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Sentenza

Perdono la vita, perchè usando una strada ricavata all'interno di un torrente, dopo un violento temporale vengon travolte da una valanga d'acqua e fango. Vengono ritenuti responsabili il Capo del Genio Civile e il responsabile della Ripartizione strade ed impianti del Comune.
Perdono la vita, perchè usando una strada ricavata all'interno di un torrente, dopo un violento temporale vengon travolte da una valanga d'acqua e fango. Vengono ritenuti responsabili il Capo del Genio Civile e il responsabile della Ripartizione strade ed impianti del Comune.
Cassazione penale  sez. IV   
Data:
    16/02/2012 ( ud. 16/02/2012 , dep.08/05/2012 ) 
Numero:
    17069
                       LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                            SEZIONE QUARTA PENALE                        
    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
    Dott. MARZANO    Francesco         Presidente    del 16/02/2 -  -    
    Dott. GALBIATI   Ruggero           Consigliere   SENTE -  -          
    Dott. BIANCHI    Luisa             Consigliere   N.  -  -            
    Dott. PICCIALLI  Patrizia     rel. Consigliere   REGISTRO GENER -  - 
    Dott. MONTAGNI   Andrea            Consigliere   N. 20326/2 -  -     
    ha pronunciato la seguente:                                          
                         sentenza                                        
    sul ricorso proposto da: 
    1)                            R.A.S.C. N. IL (OMISSIS); 
    2)                                             W.A.P.P.F.   N.   IL 
    (OMISSIS); 
    3)              G.R. N. IL (OMISSIS); 
    4)                     N.T.R. N. IL (OMISSIS); 
    5) COMUNE DI MESSINA; 
    6)  ASSESSORATO  AI LAVORI PUBBLICI REGIONE SICILIA OGGI  ASSESSORATO 
    DELLE INFRASTRUTTURE E DELLA MOBILITA'; 
    avverso  la  sentenza  n.  172/2008 CORTE  APPELLO  di  MESSINA,  del 
    29/10/2010; 
    visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
    udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 16/02/2012 la  relazione  fatta  dal 
    Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI; 
    Udito  il  Procuratore Generale in persona del Dott. Stabile Carmine, 
    che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di        G., Comune  di 
    Messina  e dell'Assessorato ai lavori pubblici della Regione Sicilia; 
    per  l'annullamento  senza  rinvio  per  intervenuta  prescrizione  e 
    conferma   delle  statuizioni  civili,  con  riferimento  a       N. 
            T.;  per  l'accoglimento del primo  motivo  di  ricorso  con 
    riferimento alle parti civili. 
    uditi  per  le parti civili ricorrenti, Avv. Autru Ryolo Tommaso,  in 
    sostituzione dell'avv. Vadalà B., che insiste per l'accoglimento del 
    ricorso; 
    per  le  parti  civili:             C.G. e              C.G.,  in 
    sostituzione dell'avv. Autru Ryolo Luigi, l'avv. Autru Ryolo Tommaso, 
    del foro di Messina, che conclude per l'accoglimento del ricorso; 
    per il responsabile civile Provincia Regionale di Messina è presente 
    l'avv.  Aveni  Giuseppe,  del foro di Messina,  che  insiste  per  la 
    inammissibilità dei ricorsi delle parti civili o, in subordine,  per 
    il rigetto; 
    per  il  responsabile civile Assessorato ai Lavori  Pubblici  Regione 
    Sicilia, rappresentato dalla Avvocatura Generale dello Stato,  l'avv. 
    Vitale  Angelo, del foro di Roma, che insiste per l'accoglimento  del 
    ricorso; 
    per  l'imputato        G. l'avv. Scordo Antonio Salvatore, del foro 
    di Messina, che conclude per l'accoglimento del ricorso; 
    per  l'imputato non ricorrente     P., il medesimo avv. Scordo, che 
    conclude per l'inammissibilità o il rigetto dei ricorsi delle  parti 
    civili; 
    per l'imputato               N.T., l'avv. Rullino Alberto, del foro 
    di  Messina,  e  l'avv.  Firella  Antonio,  del  foro  di  Roma,  che 
    concludono per l'accoglimento del ricorso. 
                     


