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Sentenza

Abusivismo finanziario, truffa e appropriazione indebita.
Abusivismo finanziario, truffa e appropriazione indebita.
Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-04-2014) 07-05-2014, n. 18775
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIANDANESE Franco - Presidente -

Dott. RAGO Geppino - Consigliere -

Dott. LOMBARDO Luigi - Consigliere -

Dott. VERGA Giovanna - Consigliere -

Dott. PELLEGRINO Andrea - est. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.P.E.M., n. a (OMISSIS), rappresentato e assistito dall'avv. Bertolino Pierfranco;

e di:

F.L., n. a (OMISSIS);

M.M., n. a (OMISSIS);

entrambi rappresentati e assistiti dall'avv. Ventura Marco;

avverso la sentenza della Corte d'Appello di Torino, prima sezione penale, n. 3244/2012 in data 24.10.2013;

rilevata la regolarità degli avvisi di rito;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Pellegrino Andrea;

sentite le conclusioni del Sostituto procuratore generale Dott. Baldi Fulvio che ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi nonchè la discussione dell'avv. Placanica Cesare, in sostituzione dell'avv. Ventura Marco, che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo

1. Agli odierni ricorrenti venivano contestati i sotto indicati reati:

- a R.P.E.M., l'abusivismo finanziario continuato ex art. 81 cpv. c.p., D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. a) (capo A); la truffa e l'appropriazione indebita continuate ed aggravate dal danno patrimoniale di rilevante entità e dall'abuso di prestazione d'opera ai sensi degli artt. 81 cpv., 640 e 646 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11 (capo B);

- a F.L. e a M.M., il concorso in ricettazione, il riciclaggio e l'impiego di denaro di provenienza illecita continuati ai sensi degli artt. 110, 81 cpv., 648, 648 bis e 648 ter c.p. (capo C).

2. Con sentenza in data 21.07.2011, il Tribunale di Torino dichiarava il R. responsabile dei reati di cui ai capi A) e B) commessi successivamente al (OMISSIS) e, unificati gli stessi sotto il vincolo della continuazione e con la contestata recidiva, lo condannava alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa; con la medesima sentenza, il Tribunale di Torino dichiarava il F. e la M. responsabili del reato previsto e punito dagli artt. 81 cpv. e 648 bis c.p., loro contestati al capo C), ipotesi ritenuta speciale rispetto alle altre due contestate, così modificata l'originaria imputazione, ed unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, li condannava alla pena di anni cinque di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa ciascuno.

Nei confronti di tutti gli imputati veniva disposta l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e la condanna generica al risarcimento dei danni, con rigetto della domanda di provvisionale; veniva altresì pronunciata sentenza di non doversi procedere contro il R. in relazione ai capi A) e B) per intervenuta prescrizione delle condotte commesse sino alla data del (OMISSIS).

3. Con sentenza in data 24.10.2013, la Corte d'Appello di Torino, in riforma della pronuncia di primo grado, riconosceva a favore delle parti civili B.N., C.L. e B. L. una provvisionale di Euro 75.000,00 a carico solidale degli imputati F. e M., con conferma nel resto della pronuncia di primo grado.

4. Avverso la sentenza d'appello venivano proposti distinti ricorsi per cassazione, il primo nell'interesse del R., il secondo nell'interesse del F. e della M..

5. Con il proprio ricorso, il R. lamenta:

- la violazione di legge e la mancanza di motivazione in ordine all'ordinanza pronunciata in data 10.06.2010, asseritamente affetta da nullità come tutti gli atti conseguenti, con la quale il Tribunale aveva disatteso l'istanza difensiva di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento del difensore impegnato in concomitante attività professionale (primo motivo);

- inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 81 cpv. c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati oggetto del presente processo ed il delitto di appropriazione indebita pluriaggravato commesso sino al (OMISSIS), reato, quest'ultimo, per il quale il R. era stato condannato con sentenza del Tribunale di Torino in data 13.10.2003, irrevocabile in data 16.11.2004 (secondo motivo); - omessa motivazione con riferimento al mancato assorbimento della fattispecie (capo A) di abusivismo finanziario ex D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, lett. a) nel reato di truffa (capo B) ex art. 640 c.p. (terzo motivo).

