorse un apprezzabile lasso di tempo (circa due ore) durante il quale non poteva escludersi che il D.R. fosse stata vittima di un'aggressione da parte di altro soggetto, la persona "nota" da lui dichiarato al medico del pronto soccorso di Molfetta. Ricostruzione che però non tiene conto che il C. , escusso per la prima volta nel giudizio d'appello, ha riscontrato quanto detto dal D.R. sin dalla sua prima denuncia e cioè di essere stato cercato nella notte presso quel comando dal D.R. al quale fu riferito che il vicebrigadiere era fuori per servizio. Il C. ha ricordato che quando poco prima delle 3,00 rientrò in caserma per gli adempimenti correlati ad un incidente stradale venne informato da militari che una persona lo aveva cercato, e poco dopo si ripresentò il D.R. in evidente stato di agitazione, con il giubbotto tutto sporco e con il viso gonfio che gli riferì di essere stato picchiato e rapinato da quei due poliziotti formalmente denunciati la mattina successiva ed identificati negli attuali imputati grazie alla precise indicazioni rese dalla vittima nell'immediatezza.
Così come i giudici d'appello non hanno tenuto in considerazione le dichiarazioni rese dalla moglie del P. e la certa alterazione della scheda di identificazione del D.R. , reato per il quale vi è stata declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione.
Deve aggiungersi che i giudici di primo grado hanno ritenuto la responsabilità degli imputati sulla scorta dell'attendibilità intrinseca del D.R. dopo averlo sentito in dibattimento, mentre la Corte Territoriale ne ha affermato l'inattendibilità intrinseca attraverso una diversa lettura delle deposizioni in precedenza rese.
La Corte Edu (sentenza del 5 luglio 2011 nel caso Dan c/Moldavia) intervenuta in un caso in cui il giudice di primo grado non aveva ritenuto intrinsecamente attendibile il testimone principale, che riferiva su tutte le circostanze fondanti l'accusa, mentre il giudice di secondo grado, senza una nuova raccolta delle prove ma sulla sola base della lettura delle dichiarazioni rese in primo grado, ne aveva affermato la piena attendibilità, ha ritenuto un tale sistema non conforme alla Convenzione Edu perché un equo processo comporta che il giudice che deve utilizzare la dichiarazione di un testimone (in modo difforme da altro giudice) deve poterlo ascoltare personalmente e così valutarne la attendibilità intrinseca.
La pronuncia è un'ulteriore espressione del principio di immediatezza che si ritiene attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l'assunzione della prova e la decisione. Al fine di permettere una valutazione sull'attendibilità delle dichiarazioni si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova. È una regola non di carattere assoluto in quanto tale ascolto diretto deve avvenire "in linea di massima" perché "generalmente" la semplice lettura non risolve il compito complesso di valutazione della attendibilità intrinseca del testimone.
Si può affermare che la Corte Edu ha ritenuto che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l'innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni, ritenuti decisivi, personalmente per poterne valutare la loro attendibilità intrinseca. Valutazione dell'attendibilità che è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate. La disposizione che ha avuto applicazione giurisprudenziale con riguardo a reformatio in peius di una sentenza di assoluzione può trovare applicazione anche in casi come quello in esame dove l'attendibilità intrinseca del testimone principale affermata dai giudici di primo grado sulla scorta di un ascolto diretto in dibattimento è stata valutata in maniera difforme dai giudici di secondo grado che non hanno proceduto ad ascoltare il teste principale.
Se è vero che il principio tratto dalla richiamata sentenza Cedu è quello che laddove la prova essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non può procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali ma è tenuto, salvo possibili casi particolari, a raccogliere nuovamente la prova innanzi a sé per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità, è pur vero che tale principio, espressione dell'immediatezza del processo, deve trovare applicazione anche in casi in cui il diverso giudizio di attendibilità ha portato ad un giudizio di assoluzione in secondo grado, a maggior ragione a fronte della presenza di una parte privata, costituita parte civile, rispetto alla quale si assiste ad una sempre maggior tutela nell'ambito delle decisioni della Corte Europea (si veda in particolare sentenza 29.3.2011 ALIKAJ e altri contro ITALIA relativa ad un caso di dichiarata prescrizione del reato contestato a poliziotti che ha ritenuto che il sistema penale, così come è stato applicato nella fattispecie, non poteva generare alcuna forza dissuasiva idonea ad assicurare la prevenzione efficace di atti illeciti come quelli denunciati dai ricorrenti, parti civili nel processo penale, mostrando così di concepire la costituzione di parte civile non soltanto nell'interesse della parte lesa, ma anche nell'interesse pubblico della difesa sociale preventiva e repressiva contro il delitto e strumento per attenuare l'allarme sociale e soddisfare il desiderio di giustizia delle vittime).
La sentenza deve pertanto essere annullata con riferimento ai capi A) B) e C) della imputazione con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Bari per nuovo giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con riferimento ai capi A) B) C) dell'imputazione con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Bari per nuovo giudizio.
Avv. Antonino Sugamele

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