    Fatto
    RITENUTO IN FATTO

    Dall'analitica descrizione dei fatti contenuta in entrambe le sentenze di merito emerge che la sera del (OMISSIS), nel corso di un violentissimo temporale abbattutosi nella zona Nord della città di (OMISSIS), l'autovettura sulla quale viaggiavano C. A., con la moglie C.M. e la figlia A., mentre risaliva la strada ricavata all'interno del torrente (OMISSIS), per rientrare verso casa, in contrada (OMISSIS), Cooperativa Beata Eustochio, veniva travolta dall'onda di piena e portata verso valle dalla furia delle acque. Successivamente gli occupanti della predetta autovettura venivano ritrovati cadaveri in luoghi diversi. Nella stessa sera, in altra località, ubicata lungo il torrente (OMISSIS), nel quale anche era stata ricavata una strada, perdeva la vita in circostanze analoghe, il cittadino cingalese W.F.S., che dopo aver percorso la predetta strada a bordo della propria autovettura, sulla quale viaggiavano la moglie R.A.S.C. e la figlia S., per giungere alla cava in cui abitavano ed aver messo in salvo i congiunti, saliva sull'autovettura del nipote per cercare di aiutarlo a superare l'ingresso del cancello, quando una valanga d'acqua e di fango investiva l'automobile, travolgendola e trascinandola verso valle. L'intervento di alcune persone consentiva di salvare il nipote di F.S., mentre di quest'ultimo si perdeva ogni traccia ed il corpo del disperso non sarebbe mai stato ritrovato.

    Sulle cause dell'evento, è rimasto accertato che gli alvei dei due fiumi- (OMISSIS) - ove si verificarono i fatti, erano costantemente ed impropriamente utilizzati come strade dalla cittadinanza, che se ne serviva per raggiungere a bordo di autovetture, alcuni insediamenti abitativi esistenti nelle zone di riferimento. E' stato altresì accertato che gli eventi mortali non furono cagionati da un anomalo deflusso delle acque (che anzi defluirono regolarmente nell'argine) bensì dalla impropria presenza delle autovetture negli argini medesimi). In sostanza, la causa scatenante dell'onda di piena non fu l'insufficienza delle rispettive sezioni dei torrenti, con la conseguente eventuale esondazione delle acque dagli alvei, ma l'evento piovoso in sè, che era durato 19 minuti con una intensità di 92 millimetri orari di pioggia, così determinando nei detti bacini il formarsi di un'onda di piena, fenomeno naturale, solo che negli alvei c'erano delle strade sulle quali transitavano delle persone.

    A seguito di questi fatti, per quanto rileva in questa sede, venivano contestati i reati di omissione di atti di ufficio e omicidio colposo plurimo a N.T.R., nella qualità di capo del Genio civile di Messina, a G.R., nella qualità di responsabile della Ripartizione strade ed impianti del Comune di Messina dal 10 novembre 1985 al 31 marzo 1996 e successivamente, nella qualità di ingegnere capo dello stesso Comune, ed a P. R., nella qualità di dirigente responsabile del 13^ settore della Provincia di Messina.

    In particolare a N.T., nella qualità suddetta, è stato contestato di avere omesso di esercitare i poteri di vigilanza e polizia sulle acque di cui alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 378 all. F., al R.D. 25 luglio 1904, n. 523 ed al R.D. 19 novembre 1921, n. 1688, non emanando i provvedimenti finalizzati alla chiusura della viabilità precaria insistente nell'alveo del torrente (OMISSIS) ed alla rimozione delle rampe viabili di accesso a luoghi di residenza realizzate nello stesso alveo nonchè di avere omesso ogni intervento diretto alla regimazione delle acque di competenza del Genio civile ai sensi della L.R. n. 25 del 1993, art. 93, cagionando così per colpa, in occasione di una precipitazione piovosa non eccezionale, la formazione di una rovinosa onda di piena nello stesso torrente in occasione dell'evento alluvionale del 27 settembre 1998 e la conseguente morte di C.A., C.A. e Co.Ma., che venivano travolti dalle acque in piena. Gli stessi reati erano contestati al N. in relazione al decesso di W.F.S., sul rilievo di aver cagionato per colpa l'inondazione del torrente (OMISSIS) a seguito della quantità di acqua accumulata nel pianoro inferiore della discarica di r.s.u. in località (OMISSIS) (determinato dal crollo dell'argine di nord-est) e conseguentemente la morte di F.S. che veniva travolto dalle acque mentre percorreva a bordo della propria auto la strada di collegamento tra la (OMISSIS) insistente a margine del torrente.

