Ricusazione del Giudice penale. Inammissibile se è la parte ad essere ostile nei confronti del Giudice.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 2 ottobre – 8 novembre 2013, n. 45298
Presidente Petti – Relatore Verga
Motivi della decisione
S.S. presenta dichiarazione di ricusazione nei confronti dei consiglieri Dott. M.A. , Se.Fr. , C.A. e R.F. , quali componenti del Collegio della 6 Sezione Penale della Corte di Cassazione destinato a trattare il ricorso n. 1267/08 relativo a impugnazione di ordinanza della Corte d'Appello di Cagliari che aveva deciso in ordine alla ricusazione del giudice del dibattimento S. Badas del Tribunale di Cagliari.
A fondamento della ricusazione lamenta:
- quanto ai Consiglieri M. , C. e R. la pendenza di causa civile da lui proposta in base alla L. 117/88, situazione che determina l'obbligo di astensione ex art. 36 lett. h) c.p.p. (in tal senso produceva dichiarazione di astensione, presentata da Consiglieri di questa Corte di diversa Sezione Penale proprio per la pendenza di causa da lui promossa ex L. 117/88, accolta dal Primo Presidente della Suprema Corte);
- quanto ai consiglieri Se. e R. la partecipazione all'adozione della anomala sentenza 31807/08 riferita ad impugnazione della sentenza 26537/07 della seconda sezione e della sottostante sentenza 2804/07 della sezione sesta, in violazione della incompetenza tabellare della sesta sezione a pronunciarsi su una sua sentenza, ignorando anche l'eccezione in tal senso specificatamente da lui formulata con memoria;
- quanto al consigliere Cortese la partecipazione all'adozione della in parte anomala sentenza 21360/11 con la quale, pur dandosi atto dell'insussistenza dell'elemento oggettivo del delitto di calunnia addebitato allo stesso istante (capi 15-16-17), veniva disposto contraddittoriamente ed illegittimamente rinvio alla corte d'Appello di Cagliari per l'ulteriore indagine sull'elemento soggettivo, del tutto irrilevante e illegittimo, stante appunto la riconosciuta insussistenza dell'elemento oggettivo.
Sostiene che le situazioni rappresentate oltre ad integrare una situazione di incompatibilità per inimicizia ex articolo 36 lett. d) codice procedura penale nonché, per conseguenza, una situazione di incompatibilità per interesse "morale" ex articolo 36 lett. a) codice di procedura penale integrano comunque certamente quantomeno una situazione di incompatibilità per gravi ragioni di convenienza ex articolo 36 lett. h) codice procedura penale. Situazioni che impongono a detti magistrati l'obbligo di astenersi e che, in difetto, legittimano la loro ricusazione.
Eccepisce inoltre l'incostituzionalità degli articoli 40,41 codice di procedura penale nella parte in cui assegnano ad un collegio composto da soli colleghi dei giudici ricusati, sia pure di altra sezione, la competenza a decidere le ricusazione a carico di altri colleghi, per contrasto con i principi di cui agli articoli 3, 24,111 della costituzione, mancando, in tutta evidenza una sia pur minima garanzia di terzietà e di imparzialità. Sostiene che detta garanzia può essere data dalla assegnazione della ricusazione ad un collegio misto quale quello della Corte d'Assise nella quale la presenza dei giudici popolari esprime una significativa componente. Lamenta che la forte solidarietà di categoria che opera in seno alla magistratura, pur legittima in linea di principio, in pratica si pone, come l'esperienza insegna e come l'istante ha potuto sperimentare in proprio, come una remora insuperabile o difficilmente superabile quando il cittadino ricusa un giudice o propone a suo carico denuncia o esposto a fini disciplinari. Evidenzia come negli ultimi 5 o 6 anni il sottoscritto abbia proposto circa 50 denunce penali a carico di magistrati di varie qualifiche, ed altrettante ricusazione di giudici del tribunale penale di Cagliari e della Corte di Cassazione e come tutti i procedimenti penali per la grandissima maggioranza siano stati archiviati con il contributo della Corte di Cassazione che ha legittimato moltissime archiviazioni de plano, nonostante la obiettiva fondatezza degli addebiti e le immotivate opposizioni, così come le ricusazione dei giudici di Cagliari sono state dichiarate inammissibili, addirittura de plano, con inaudito e illegittimo avvallo della Corte di Cassazione.
Prima di dare corso alle conclusioni il Collegio respingeva l'istanza di S.S. di ammissione all'autodifesa ribadendo le argomentazioni espresse nell'ordinanza del 17.7.2013, richiamate ed ampliate nella sentenza n. 1890 del 16.7.2013 che veniva allegata al provvedimento e che vengono in questa sede ribadite.