6. Con il proprio ricorso, il F. e la M. lamentano:

- l'incompetenza territoriale dell'adita autorità giudiziaria (primo motivo);

- la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione (secondo motivo);

- la violazione di legge in relazione all'art. 648 bis c.p., il vizio di motivazione per mancanza o manifesta illogicità della motivazione (terzo motivo);

- la violazione di legge in relazione all'art. 648 bis c.p., comma 3 (quarto motivo);

- l'illogicità della motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche a favore della M. (quinto motivo).
Motivi della decisione

7. I ricorsi sono manifestamente infondati e, come tali, immeritevoli di accoglimento.

8. Prima di passare alla trattazione dei singoli motivi di doglianza, si rende doveroso premettere come lo sviluppo argomentativo della motivazione della sentenza impugnata, da integrarsi con quella di primo grado, risulti fondato su una coerente analisi critica degli elementi di prova e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l'attribuzione a detti elementi del requisito della sufficienza, rispetto al tema di indagine concernente, primariamente, la responsabilità dei ricorrenti in ordine ai reati loro contestati. La motivazione della sentenza impugnata supera quindi il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, alla quale non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva dei ricorrenti, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Di contro, le censure genericamente proposte dai ricorrenti si profilano inammissibili posto che, con le stesse, si muovono - in gran parte - non già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma solo doglianze di merito, non condividendosi dai ricorrenti le conclusioni attinte ed anzi proponendosi versioni più persuasive di quelle dispiegate nella sentenza impugnata.

Al riguardo, non appare superfluo ricordare come, in tema di sindacato del vizio della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire - nell'ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato - se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (cfr. Cass., Sez. Un., n. 930 del 29/01/1996; Cass., Sez. 1, n. 12496 del 04/11/1999). In tale prospettiva, con tranquillante uniformità, si afferma che la Suprema Corte non può fornire una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, nè può stabilire se questa propone la migliore ricostruzione delle vicende che hanno originato il giudizio, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione della scelta adottata in dispositivo sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento".

Orbene, il sindacato sulla motivazione della sentenza impugnata, condotta in base ai criteri innanzi enunciati, impone di ritenerla esente da vizi. Inoltre, su tutte le censure oggetto dei presenti gravami, la Corte territoriale offre ampia e congrua giustificazione.

9. Il ricorso del R..

Con il primo motivo di doglianza, si censura la violazione di legge e la mancanza di motivazione in ordine all'ordinanza pronunciata in dota 10.06.2010, asseritamente affetta da nullità come tutti gli atti conseguenti, con la quale il Tribunale aveva disatteso l'istanza difensiva di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento del difensore impegnato in concomitante attività professionale, nella specie avanti al Tribunale di Sorveglianza di Milano. Evidenzia l'istante come la Corte territoriale avesse omesso di considerare che, avanti al Tribunale di Sorveglianza (il cui rito è disciplinato dall'art. 678 c.p.p., comma 1 che, rinviando all'art. 666 c.p.p., prevede in via generalizzata - quale modello procedimentale - quello dell'udienza camerale cosiddetta partecipata), la difesa non avrebbe potuto chiedere di far valere il legittimo impedimento dovuto al concomitante impegno professionale costituito dalla partecipazione al processo innanzi al Tribunale di Torino. Richiama al riguardo taluni precedenti giurisprudenziali (da ultimo, Cass., Sez. 1, n. 46007 del 19/09/2013 - dep. 15/11/2013, Ghafir, con riferimento alla diversa ipotesi di istanza di rinvio dovuta all'adesione del difensore all'astensione collettiva deliberata dagli organi di categoria), che evidenziano come la disposizione dell'art. 666 c.p.p., comma 3, stabilisca che la trattazione del procedimento avvenga in camera di consiglio con la partecipazione delle parti e, analogamente a quanto si verifica in tutti i casi nei quali il legislatore, nel prescrivere che si proceda "in camera di consiglio", senza aggiungere una regolamentazione specifica, ometta di richiamare testualmente le prescrizioni dell'art. 127 c.p.p., con conseguente applicabilità per relationem al procedimento in parola delle formalità stabilite da detta norma. Ciò posto, secondo la citata pronuncia, dalla natura camerale partecipata del giudizio, discende l'inapplicabilità della disciplina di cui all'art. 484 c.p.p., comma 2 bis, e art. 420 ter c.p.p., comma 5, così come introdotti dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, secondo le quali, a fronte di legittimo impedimento del difensore, prontamente comunicato e documentato, il procedimento va sospeso o rinviato: disciplina prevista per il solo giudizio di cognizione di primo grado, estensibile ai giudizi di appello, di cassazione, di revisione ed al procedimento minorile in forza dei richiami disposti da specifiche norme. Per contro, in mancanza di una esplicita disposizione legislativa che operi analogo richiamo per il procedimento in camera di consiglio e soprattutto per quello di sorveglianza, così come per quelli di esecuzione e di applicazione di misure di prevenzione, tutti sottoposti alla regolamentazione degli artt. 666 e 678 c.p.p., la richiesta di differimento dell'udienza davanti a Tribunale di Sorveglianza per adesione del difensore all'astensione collettiva dalle udienze non impone il rinvio ad altra udienza, atteso che non è prescritta a pena di nullità la presenza del difensore, sentito soltanto se comparso e comunque sostituibile mediante un patrocinatore, designato d'ufficio tra quelli prontamente reperibili. E' dunque sufficiente - prosegue la Corte - per la corretta instaurazione del contraddittorio, che l'istante ed il suo legale abbiano ricevuto notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza, mentre l'eventuale assenza del difensore non assume rilievo pregiudizievole per la validità degli atti processuali compiuti (in tal senso si è espresso autorevole orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte con la pronuncia n. 31461 del 27/6/2006, Passamani, rv. 234146; conforme, tra le tante, Cass., Sez. 6, n. 14396 del 19/2/2009, PO in proc. Leoni, rv.