    I profili di colpa in questo caso venivano individuati nell'avere omesso l'invio della dichiarazione di spendibilità delle somme stanziate relativa ai lavori di sistemazione idraulica del torrente e nell'avere omesso di realizzare l'intervento di sistemazione idraulica del torrente (OMISSIS), approvato con DD.PP Regione Sicilia n. 217/218 del 1996; nell'avere omesso di esercitare i poteri di vigilanza e polizia sulle acque, sopra richiamati, non emanando i provvedimenti finalizzati alla chiusura della viabilità precaria insistente nell'alveo del torrente.

    Al G., nella qualità suddetta, è stato contestato di avere omesso, nonostante le ripetute richieste del Genio civile, di attivare le procedure finalizzate all'emissione dei provvedimenti di chiusura della viabilità precaria esistente sul torrente (OMISSIS), che per ragioni di sicurezza dovevano essere compiute senza ritardo, consentendone il traffico senza che sussistessero i requisiti minimi di sicurezza e consentendo le opere di manutenzione tali da far sorgere nei cittadini l'incolpevole affidamento dell'esistenza di una pubblica via, così cagionando per colpa la formazione di una rovinosa onda di piena nello stesso torrente e conseguentemente la morte dei C., che venivano travolti dalle acque.

    Al P., nella qualità suddetta è stato contestato analogo capo di imputazione con riferimento al torrente (OMISSIS).

    Il processo instauratosi in seguito all'udienza preliminare si concludeva con sentenza depositata il 18 settembre 2006 con la quale venivano ritenuti responsabili dei reati di omissione di atti di ufficio ed omicidio colposo gli imputati N.T. R., P.C., mentre dai medesimi reati veniva assolto G.R..

    Avverso la citata sentenza proponevano appello i difensori degli imputati N.T. e P. e dei responsabili civili Assessorato de Lavori pubblici della Regione Sicilia e Provincia Regionale di Messina, nonchè il difensore delle parti civili C., che chiedeva che la Corte di merito affermasse la responsabilità degli imputati G.R. e T. B., assolti nel giudizio di primo grado.

    La Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva P.C. dai reati di omissione di atti d'ufficio ed omicidio colposo per non aver commesso i fatti; in accoglimento della impugnazione proposta dalle parti civili, dichiarava G.R. civilmente responsabile per i reati di omissione di atti di ufficio ed omicidio colposo plurimi e lo condannava, in solido con i responsabili civili Comune di Messina e con il coimputato N.T. al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili C. ed al pagamento della provvisionale immediatamente esecutiva, come determinata dal giudice di primo grado, nonchè alla rifusione in favore delle parti processuali di primo e secondo grado, confermando nel resto la sentenza del Tribunale.

    Con riferimento alle posizioni delle parti civili R. ed altri, il giudice di appello precisava che: l'assoluzione del P. aveva comportato il venir meno delle statuizioni civili di condanna del predetto imputato e del responsabile civile Provincia di Messina, pronunciata dal primo giudice. Quanto all'Assessorato, il giudicante evidenziava che in primo grado le predette parti civili non avevano rassegnato le conclusioni nei confronti del predetto Ente e che, pertanto, la relativa statuizione di condanna al risarcimento dei danni era stata emessa esclusivamente nei confronti di N., P. e Provincia; sul punto non vi era stata impugnazione e le conclusioni rese dinanzi al giudice di secondo grado erano state del medesimo tenore.

