Dipendente comunale rimane in ufficio ed utilizza il terminale destinato alla gestione dell’impianto di pubblica illuminazione comunale, per navigare online, accedendo a siti pornografici e pedopornografici. Si tratta di appropriazione indebita ed interruzione di pubblico servizio.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 21 marzo – 25 giugno 2014, n. 27528
Presidente Petti – Relatore Verga
Motivi della decisione
Con sentenza in data 3 dicembre 2013 la Corte d'appello Bari confermava la sentenza del Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta che il 19 giugno 2007 che aveva condannato G.L. per appropriazione indebita aggravata dall'articolo 61 numero 11 codice penale e interruzione di pubblico servizio.
Riteneva la corte territoriale che l'attività illecita posta in essere dall'imputato integrava, sotto il profilo storico materiale, gli estremi dei reati contestati. L'imputato nella sua qualità di dipendente si era appropriato della linea telefonica della Multiservizi di S.p.A. e del collegamento via Internet determinando un evidente pregiudizio economico per la società per la quale prestava la propria attività. Egli inoltre aveva distolto le apparecchiature informatiche, operative 24 ore su 24 in quanto utilizzate per il monitoraggio degli impianti di pubblica amministrazione, dalla telegestione cui erano preposte, interrompendo, per la durata degli illeciti collegamenti, il servizio pubblico.
Ricorre per cassazione l'imputato deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:
1. violazione di legge processuale con riferimento agli articoli 189,190,266 266 codice di procedura penale sostiene che non possono essere considerate prove documentali ex articolo 234 le videoriprese eseguite da un privato della propria struttura aziendale dopo che ha sporto querela e si sia aperto un procedimento penale, seppure a carico di ignoti;
2. mancanza e contraddittorietà della motivazione. Rileva che manca nel capo di imputazione l'indicazione dell'oggetto della propria azione. Lamenta che l'utilizzo del computer non ha determinato alcun danno alla società. Sostiene che non vi sono i presupposti per la sussistenza dei reati contestati;
3. violazione di legge con riguardo all'articolo 4 legge 260/1198. Sostiene che in maniera del tutto apodittica la corte territoriale ha affermato che i filmati e le immagine erano pedopornografici. Lamenta l'assenza dell'elemento soggettivo del reato.
4. contesta l'eccessività della pena.
L'Avv. O.A., difensore di fiducia del ricorrente, depositava dichiarazione di adesione all'astensione dalle udienze deliberata dall'organismo unitario dell'avvocatura italiana e chiedeva differimento dell'udienza. Il collegio, rilevato che l'istante non ha dimostrato di aver comunicato agli altri avvocati costituiti la propria dichiarazione di astensione, in ottemperanza a quanto previsto dal già citato art. 3, comma 1 lett. b) cod. autoreg. rigetta l'istanza di rinvio.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Per la soluzione della questione occorre prendere le mosse dalla pronuncia delle Sezioni Unite nella sentenza 28-3-2006 n. 26795, nella quale - con riferimento alla materia delle videoregistrazioni - , è stata rimarcata la distinzione esistente tra "documento" e "atto del procedimento" oggetto di documentazione.
In tale decisione è stato chiarito che le norme sui documenti, contenute nel codice di procedura penale, sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori (anche se non necessariamente prima) del processo. Nel caso in esame, come indicato dai giudici di merito, si tratta di captazioni visive effettuate dal privato, di propria iniziativa, all'interno dell'edificio di propria spettanza, e quindi correttamente le immagini sono state acquisite ai sensi dell'art. 234 c.p.p.
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
E' stato accertato, così come contestato, che l'imputato approfittando dell'assenza dell'addetto all'ufficio ed avendo la disponibilità dei locali anche al termine delle attività di ufficio, invece di provvedere unicamente alle pulizie avesse scelto di utilizzare il computer per visitare siti pedopornografici.
È irrilevante il fatto che, a dire dell'imputato, la parte offesa non avrebbe avuto danni perché la società aveva stipulato un contratto flat con la società Fastweb che comportava un unico e solo costo (periodico) per l'azienda.
Il fatto, così come ricostruito, si è sostanziato non nell'uso dell'apparecchio telefonico come oggetto fisico, ma nell'appropriazione delle energie costituite da impulsi elettronici che erano entrate a far parte del patrimonio della parte offesa. Ne consegue che tale condotta integra l'ipotesi contestata di appropriazione indebita.
Tale conclusione è in linea con la giurisprudenza pressoché costante di questa Suprema Corte in materia di peculato (cfr. Cass. sez. 6^, 23/10/2000 n. 3879; sez. 6^, 9/5/2006 n. 25273; sez. 6^, 26/2/2007 n. 21335).
E' altresì indubbio che l'agente si sia rappresentato e voluto l'ingiustizia del profitto realizzato (visione di siti pedopornografici utilizzando un collegamento internet di proprietà di terzi).
Così come correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che l'imputato, distogliendo il computer dalla gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale per destinarlo all'accesso ai siti pornografici, ha interrotto per la durata dei collegamenti illeciti, il servizio di monitoraggio svolta nell'interesse pubblico, realizzando il reato contestato di cui all'articolo 340 codice penale.
Anche il terzo motivo di ricorso è infondato. I giudici di merito, con un accertamento in fatto, incensurabile in questa sede hanno affermato che il materiale relativo allo sfruttamento minorile non solo fu visualizzato ma anche acquisito nella cartella dei files temporanei di internet.
La doglianza in punto pena è manifestamente infondata perché generica. Il ricorrente si limita a contestare l'eccessività della pena senza considerare che il giudice ha indicato in sentenza tutti gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p.
Il ricorso deve pertanto essere respinto. Deve però rilevarsi che i reati contestati si sono, medio tempore, estinti per intervenuta prescrizione (3.2.2013). Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché i reati ascritti al G. si sono estinti per prescrizione. Devono essere confermate le statuizioni civili.
P.Q.M.
Respinta l'istanza di rinvio. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i reati ascritti si sono estinti per prescrizione. Conferma le statuizione civili.
26-06-2014 06:25
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