Estorsione. Sulla compatibilita' tra la contestazione dell'aggravante ed il delitto tentato.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 10 luglio – 2 settembre 2014, n. 36640
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 19 dicembre 2013 la Corte d'appello di Lecce, pronunciando quale giudice di rinvio a seguito della sentenza emessa in data 13 giugno 2013 dalla Corte di Cassazione, ha rideterminato, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lecce in data 4 marzo 2011, appellata da C.R., la pena inflittagli in anni quattro e mesi sei di reclusione ed euro 700,00 di multa; ha inoltre eliminato l'interdizione legale durante l'espiazione della pena e sostituito a quella perpetua l'interdizione temporanea dai pubblici uffici per anni cinque, confermando nel resto la sentenza impugnata e condannando il R. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili.
1.1. All'esito del giudizio di primo grado, il R. era stato ritenuto dal Tribunale di Lecce colpevole dei reati di cui agli artt. 110, 81 cpv., 56, 629, commi 1 e 2, 628, comma 3, nn. 1 e 3, 424, commi 1 e 2, c.p., 7 della l. n. 575/1965, commessi il 29 maggio 2009 in Surbo, con recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale, ed escluse le aggravanti di cui all'art. 628, comma 3, c.p., tenuto conto della contestata recidiva e della continuazione, era stato condannato alla pena di anni cinque, mesi otto di reclusione ed euro 850,00 di multa, oltre alle pene accessorie ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.
Con sentenza del 28 marzo 2012 la Corte d'appello di Lecce aveva ridotto la pena ad anni cinque di reclusione ed euro 700,00 di multa, confermando nel resto.
Con la su indicata sentenza del 13 giugno 2013, inoltre, la Corte di Cassazione ha annullato la pronuncia di secondo grado limitatamente all'aggravante di cui all'art. 7 della l. n. 575/1965, rinviando ad altra sezione della Corte d'appello di Lecce per nuovo giudizio sul punto.
2. Avverso la su indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo due motivi di doglianza, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Violazione di legge e vizi motivazionali con riferimento all'aggravante di cui all'art. 7 della l. n. 575/1965, avendo la Corte d'appello erroneamente ritenuto la compatibilità tra la contestazione dell'aggravante su indicata ed il delitto tentato, sebbene vi fosse una risalente pronuncia della Suprema Corte che la escludeva.
2.2. Violazioni di legge e vizi motivazionali con riferimento agli artt. 63, comma 4, 62-bis e 133 c.p., avendo la Corte d'appello operato in modo del tutto irragionevole il doppio aumento per le due circostanze aggravanti ad effetto speciale della recidiva e dell'art. 7 della l. n. 575/1965. Al riguardo, infatti, è stato operato un aumento considerevole, valorizzando in chiave negativa circostanze che già avevano determinato altrove un giusto apprezzamento (per il diniego delle attenuanti generiche, per l'applicazione della recidiva e per il calcolo della pena), con effetto moltiplicatore nella determinazione della sanzione detentiva. Censurabile, infine, deve ritenersi il denegato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato per le ragioni di seguito indicate.
4. Non meritevole di accoglimento deve ritenersi la prima doglianza, alla luce di un condivisibile orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte (Sez. 5, n. 809 del 17/02/2000, dep. 13/04/2000, Rv. 216457), secondo cui la circostanza aggravante prevista dall'articolo 7 della L. 31 maggio 1965, n. 575 (in tema di misure di prevenzione e antimafia) e successive modifiche, si applica ai reati contemplati dalla predetta disposizione anche nell'ipotesi in cui il reato sia rimasto allo stadio del tentativo.
Non può essere condivisa, infatti, la diversa linea interpretativa, pur in precedenza seguita nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui "l'analitica previsione normativa dei reati cui l'aggravante in parola è applicabile contempla esclusivamente la figura dei reato consumato, senza possibilità di estensione al tentativo, che costituisce una figura autonoma a sè stante, caratterizzata da una propria oggettività e da una propria struttura" (Sez. 2, n. 7849 del 15/03/1985, dep. 04/09/1985, Rv. 170283).