    La sentenza di primo grado aveva assolto G.R. con la formula per non aver commesso il fatto. Pur riconoscendo palesi ed eclatanti responsabilità degli organi comunali, il giudice di primo grado aveva ritenuto che il G. nel periodo in cui avvennero i fatti non ricopriva nell'organigramma municipale funzioni idonee a far scaturire, rispetto agli eventi verificatisi nel torrente (OMISSIS), alcuna posizione di garanzia, in quanto il 13 maggio 1996 era cessato dall'incarico di direttore della Ripartizione strade ed impianti, come emerge dalla delibera con cui veniva conferito l'incarico ad altro funzionario comunale. Inoltre, anche nella qualità sopra indicata, l'imputato non avrebbe potuto provvedere agli adempimenti necessari ad impedire l'evento mortale verificatosi nel (OMISSIS) in quanto la competenza ad istruire i procedimenti per la chiusura delle strade era della Ripartizione trasporti, viabilità ed autoparco, come dimostrato dalla circostanza che in epoca successiva all'alluvione fu proprio il direttore di quella ripartizione a dare incarico agli organi tecnici comunali competenti in materia di protezione civile e di torrenti di trasmettere un dettagliato elenco degli accessi agli alvei al fine di predisporre l'eventuale apposizioni cartelli segnaletici.

    Il giudice di appello, su ricorso delle parti civili, affermava, invece, la responsabilità civile del G. per i reati di omissione di atti di ufficio ed omicidio colposo.

    La sentenza partiva della premessa che la questione della esistenza nel territorio di Messina di un alveo di torrente, quale il torrente (OMISSIS), utilizzato impropriamente come sede stradale, non poteva essere ricondotta, come ritenuto dal primo giudice, nei termini di un problema di viabilità per la mancata apposizione della cartellonistica stradale ovvero per la mancata chiusura al traffico, in occasione di condizioni metereologiche avverse.

    Ritenuta astrattamente configurabile la posizione di garanzia in capo all'ente pubblico comunale, quale titolare di fatto della strada ubicata nell'alveo del torrente, il giudice di appello, nell'affrontare il tema della specifica responsabilità dei singoli per omesso impedimento dell'evento, individuava nel titolare della Ripartizione Strade ed Impianti del Comune, l'obbligo di impedire l'allocazione della strada in quel sito o comunque l'avere omesso l'adozione di quegli accorgimenti tecnici per garantirne l'agibilità e la sicurezza.

    Tale argomentare veniva fondato sulla netta distinzione di competenze tra le due Ripartizioni comunali: alla ripartizione strade ed impianti erano ricollegabili le diverse competenze che attenevano al momento progettuale ovvero esecutivo della infrastruttura viaria e che, pertanto, si riferivano alla fase di installazione del manufatto, costituente dal punto di vista logico e cronologico un prius afferente al momento genetico del manufatto viario e non ai suo successivo esercizio, ossia alla viabilità intesa come concreta possibilità di transito.

    In questa prospettiva, l'improprio utilizzo dell'alveo come strada, causa dell'evento mortale, era strettamente collegato alla installazione in quel sito della strada, che non doveva sorgervi, o quantomeno, senza l'adozione di quegli accorgimenti minimali individuati dai periti.

    La descritta condotta colposa del G., protrattasi dal 1985 al 1996, era stata ritenuta causalmente efficiente nel meccanismo dell'evento produttivo finale anche se al momento del fatto l'imputato non era più titolare da cinque mesi di quella ripartizione, in virtù dei principi dell'affidamento e della successione delle posizioni di garanzia.

    Alla luce di tali considerazioni il giudice di appello ha ritenuto il G. civilmente responsabile anche del reato di cui all'art. 328 c.p., comma 1, sul rilievo che la mancata adozione da parte del competente organo comunale dei provvedimenti idonei ad apprestare le necessarie cautele a che la circolazione in alveo non avvenisse ovvero avvenisse con gli accorgimenti tecnici sopra evidenziati, aveva contemporaneamente leso sia la finalità pubblica che l'interesse del privato alla sicurezza ed alla incolumità.

    Il giudice di appello ha confermato il giudizio di responsabilità per N. con riferimento a tutti i reati contestati, richiamando e sviluppando gli argomenti del primo giudice.