Richiamando i provvedimenti indicati deve confermarsi la manifesta infondatezza della tesi del ricorrente secondo la quale egli sarebbe legittimato a difendersi da solo in virtù della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e del Patto sui diritti civili e politici. È principio consolidato in giurisprudenza, e già sottolineato, anche in relazione ad altri procedimenti riguardanti il ricorrente, che la normativa interna, la quale esclude la difesa personale della parte nel processo penale e nei procedimenti incidentali che accedono allo stesso, non si pone in contrasto con l'art. 6 paragrafo terzo lett. c) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, che prevede la possibilità di autodifesa.
È stato infatti ritenuto che il diritto all'autodifesa non è assoluto. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7786 del 29/01/2008 dep. 20/02/2008 Rv. 239237. (Conf. sent. nn. 7787, 7788, 7789 del 2008, non massimate). Tali conclusioni si basano sul consolidato orientamento della Corte costituzionale che ha osservato che "la Commissione stessa ha avuto occasione di affermare che il diritto all'autodifesa non è assoluto, ma limitato dal diritto dello Stato interessato ad emanare disposizioni concernenti la presenza di avvocati davanti ai tribunali (rie. 722/60)" e che nei giudizi dinanzi ai Tribunali Superiori "nulla si oppone ad una diversa disciplina purché emanata allo scopo di assicurare una buona amministrazione della giustizia (rie. 727/60 e 722/60)". La Stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo ha puntualizzato che l'art. 6, paragrafo 3 e, cit. - pur riconoscendo a ogni imputato "il diritto di difendersi personalmente o di fruire dell'assistenza di un difensore di sua scelta" - non ne ha però precisato le condizioni di esercizio, lasciando agli Stati contraenti la scelta di mezzi idonei che consentano al loro sistema giudiziario di garantire siffatto diritto al fine di realizzare un equo processo (v. C.E.D.U. Sez. III, sent. 27 aprile 2006 sul ricorso n. 30961/03, Sannino/Italia). La previsione, contenuta nella disciplina che ha introdotto la competenza penale del giudice di pace (in base alla quale l'offeso può presentare ricorso diretto al giudice che se non ritiene il ricorso infondato o inammissibile dispone la convocazione delle parti dinnanzi a sé) non consente di pervenire ad una diversa soluzione perché trova giustificazione nel fatto che il processo penale innanzi al giudice di pace è caratterizzato dalla particolare attenzione a favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra imputato e persona offesa.
Così come deve essere ritenuto principio che conferma la regola generale la disciplina prevista in tema di patrocinio a spese dello Stato, dove il difensore, purché iscritto nell'albo speciale dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori, è stato considerato legittimato a proporre personalmente il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di liquidazione delle sue competenze professionali maturate in sede penale, emesso in sede di opposizione, proprio perché la regola generale della rappresentanza tecnica nel processo penale (art. 613 cod. proc. pen.) è, in questo caso, eccezionalmente derogata a favore dell'avvocato cassazionista, in virtù del rinvio formale che l'art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002 opera, in tema di liquidazione di compensi professionali, alla speciale procedura prevista per gli onorari di avvocato dall'art. 29 L. n. 794 del 1942, come modificato dal recente d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, e, indirettamente, alle disposizioni degli artt. 86 e 365 cod. proc. civ.. (Conf. S.U. n. 6817, 30 gennaio 2007, Mulas, non massimata; Sez. U, n. 6816 del 30/01/2007 - dep. 16/02/2007, Inzerillo ed altro, Rv. 235344). Tali conclusioni vanno riaffermate anche con riferimento alla nuova disciplina introdotta dalla Legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante "Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense", prevista dall'art. 13, in cui la possibilità del diritto di difendersi da solo è significativamente prevista da una disposizione titolata "Incarico e compenso" che, per il suo carattere generale, come evidenzia il suo inserimento nel Titolo I, Disposizioni generali, artt. 1 - 14, non può che rimandare al quadro normativo che specificamente deve essere applicato in materia per ogni singola controversia. La previsione di cui al comma 1 dell'art. 13 della legge citata, secondo la quale "L'avvocato può esercitare l'incarico professionale anche a proprio favore. L'incarico può essere svolto a titolo gratuito", non può che avere, dunque, un valore ricognitivo, rispetto alla disciplina esistente, in relazione alla possibilità di autodifesa e al quadro analiticamente previsto dalle norme di procedura civile e procedura penale specificamente previste e sopra ricordate.