243263).

Fermo quanto precede, rileva il Collegio come l'applicazione del condivisibile orientamento giurisprudenziale sopra citato non possa determinare le "conseguenze" invocate dall'istante secondo il quale, la "mancanza di alternative" imposte dal sostanziale divieto di valutare la differibilità del procedimento avanti al Tribunale di Sorveglianza per l'impossibilità di procedere al giudizio "comparativo" dettato dall'art. 420 ter c.p.p., comma 5, avrebbe dovuto necessariamente consentire (o meglio, imporre) il differimento del processo ordinario avanti al Tribunale di Torino a ragione del dimostrato concomitante impegno professionale del difensore.

Invero, proprio l'argomentare della succitata pronuncia evidenzia come - in ogni caso - l'assenza del difensore avanti al Tribunale di Sorveglianza, non avrebbe comunque consentito (nè, tantomeno, imposto), attraverso la valutazione di cui al citato art. 420 ter c.p.p., comma 5, un rinvio di quella udienza attesa la cameralità del rito e la consequenziale facoltatività della presenza del difensore; di contro, ritiene il Collegio come corrette siano state le valutazioni operate dal Tribunale di Torino (prima) e dalla Corte d'appello (poi) in ordine alla non concedibilità del differimento del presente processo essendosi in quelle sedi doverosamente valutati - in senso negativo - tutti i parametri fissati dalla giurisprudenza in ordine alla valutazione comparativa dei diversi impegni al fine di contemperare le esigenze della difesa con quelle della giurisdizione, giudizio compiuto attraverso l'effettivo accertamento della prevalenza dell'impegno privilegiato dal difensore per le ragioni rappresentate nell'istanza e da riferire alla particolare natura dell'attività cui occorre presenziare, alla mancanza o assenza di un codifensore nonchè all'impossibilità di avvalersi di un sostituto a norma dell'art. 102 c.p.p., (cfr., Cass., Sez. un., n. 29529 del 25/06/2009-dep. 17/07/2009, P.G. in proc. De Marino, rv. 244109).

Con il secondo motivo di doglianza, si censura l'inosservanza e l'erronea applicazione dell'art. 81 cpv. c.p. nonchè la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati oggetto del presente processo ed il delitto di appropriazione indebita pluriaggravato commesso sino al (OMISSIS), reato, quest'ultimo, per il quale il R. era stato condannato con sentenza del Tribunale di Torino in data 13.10.2003, irrevocabile in data 16.11.2004.