    La sentenza di primo grado aveva fondato la posizione di garanzia del N., quale direttore dell'ufficio del Genio civile, sul rilievo che il predetto ufficio esercita sulle acque pubbliche una attività di polizia amministrativa ai sensi del R.D. 25 luglio 1904, n. 523 ed il "buon regime delle acque pubbliche" come l'interesse pubblico tutelato dalla norma. Si richiamava a tal proposito l'art. 2 del citato decreto che demanda alla esclusiva competenza del Genio civile l'esclusiva competenza a statuire e provvedere sugli usi, atti o fatti, anche consuetudinari, che possono avere relazione con il buon regime delle acque pubbliche e sulle condizioni di regolarità dei ripari ed argini od altra opera qualunque fatta entro gli alvei e contro le sponde. Si affermava, pertanto che l'attraversamento stradale dei torrenti, ove anche rappresentava un uso consuetudinario dei medesimi, avrebbe dovuto indurre il Genio civile ad ordinarne la modificazione o la cessazione, una volta che dalla corrispondenza intercorsa con le altre pubbliche amministrazioni fosse emerso in modo incontrovertibile che l'ufficio preposto a garantire il buon regime delle acque aveva piena percezione della pericolosità della situazione. Si sottolineava che ai sensi del R.D. n. 523 del 1904, art. 93 e L. n. 2248 del 1865, art. 378, comma 1, all. F., gli ordini impartiti al riguardo dall'ing Capo fossero dotati di una particolare forza impositiva, potendo, in difetto di volontario adempimento da parte dei destinatari, essere eseguiti in forma specifica.

    Il Tribunale disattendeva in quanto riduttiva l'impostazione difensiva secondo la quale il Capo del Genio civile nell'assicurare il "buon regime delle acque pubbliche" deve limitarsi a garantire che le stesse non esondino dagli argini o che comunque non deviino da loro naturale corso. In particolare, è stato ritenuto che dalla disamina della normativa di settore, in considerazione della pluralità di finalità sottese alle competenze idrauliche del Genio civile, emergeva che questo ufficio è titolare di un'ampia posizione di controllo: nel senso che sullo stesso incombe il potere dovere di tutelare persone o cose da qualsivoglia pericolo possa discendere dal deflusso delle acque, non solo quello scaturente da un'eventuale esondazione. Concludeva, pertanto, affermando che le strade realizzate sui torrenti (OMISSIS) erano sen'altro prive delle condizioni di regolarità, che devono a attenere ai ripari ed argini od altra opera qualunque fatta entro gli alvei o contro le sponde ed erano state realizzate e mantenute in alveo senza lo speciale permesso richiesto dal R.D. n. 523 del 1904, art. 93, comma 1.

    Il giudicante perveniva altresì all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 328 c.p., comma 2, affermando la consapevole omissione dei provvedimenti finalizzati alla chiusura della viabilità precaria esistente nell'alveo, che il N. aveva l'obbligo di adottare senza ritardo.