Queste conclusioni trovano più in generale il loro fondamento nella considerazione che l'attività forense, in quanto diretta alla difesa dei diritti, è componente indefettibile dello Stato di diritto, presidio dei diritti dei cittadini e garanzia della loro tutela, strumento di accesso alla giustizia da parte di tutti i soggetti, a qualunque categoria sociale essi appartengano, attraverso la previsione del difensore di ufficio e dell'istituto del gratuito patrocinio.
Il proposto ricorso È inammissibile.
Va premesso che secondo il pressoché costante indirizzo interpretativo di questa Corte Suprema le previsioni di ipotesi di ricusazione si configurano quali norme eccezionali, sia perché determinano limiti all'esercizio del potere giurisdizionale e, più in particolare, della capacità processuale del soggetto titolare del relativo ufficio sia perché consentono un'ingerenza delle parti in materia di ordinamento giudiziario, attinente al rapporto di diritto pubblico fra Stato e giudice e, quindi, sottratta d'ordinario alla disponibilità delle parti e dello stesso giudice; con la conseguenza che i casi regolati, le formalità e i termini di proposizione della ricusazione, hanno carattere di tassatività, non solo nel senso che non possono essere applicati in via analogica, ma anche nel senso che la loro interpretazione deve essere soltanto letterale, con esclusione di ogni interpretazione estensiva (cfr., ex plurimis, Cass., 16 aprile 1997, And reatta; Cass., 9 marzo 1999, Craxi e, più di recente N. 3920/2000 Rv. 215315). La riforma dell'art. 111 cost. con il richiamo al giudice terzo ed imparziale ha avuto la funzione di stimolare il legislatore a una maggiore attenzione e a una maggiore cura di tale interesse coessenziale alla giurisdizione; ma nulla autorizza a ritenere che la nuova norma costituzionale abbia rivoluzionato i principi giurisprudenziali (costituzionali e di legittimità) anteriori, giungendo a far sì che l'incompatibilità dei giudice non sia più l'eccezione rispetto alla regola della compatibilità. Il sistema giudiziario deve presumersi improntato al principio secondo cui a ciascuno è assicurato un giudice terzo e imparziale. Per questo deve concludersi che l'imparzialità del giudice è garantita dalle disposizioni di legge che prevedono le singole cause di incompatibilità e che queste ultime hanno rappresentato in passato e continuano a rappresentare oggi l'eccezione rispetto alla regola, con la conseguenza che deve essere riaffermato, a maggior ragione nella vigenza della nuova norma costituzionale, il divieto di interpretazione analogica, nel senso che non è dato all'interprete creare nuove funzioni processuali pregiudicate ne1 nuove funzioni pregiudicanti.
Tali conclusioni si basano oltre che sui principi sopra richiamati anche su quello del giudice naturale. Un'indagine che approdasse a risultati diversi aprirebbe una tale breccia nel principio costituzionale del giudice naturale che lo stesso ne risulterebbe irrimediabilmente compromesso.
A corollario di tale principio, relativamente alla causa di ricusazione prevista dal combinato disposto degli artt. 37, comma 1, lettera a), e 36, comma 1, lettera d), si è precisato che non può desumersi l'inimicizia grave dai provvedimenti che il giudice adotti nell'esercizio delle sue funzioni. Tale inimicizia, secondo una più volte ribadita interpretazione, che trae solido fondamento dalla necessaria tipizzazione delle cause di ricusazione, non può che riferirsi a rapporti interpersonali, consistenti in vicende della vita estranee alle funzioni del giudicante. Non sussiste l'inimicizia grave rilevante ai fini della ricusazione del giudice (art. 36, comma primo, lett. d, cod. proc. pen.), qualora essa sia ravvisata in asserite violazioni di legge o in discutibili scelte operate dal giudice nella gestione del procedimento, le quali riguardano aspetti interni al processo che possono essere risolti con il ricorso ai rimedi apprestati dall'ordinamento processuale e non già con l'istituto della ricusazione, azionata sotto il profilo della grave inimicizia, la quale deve sempre trovare riscontro in rapporti personali estranei al processo e ancorati a circostanze oggettive, mentre la condotta endoprocessuale può venire in rilievo solo quando presenti aspetti talmente anomali e settari da costituire momento dimostrativo di una inimicizia maturata all'esterno (N. 875 del 1981 Rv. 151423, N. 664 del 1985 Rv. 168931, N. 2137 del 1987 Rv. 176202, N. 4210 del 1999 Rv. 212923 n. 3756 del 2005 Rv. 231399 N. 16720 del 2011 Rv. 250475).