Anche questa censura è assolutamente infondata in presenza di motivazione esauriente, logica, non contraddittoria, come tale esente da vizi rilevabili in questa sede.

Invero, la Corte territoriale, in linea con la giurisprudenza di questa Suprema Corte che riconosce come l'omogeneità delle violazioni, sebbene possa essere indicativa di una particolare attitudine del soggetto a commettere azioni criminose della stessa indole, non consente da sola di ritenere che i diversi reati siano frutto di determinazioni volitive risalenti ad un'unica deliberazione di fondo (Cass, Sez. 3, n. 21496 del 02/05/2006-dep. 21/06/2006, Moretti, rv. 235523), evidenzia come, sebbene tra il reato oggetto del pregresso giudicato e quelli oggetto del presente giudizio, vi fossero delle analogie, tuttavia le stesse non consentivano di ritenere integrata la prova dell'esistenza di un previo disegno criminoso per varie ragioni. Si legge al riguardo in sentenza: "...

anzitutto, la condotta appropriativa oggetto del giudicato attiene ad un momento storico in cui il R.P.E.M. agiva come funzionario della "Banca Popolare di Novara", mentre quella ora da giudicare vede lo stesso imputato ingannare i propri "clienti" sulla sua abilitazione vuoi a "svolgere servizi di investimento e di gestione collettiva del risparmio" vuoi ad esercitare l'attività di "promotore finanziario". Secondariamente, appare arduo ritenere che l'imputato già quando era funzionario del predetto Istituto di credito avesse concepito il piano (di) continuare la sua attività previa presentazione di dimissioni e quindi assunzione della qualifica di promotore che avrebbe successivamente perduto. In terzo luogo, sarebbe occorsa una prova rigorosa di tale preesistente piano criminoso poichè l'attività illecita di cui oggi si discute è posteriore al passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento che aveva definito quella precedente: invero, è infrequente (fortunatamente) che un soggetto decida previamente di perseverare nel suo piano criminoso anche dopo che sarà condannato con sentenza irrevocabile per analoghi pregressi comportamenti. Ebbene, e differentemente da quanto opina la difesa, tale prova rigorosa non può essere certo costituita dal memoriale tardivamente presentato dal R. al dibattimento di primo grado nel quale si rammarica di non aver rappresentato al pubblico ministero nell'immediatezza che, appunto, le condotte tenute nei confronti dei B., della Ca., della Fe., etc. erano state da lui decise, quanto meno nei loro termini generali, già quando era occupato ad appropriarsi delle disponibilità della famiglia V. (ndr., fatto già giudicato) ...". Fermo quanto precede, ritiene il Collegio che se è vero che la condanna intervenuta per uno o più reati commessi non interrompe automaticamente l'unicità del disegno criminoso tra tali reati ed altri successivamente commessi (Cass., Sez. 1, n. 5266 del 02/12/1993-dep. 17/02/1994, Parenti, rv. 196527), è altrettanto vero che l'aspetto soggettivo del reato continuato è costituito dall'elemento intellettivo e cioè dalla previsione di una sequenza ordinata di azioni criminose rispondenti a determinate finalità dell'agente e dall'elemento volitivo consistente nel coagulo a livello delle facoltà volitive del progetto criminoso, in una specifica volizione volta per volta (Cass., Sez. 1, n. 597 del 28/01/1997-dep. 04/04/1997, Arena, rv. 207211).

Se, pertanto, la continuazione consiste in un atteggiamento psicologico al quale, sul piano probatorio, debbono corrispondere condotte oggettive compatibili con il disegno programmato, la sua esistenza non può essere negata o ammessa in base a considerazioni astratte o generiche, ma deve essere accertata o esclusa caso per caso in relazione alle modalità concrete oggettive e soggettive di commissione dei reati dei quali si chiede l'unificazione. Nella fattispecie, l'esclusione dell'invocato vincolo è stata correttamente valutata dai giudici di merito ed esclusa con motivazione del tutto congrua e priva di vizi logico-giuridici.