    La Corte di merito ha disatteso, innanzitutto, l'eccezione difensiva diretta a far valere l'insussistenza del nesso causale tra la condotta e gli eventi, fondata sulla circostanza acclarata della insussistenza del nesso causale tra la omessa regimazione delle acque e la formazione dell'onda di piena e quella strettamente connessa della violazione del principio di correlazione tra la contestazione e la sentenza. Sul punto la sentenza ha affermato che la modificazione del termine intermedio della serie causale (l'onda di piena non era stata determinata dall'omesso esercizio dei poteri di vigilanza e di polizia) non aveva comportato nessun pregiudizio al diritto di difesa dell'imputato, che attraverso l'iter processuale era venuto a trovarsi nella concreta condizione di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione. Ciò premesso, la Corte di merito è partita dalla premessa che proprio l'aver tollerato la presenza della strada nell'alveo costituisce l'antecedente che può definirsi la causa materiale dell'evento mortale. L'analisi si è poi incentrata prima sulla posizione di garanzia rivestita dall'imputato e successivamente su quello che è stato definito il nodo centrale della presente vicenda processuale relativamente alla posizione del N., cioè quello della chiarificazione del significato e quindi della delimitazione degli esatti confini del concetto di buon regime delle acque, come desumibile dalla lettera della legge e dalla intenzione del legislatore del 1904. Quanto al primo profilo, nel richiamare anche la motivazione della sentenza di primo grado, i giudici d'appello sono partiti dal testo del R.D. n. 523 del 1904, art. 2 ponendo in evidenza che attraverso la endiadi ivi contenuta ("spetta esclusivamente all'autorità amministrativa lo statuire e provvedere sulle opere di qualunque natura ed in generale sugli atti, fatti, anche consuetudinari che possono avere relazione con il buon regime delle acque pubbliche") il legislatore del 1904 aveva espresso la tendenziale omnicomprensività degli accadimenti suscettibili di avere incidenza con il buon regime delle acque, così coprendo tutte le possibili evenienze, purchè suscettibili di incidere sul buon regime delle acque e rimettendole alla esclusiva competenza del Genio civile. Da tale premessa la Corte di merito fa discendere due conseguenze: l'elencazione dei manufatti di cui agli artt. 96 e 97 è una mera esemplificazione, che non esaurisce il campo di intervento della PA; l'omessa menzione delle strade in alveo tra le opere per le quali vige il divieto di realizzazione, quantomeno senza autorizzazione del Genio civile, non acquista il significato che tale utilizzo dell'alveo deve presumersi consentito e tollerato, neppure in via consuetudinaria, come invece sostenuto dalla difesa. A tale rilievo difensivo la Corte di merito ha risposto che la possibilità di configurare nell'utilizzo della via ricavata in alveo, una norma consuetudinaria, espressione del principio della transitabilità dei torrenti, è precluso, oltre che dalla configurabilità della ipotesi di reato di cui all'art. 632 c.p., dalla considerazione che tale fatto consuetudinario sarebbe in ogni caso subordinato all'ottemperanza della clausola di salvaguardia contenuta nell'art. 2 del T.U., ovverossia che tale utilizzo dell'alveo, pur in ipotesi legittimato dalla consuetudine non si ponga in contrasto con il buon regime delle acque, come invece avvenuto nel caso in esame, essendosi determinata una situazione di pericolo per la incolumità, chiaramente percepita dal funzionario apicale del Genio civile, tanto da farne oggetto di ripetuti allarmi. Alla luce di tale premessa, è stata ritenuta la sussistenza dei presupposti per l'adozione da parte del Genio civile dei poteri autoritativi riconosciutigli dalla legge, dai quali non sarebbero escluse le pubbliche amministrazioni. Sul motivo d'appello, con il quale si sosteneva l'insussistenza dell'obbligo da parte del Genio civile di adottare provvedimenti autoritativi di polizia demaniale in un sistema che prevedeva da parte del Comune e della Provincia la indizione della conferenza di servizi, la Corte di merito ha sottolineato che i provvedimenti di rimozione per la loro natura di urgenza, discendente dalla situazione di pericolo, non sopportavano i tempi della indizione della conferenza dei servizi.

    Quanto al secondo profilo (cioè quello della chiarificazione del significato e quindi della delimitazione degli esatti confini dei concetto di buon regime delle acque, come desumibile dalla lettera della legge e dalla intenzione del legislatore del 1904) la Corte di merito ha affermato che il citato art. 2 nella espressione sintetica "buon regime delle acque" compendia una varietà di interessi e di finalità rispetto alle quali ia previsione descrittiva degli artt. 96 e 97 fornisce una significativa casistica. Dalla complessiva normativa di settore emerge che la formula sintetica del "buon regime delle acque" di cui all'indicato articolo è diretta a garantire ben altre finalità oltre a quella di non alterare il corso naturale ed il libero deflusso delle acque (tra le altre, la finalità relativa alla sicurezza della navigazione, cioè all'utilizzo del fiume o del torrente secondo la sua naturale destinazione ed anche quella della sicurezza della circolazione, secondo la naturale destinazione dell'alveo, apparendo del tutto incongruo che rientri nel buon governo l'utilizzo improprio dell'alveo come strada per la circolazione dei veicoli). Conferma in tal senso il giudice di appello l'ha tratta dal testo dell'art. 97, lett. m., laddove prevede che le attività estrattive in alveo possono essere limitate o proibite dalla autorità amministrativa, ogni qualvolta riconosca poterne il regime delle acque e gli interessi pubblici o privati esserne lesi. In tale prospettiva il concetto di "buon regime delle acque", secondo il giudicante, si arricchisce di contenuti più ampi di quello di libero o regolare deflusso delle acque, potendovi essere atti, fatti, usi ed opere, come la instaurazione di una viabilità che nuocciono comunque al buon regime delle acque in quanto suscettibili di pregiudicare gli interessi della sicurezza e della incolumità.