Deve inoltre osservarsi che non può mai essere la denunzia penale o l'azione civile proposta dalla parte nei confronti del giudice a dare causa alla incompatibilità di questo perché entrambe sono "fatto" riferibile esclusivamente alla parte e non al giudice e perché non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. L'avere il ricusante denunciato il giudice poi ricusato davanti all'autorità giudiziaria non è affatto sintomo di inimicizia grave del giudice stesso verso l'imputato, semmai di animosità dell'istante verso il giudice. Nel caso di specie è lo stesso ricusante che sottolinea di avere presentato negli ultimi 5 o 6 anni circa 50 denunce penali a carico di magistrati di diverse qualifiche ed altrettante ricusazione di giudici di merito e della Corte di Cassazione. È di tutta evidenza come il sistema non possa consentire a tale unilaterale sentimento di ostilità di potersi liberare del giudice naturale per il solo fatto di denunciarlo, a prescindere da qualsivoglia fondatezza della denuncia.
Così come non può parlarsi di inimicizia a fronte di instaurazione di una causa civile che si fonda su una prospettazione unilaterale, proveniente dall'attore in procedimento mirante ad ottenere il risarcimento per danni che si assumono subiti a seguito della trattazione, da parte del medesimo giudice, di un diverso procedimento (da ultimo Cass. n. 45512 del 2010 Rv. 248958).
Alla luce di dette considerazioni è di tutta evidenza l'inammissibilità dell'istanza di ricusazione in argomento poiché pone a base della stessa una situazione di fatto, ravvisata o in provvedimenti che il giudice ricusato ha adottato nell'esercizio delle sue funzioni o nella pendenza di un giudizio civile instaurato dall'odierno ricorrente nei confronti del giudice ricusato, sicuramente non idonea a dimostrare la grave inimicizia che legittima la ricusazione, ai sensi dell'art. 36 c.p.p., lett. d), per come richiamato dall'art. 37 c.p.p.. Il fatto poi che alcuni dei Consiglieri di questa Corte, nei confronti dei quali l'istante ha promosso azione civile di responsabilità in base alla Legge n. 117/1988, abbiano ritenuto di astenersi e che siano stati autorizzati all'astensione dal Primo Presidente della Corte di Cassazione non ha alcun rilievo nei confronti della posizione dei giudici della cui ricusazione qui si tratta, poiché non rientra tra le tassative ipotesi di ricusazione di cui all'art. 37 c.p.p. l'esistenza di "altre gravi ragioni di convenienza", che ha portato il giudice all'astensione ai sensi dell'art. 36 c.p.p., comma 1, lett. h)(cfr. Cass. 3, 5 novembre 2003, Urbini, RV 226693; Cass. 24 agosto 1995, RV 202329 n. 12467 del 2009 Rv. 243562).
Venendo alla prospettata questione di illegittimità costituzionale deve rilevarsi che l'istante la solleva facendo riferimento ad una particolare solidarietà di categoria che impedirebbe, come da lui stesso sperimentato, avendo presentato negli anni numerosissime istanze di ricusazione, tutte dichiarate inammissibili, il corretto funzionamento delle norme poste a presidio dell'imparzialità del giudice. Al riguardo deve rilevarsi che, secondo l'orientamento consolidato della Corte Costituzionale, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, prospettate, come nel caso in esame, in relazione ad un presunto funzionamento patologico della disciplina e non riferite, invece, alla norma considerata nel suo contenuto precettivo.
Deve comunque aggiungersi che secondo la prospettazione dell'istante il legislatore dovrebbe dare origine a giudici genericamente precostituiti, ma con competenza limitata in materia di ricusazione e con composizione e poteri diversi da quelli degli organi della magistratura ordinaria, violando così il principio di unicità della giurisdizione sancito dall'art. 102 Cost. secondo il quale non possono legislativamente istituirsi dei giudici speciale e dell'art. 25 Cost. in base al quale nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
In sintesi il legislatore dovrebbe introdurre per la sola ipotesi della ricusazione l'intervento di giudici speciali al di fuori dei principi fissati dalla Corte costituzionale che ha inteso circoscrivere entro rigorosi confini le giurisdizioni diverse da quella ordinaria.
Deve essere pertanto ritenuta la manifesta infondatezza della sollevata questione di illegittimità incostituzionale.
L'istanza deve pertanto essere dichiarata inammissibile e l'istante deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 da versare alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Ritenuta la manifesta infondatezza della sollevata questione di illegittimità incostituzionale sollevata dall'istante dichiara inammissibile l'istanza e condanna l'istante al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.
13-11-2013 22:09
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