Con il terzo motivo di doglianza, si censura l'omessa motivazione con riferimento al mancato assorbimento della fattispecie (capo A) di abusivismo finanziario ex D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, lett. a) nel reato di truffa (capo B) ex art. 640 c.p.. Anche questa censura è manifestamente infondata in presenza di motivazione, operata dalla Corte territoriale con integrale richiamo per relationem alla pronuncia di primo grado, anche in questo caso del tutto congrua ed esente da vizi logico-giuridici.

I giudici di merito, in ossequio alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, hanno osservato come integri il reato di abusivismo, previsto dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 166, la condotta del promotore finanziario che, anzichè limitarsi ai compiti a lui ordinariamente spettanti (quali la promozione dei prodotti finanziari e le connesse attività materiali volte a favorire la conclusione del contratto tra cliente e intermediario, per conto del quale opera, nonchè la limitata attività di consulenza, intesa ad orientare le scelte del risparmiatore), stipuli con il cliente un contratto di gestione degli investimenti finanziari e percepisca le somme all'uopo destinate.

Il reato in questione può concorrere con il reato di truffa, stante la sostanziale differenza esistente tra le due fattispecie, in quanto l'abusivismo è reato di pericolo, inteso a tutelare l'interesse degli investitori a trattare soltanto con soggetti affidabili nonchè l'interesse del mercato mobiliare, nel suo complesso e nei suoi singoli operatori, ad escludere la concorrenza di intermediari non abilitati; la truffa, invece, è reato di danno, che, per la sua esistenza, richiede l'effettiva lesione del patrimonio del cliente, per effetto di una condotta consistente nell'uso di artifizi o raggiri e di una preordinata volontà di gestire il risparmio altrui in modo infedele (Cass., Sez. 5, n. 22419 del 02/04/2003-dep. 21/05/2003, Castelli, rv. 224951; Cass., Sez. 2, n. 42085 del 09/11/2010-dep. 26/11/2010, Allegri, rv. 248510).

Ne consegue che, una volta che i risparmi dell'altro contraente siano immessi nel mercato mobiliare, dal soggetto non abilitato - e, quindi da soggetto idoneo a ledere l'interesse dell'investitore, del complessivo interesse del mercato mobiliare e dei singoli operatori - non ha rilevanza in quale modo, fedele o infedele, sia avvenuta la gestione dei risparmi degli investitori. Peraltro, il mancato investimento o, comunque, l'infedele gestione dei risparmi del contraente può - come detto - costituire condotta integrante l'ipotesi del reato di truffa (cfr., Cass., Sez. 5, n. 22597 del 24/02/2012-dep. 11/06/2012, Cattabiani, rv. 252958).

10. Il ricorso di F. e di M..

Con il primo motivo di doglianza, si censura l'incompetenza territoriale dell'adita autorità giudiziaria.

Anche questa doglianza è manifestamente infondata in presenza di motivazione del tutto congrua ed esente da vizi logico-giuridici.

Ricorda la Corte territoriale, l'arresto giurisprudenziale secondo cui la previsione di cui all'art. 648 bis c.p. individua quale tipica modalità operativa del riciclaggio "la sostituzione" cioè la consegna di un bene al riciclatore in cambio di uno diverso, sicchè il reato integrato con tale modalità si consuma solo con il perfezionamento della sostituzione e dunque con la restituzione dei capitali illeciti riciclati a colui che li aveva "movimentati" (Cass., Sez. 5, n. 19288 del 05/02/2007-dep. 17/05/2007, P.G. in proc. Tarantino e altri, rv. 236635). Invero, si precisa in detta pronuncia che "... se è certamente vero che la norma (ndr., art. 648 bis c.p.) sanziona penalmente solo le operazioni dirette ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro, ciò non comporta l'irrilevanza penale di quella ulteriore frazione di condotta che consista essenzialmente nel rientro delle provviste finanziarie "ripulite" nel patrimonio di chi le aveva movimentate per il riciclaggio, atteso che la norma identifica come tipica modalità operativa del riciclaggio la "sostituzione", e per tale deve intendersi quell'attività che contempla la consegna di un bene al riciclatore in cambio di uno diverso, e del resto la connotazione specializzante del delitto previsto dall'art. 648 bis rispetto all'ipotesi della ricettazione è proprio la finalità di "ripulire" il denaro di provenienza illecita, quando, come nel caso di specie, oggetto del riciclaggio siano somme di denaro.