    La posizione di garanzia del capo dell'ufficio del Genio civile, definita dal giudice di appello di "controllo" (per l'omessa neutralizzazione delle fonti di pericolo che minacciano i beni protetti) concorre, pertanto, con quella dei gestori di fatto della strada.

    La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto P. dai reati al medesimo ascritti.

    Il primo giudice riteneva che il P., rispettivamente nella qualità di responsabile del 13 e 14 settore, aveva , tra gli altri, i compiti di garantire la tutela dell'assetto territoriale tramite l'efficace gestione degli interventi dell'ente in un'ottica di salvaguardia idrogeologica, assicurando le attività di prevenzione dei rischi e delle calamità, nonchè quello di fornire indicazioni di massima (macroprogettazione) al settore " Lavori pubblici e strade (competente in materia di viabilità) per la realizzazione di opere di competenza provinciale. Da tali compiti e dalla partecipazione dell'imputato, nella qualità di rappresentante della Provincia, alla riunione tenutasi in Prefettura l'11 novembre 1994, a seguito di nota dell'ufficio del Genio civile che sollecitava un intervento teso a precludere il transito negli alvei, il giudicante, pur riconoscendo che il P. non aveva specifiche competenze in materia di viabilità, aveva affermato che i compiti al medesimo affidati gli imponevano di attivarsi per impedire - a salvaguardia della pubblica incolumità - l'improprio utilizzo stradale degli alvei e di segnalare la presenza del grave rischio per la pubblica incolumità costituente ai sensi del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 6 presupposto legittimante da parte del Presidente della Provincia dell'adozione dell'ordinanza di chiusura della strada.

    Nel riformare il giudizio, la Corte di merito ha innanzitutto evidenziato l'inidoneità degli elementi da cui il primo giudice aveva desunto l'appartenenza, anche solo di fatto, della strada nell'alveo del torrente (OMISSIS), in capo alla Provincia, mancando concreti atti di gestione della via di comunicazione ed essendo stato ritenuto sufficiente la mera inclusione del tracciato viario in alveo nella progettualità di una realizzanda infrastruttura e la circostanza che questa fosse destinata a collegare due vie provinciali.

    In secondo luogo, il giudicante ha sostenuto che, anche qualora non dovessero condividersi le conclusioni rassegnate sulla titolarità della strada, in ogni caso non era individuabile nel P. la posizione di garanzia richiesta dall'art. 40 cpv, in quanto la competenza ad intervenire affinchè non fosse realizzata e mantenuta una via allocata nell'alveo del torrente (OMISSIS), era del settore Lavori pubblici e Strade, che assomma la totalità delle competenze relative ai manufatti viari (corrispondenti a quelle che in ambito comunale appartengono alla ripartizione "strade ed impianti" ed a quella trasporti, viabilità e autoparco") e non del tredicesimo e quattordicesimo settore, diretti dal P., afferenti a profili di protezione ambientale, ad interventi nell'ambito della protezione civile, comprensivi della prevenzione dei rischi e delle calamità, i quali si pongono su di un piano di programmazione generale e di complessiva tutela dell'assetto territoriale, che appare disancorato dalla concreta gestione delle strade. Si è sottolineato in proposito che gli eventi in esame non furono conseguenza di una disastrosa alluvione, ovvero di una esortazione, perchè le acque, senza alcuna alterazione del loro regime idrogeologico, si ripresero gli spazi destinati dalla natura per il loro scorrimento e non per la circolazione.

    Propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza citata le parti civili R.A.S.C. e W. P.P.N.F.; il responsabile civile ASSESSORATO ai LAVORI PUBBLICI Regione Siciliana, oggi Assessorato delle Infrastrutture e della Mobilità, nella qualità di responsabile civile dei fatti addebitati all'ingegnere capo de Genio Civile di Messina, il COMUNE di MESSINA, G.R. e N. T.R.. E' stati altresì ritualmente depositata memoria difensiva nell'interesse delie delle parti civili C..