Se è vero, infatti, che l'autonomia del tentativo rispetto al reato consumato costituisce un principio oramai consolidato in dottrina ed in giurisprudenza, e che il delitto tentato costituisce già un reato perfetto, presentando tutti gli elementi necessari e sufficienti per l'esistenza di un reato, con l'estrinsecazione di una condotta che ha già manifestato compiutamente tutta la propria carica di disvalore, ciò non significa, tuttavia, che quando la legge penale richiama, per determinati effetti, la fattispecie "principale", senza alcun riferimento alle figure della consumazione e/o del tentativo, la disposizione attenga sempre e soltanto al reato consumato.
Seguendo la prospettiva tracciata dal più recente orientamento espresso da questa Suprema Corte (Sez. 5, n. 809 del 17/02/2000, dep. 13/04/2000, cit.), è opportuno, invece, ricercare di volta in volta l'intenzione del legislatore, identificandone la 'ratio', onde stabilire se nella specifica disposizione normativa in questione possa dirsi ricompresa o meno l'ipotesi del tentativo.
Nel caso in esame, per vero, tale operazione interpretativa risulta assai agevole, poiché l'inasprimento di pena previsto dalla su menzionata disposizione trova la sua ragione giustificativa nell'avvertita necessità di contrastare in maniera più decisa ed efficace, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, il comportamento di coloro che, colpiti da un provvedimento di applicazione della misura di prevenzione, non indugiano a commettere reati di particolare natura (tra i quali quello di estorsione).
Siffatta carica di disvalore è riscontrabile, indiscutibilmente, anche nel tentativo di tali delitti, tenuto conto del fatto che consumazione e tentativo riflettono rispettivamente la lesione effettiva e la lesione potenziale dello stesso bene oggetto di tutela, onde la 'ratio' della norma induce a ritenere che l'aggravante riguardi anche il tentativo, restando in tal modo salvaguardato il principio di legalità penale. Tale soluzione, dei resto, risulta pienamente conforme al principio generale di diritto per il quale ineriscono al tentativo tutte le circostanze che, come quella di cui si discute, attenendo ad una particolare qualificazione dell'agente, riguardano elementi preesistenti o concomitanti all'esecuzione del reato.
Sul punto, infatti, la Corte di merito ha evidenziato che l'imputato ha posto in essere il reato di tentata estorsione ascrittogli (v., supra, il par. 1.1.) fino al 29 maggio 2009, ossia entro il periodo di tre anni dal momento in cui è cessata nei suoi confronti l'applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno, disposta dal Tribunale di Lecce e confermata dalla Corte d'appello di Lecce con provvedimento del 20 giugno 2007.
5. Parimenti infondata deve ritenersi la seconda censura difensiva, avendo la Corte d'appello correttamente applicato la disposizione di cui all'art. 63, comma 4, c.p.p., uniformandosi al quadro dei principii stabiliti da questa Suprema Corte (Sez. Un., n. 20798 dei 24/02/2011, dep. 24/05/2011, Rv. 249664), secondo cui la recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale quando comporta un aumento di pena superiore ad un terzo e pertanto soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell'applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, pur quando l'aumento che ad essa segua sia obbligatorio, per avere il soggetto, già recidivo per un qualunque reato, commesso uno dei delitti indicati all'art. 407, comma secondo, lett. a), cod. proc. pen..
Nel caso in esame, applicato l'aumento obbligatorio di due terzi previsto per la contestata recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale di cui ai commi quarto e quinto dell'art. 99 c.p., la pena è stata ulteriormente aumentata in conseguenza della riconosciuta circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall'art. 7 della I. n. 575/1965, la cui concreta determinazione è stata dalla Corte d'appello congruamente ed esaustivamente motivata sulla base del criterio di riferimento relativo alla particolare gravità del reato, commesso in danno di amministratori pubblici ed avvalendosi del contributo di soggetti minorenni, in tal modo esplicitando le ragioni giustificative dell'esercizio del proprio potere discrezionale, con uno specifico apprezzamento di merito conforme ai criteri di legge e come tale non sottoponibile ad alcuna censura in questa Sede (cfr. Sez. 6, n. 19541 del 24/11/2011, dep. 23/05/2012, Rv. 252848).
Inammissibile, infine, l'enunciata doglianza relativa al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche, trattandosi di un profilo valutativo non oggetto del giudizio di rinvio, per essere stato già delibato da questa Suprema Corte con la su citata sentenza n. 40558 del 13 giugno 2013.
6. Al rigetto del ricorso, conclusivamente, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ex art. 616 c.p.p.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
04-09-2014 21:20
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