In sostanza la condotta di "sostituzione" è peculiarmente articolata, in quanto contempla un flusso finanziario "di andata" ed uno corrispondente "di ritorno", di modo che il reato deve intendersi consumato solo con il perfezionamento della sostituzione, e cioè con il ritorno dei capitali illeciti riciclati a chi li aveva movimentati non solo per renderne più difficile l'identificazione, ma anche ed eventualmente per trarne un utile quando l'operazione riciclatoria si concretizzi, come nella specie, in investimenti per attività commerciali o industriali, comunque produttive ...". Fermo quanto precede, la Corte territoriale osserva come, secondo l'ipotesi accusatoria, il F. e la M. avrebbero ricevuto, trasferito o comunque reimpiegato denaro proveniente dai delitti di appropriazione indebita aggravata ed abusivismo finanziario commessi dal R., operando la "sostituzione" del denaro, beni od altra utilità (nel concreto, gli assegni dei clienti) con altri (nella specie, gli assegni tratti dai due imputati sui loro conti correnti).

Con motivazione assolutamente giustificata, la Corte territoriale ha evidenziato come "... non v'è chi non veda che detta "sostituzione" non si è certo realizzata nel momento in cui gli assegni dei "clienti" del R. vennero dai F. versati sui loro conti correnti in (OMISSIS), ma all'atto della restituzione del controvalore ... al R.. Ebbene, che questa condotta, si sia realizzata in (OMISSIS) non si evince da alcun dato processuale, mentre è certo che il R. risiedeva a (OMISSIS) così come in (OMISSIS) avevano sede i negozi che i F. gestivano servendosi anche della collaborazione dello stesso R. ... e presso i quali i tre si incontravano periodicamente. Qualora, poi, si volesse seguire la prospettiva coltivata dagli appellanti, e cioè che il luogo della "restituzione", ovverossia della consegna al R. degli assegni emessi dai F., sarebbe ignoto, per cui dovrebbero essere seguite le regole suppletive dell'art. 9 c.p.p., non per questo si perverrebbe all'auspicato risultato di ritenere l'incompetenza dell'Autorità giudiziaria di Torino in favore di quella di Milano.

Invero, e contrariamente dall'assunto difensivo, nella specie è inapplicabile la regola di cui al comma 1 dell'evocato disposto normativo poichè non è noto "l'ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione". Non si può, infatti, condividere l'opinione ... che questo dovrebbe essere individuato nel posto in cui è avvenuta la "confusione del denaro (consegnato dal R.) nei conti correnti degli imputati ( M. e F.)": da un canto, il versamento degli assegni dei "clienti" del R. da parte dei coniugi F. nei loro conti correnti costituisce un'attività neppure qualificabile come "tentativo" del reato di cui all'art. 648 bis c.p., e dall'altro che "in tema di competenza per territorio, l'art. 9 c.p.p., comma 1, nell'indicare quale elemento discriminatore parte dell'azione o dell'omissione, si riferisce, esclusivamente, alla parte di condotta che si presenta essenziale per l'integrazione della fattispecie di reato; ogni altra materialità potrà assumere valore ai fini probatori, ma non allo scopo di determinare la competenza, i cui criteri - almeno nelle regole generali - hanno riguardo esclusivamente alla consumazione del reato e, quindi, soltanto a quelle condotte che attuano tale situazione giuridica, anche nella sua forma imperfetta del tentativo" (Cass., Sez. 1, n. 1620 del 16/04/1993-dep. 19/05/1993, confl., comp. in proc. Morrà, rv. 194371). Conseguentemente, il criterio suppletivo cui si dovrebbe ricorrere è quello del secondo comma, e cioè il luogo di residenza, dimora o domicilio dell'imputato, ovverosia a (OMISSIS), senza considerare che, vertendosi nella fattispecie in tema di reato connesso con altri, quelli di abusivismo finanziario ovvero di truffa/appropriazione indebita addebitati al R., pacificamente commessi in Torino, soccorrerebbe l'art. 16 c.p.p. ...".

Con il secondo motivo di doglianza, si censura la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla dedotta mancata conoscenza da parte dei coniugi F. che i denari a loro consegnati dal R. fossero stati illegittimamente sottratti ai clienti di quest'ultimo.

Anche questa censura è manifestamente infondata come evidenziato dalla Corte d'Appello che ha ritenuto l'argomento "specioso" e con motivazione, assolutamente congrua e logica, ha chiarito che "... a prescindere dalla questione dell'assoluta incertezza della spiegazione alternativa di tali dazioni fornita dai tre prevenuti, posto che non si è capito bene se era il R. a prestare i soldi ai F. o viceversa e comunque che di tali prestiti non è stato fornito uno straccio non tanto di prova ma neppure un indizio degno di tale nome, e lasciando ... da parte il tema degli effettivi rapporti intercorrenti tra i tre all'epoca del fatto, non si comprende bene quale spiegazione alternativa potessero darsi marito e moglie quando si vedevano consegnare dal R. assegni non a sua firma ma dei suoi "clienti", poichè è dato notorio che i promotori finanziari non sono abilitati neppure a personalmente riscuotere gli assegni dei detti "clienti" (che ... devono affluire nelle casse della "sim" o comunque dell'Ente che organizza l'operazione finanziaria) e comunque meno che mai possono utilizzarli per necessità loro o di loro conoscenti ...".

Con il terzo motivo di doglianza, si censura la violazione di legge in relazione all'art. 648 bis c.p., il vizio di motivazione per mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto.

Anche in relazione a detta censura si devono trarre le conclusioni già rassegnate con riferimento agli altri punti di doglianza. La Corte territoriale, per escludere il concorso dei coniugi F. nei reati ascritti al R. ed affermare la loro autonoma responsabilità per il reato di cui all'art. 648 bis c.p., evidenzia testualmente come "... il primo dato che balza evidente è costituito dalla circostanza che nessuno dei tre imputati ha mai sostenuto che i due F. erano legati al R. da un rapporto vuoi di società di fatto nella gestione dei negozi dei primi in (OMISSIS) vuoi comunque di comunanza di interessi nell'esercizio dell'attività lavorativa formalmente riconducibile ai primi ... nè si è mai fatto alcun cenno all'esistenza di un accordo in forza del quale da un canto il R. avrebbe svolto la sua illecita attività di raccolta del risparmio, e dall'altro gli altri due avrebbero provveduto a "ripulire" i proventi di tale condotta ...".

Al riguardo, ricorda il Collegio come la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, riconosce che, essendo il riciclaggio, delitto a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile con modalità frammentarie e progressive, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti integra la condotta vietata (Cass., Sez. 2, n. 546 del 07/01/2011-dep. 11/01/2011, P.G. in proc. Berruti, rv. 249446, secondo cui integra il reato de quo anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito; cfr., altresì, Cass., Sez. 2, n. 34511 del 29/04/2009-dep. 07/09/2009, Raggio, rv. 246561). Con il quarto motivo di doglianza, si censura la violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento dell'ipotesi attenuata di cui all'art. 648 bis c.p., comma 3.

Analoghe conclusioni vanno tratte in relazione a questo ulteriore profilo di doglianza, avendo la Corte territoriale ineccepibilmente osservato come "quand'anche si ritenesse che nel calcolo della pena del reato presupposto non debba tenersi conto della recidiva, resta il fatto che sia l'appropriazione indebita che la truffa doppiamente aggravate sono punite con una massimo di cinque anni e dunque (con pena) non inferiore a cinque anni". Con il quinto motivo di doglianza, si censura l'illogicità della motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche a favore della M..

Anche questa censura, al pari di tutte le precedenti, appare manifestamente infondata. La Corte territoriale ha congruamente motivato in merito al diniego delle circostanze attenuanti generiche a favore della M. evidenziandosi come elementi "negativi":

- l'entità del danno arrecato alle vittime; - la protrazione nel tempo della condotta criminosa; - i comportamento processuale, solo apparentemente collaborativo, sostanziatosi nell'ammissione di circostanze ormai acclarate "aliunde";

- la presenza di precedenti;

- l'avvenuta irrogazione, in ogni caso, del minimo della pena.

11. Alla pronuncia di inammissibilità dei ricorsi consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00 per ciascuno.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Udienza pubblica, il 24 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2014
Avv. Antonino Sugamele

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