    Le parti civili R.A.S.C. e W.P.P.N.F. impugnano la sentenza nella parte in cui ha assolto P.C. dai reati di omissione di atti di ufficio e omicidio colposo ad esso ascritto al capo G per non aver commesso i fatti. Articolano tre motivi.

    Con il primo motivo lamentano che la Corte di merito, pur essendo stata depositata nota spese, aveva omesso di provvedere alla liquidazione delle spese processuali sostenute dalle parti civili, che avrebbero dovuto essere poste a carico dell'imputato nei cui confronti la sentenza di condanna era stata confermata ( N. T.).Si conclude sul punto chiedendo la rimessione ai sensi dell'art. 622 c.p.p. al giudice penale , anche per le spese processuali del giudizio di cassazione.

    Con il secondo motivo lamentano la manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui ha affermato che le conclusioni rassegnate dalle parti civili alla fine del giudizio di appello riproducevano quelle di primo grado con esclusione di domanda risarcitoria nei confronti dell'Assessorato Regionale. Si sostiene il travisamento del provvedimento del Tribunale di Messina che aveva estromesso l'Assessorato Regionale dalla qualifica di responsabile civile a seguito della dichiarazione di nullità della citazione.

    Ciò aveva comportato, in assenza di impugnazione sul punto, il passaggio in giudicato della sentenza, così che era erroneo affermare che le parti civili non avevano formulato le conclusioni nei confronti dell'Assessorato lasciando trasparire che le stesse non l'avessero fatto intenzionalmente.

    Con il terzo motivo si dolgono della violazione dell'art. 328 c.p. e art. 2051 c.c. sostenendo la condotta colposa dell'ing. P., che, quale responsabile del 13 settore della Provincia Regionale di Messina, ente proprietario della strada, aveva il compito di garantire la tutela dell'assetto territoriale tramite l'efficace gestione degli interventi dell'Ente sul dissesto idrogeologico del torrente (OMISSIS) nonchè di assicurare le attività di prevenzione dei rischi e delle calamità ed il coordinamento degli interventi.

    Ricorre anche il responsabile civile Comune di Messina.

    Con il primo motivo si propone la stessa censura avanzata con il terzo motivo di ricorso proposto dal G. afferente l'erronea individuazione della posizione di garanzia da parte dello stesso, che non ricopriva funzioni idonee a provvedere agli adempimenti necessari ad impedire gli eventi mortali.

    Con il secondo motivo si lamenta negli stessi termini del precedente ricorso la violazione dell'art. 328 c.p..

    Con il terzo motivo si eccepisce la prescrizione del reato previsto dall'art. 328 c.p..

    Con il quarto motivo si lamenta la violazione del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 1 e dell'art. 32 dello Statuto della Regione Sicilia sul rilievo che per legge i torrenti fanno parte del demanio regionale siciliano ed ogni intervento è di stretta competenza della Regione e per essa dell'Assessorato regionale attraverso le sue articolazioni provinciali (Genio civile).

    Con il quinto motivo si duole della violazione del D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, in quanto il Comune non avrebbe potuto provvedere agli adempimenti, ritenuti colposamente omessi dal dirigente, in mancanza di espressa previsione in bilancio.

    L'ASSESSORATO ai Lavori pubblici della Regione Siciliana, nella qualità di responsabile civile, articola diversi motivi.

    Con il primo motivo si duole della inosservanza degli artt. 328, 40 e 589 c.p. e art. 521 c.p.p.. Si sostiene, innanzitutto, l'erronea applicazione dell'art. 328 c.p. sul rilievo che la condotta pretesa dall'ing. N. non rientrava nell'ambito delle sue competenze istituzionali, che erano quelle di assicurare la funzione dell'alveo ma non era titolare di alcun potere di divieto dell'ingresso di veicoli in alveo. Ciò tento conto che la stessa Corte di merito aveva affermato che l'onda di piena non era esondata dall'alveo che con la sua sezione idraulica naturale era stato in grado di contenerla. La questione della viabilità rientrava invece nelle competenze istituzionali del Comune, che gestiva di fatto la via di comunicazione con la conseguente applicazione della normativa prevista dal codice della strada (art. 6, comma 4, art. 2, comma 7).

    Il ricorrente, da parte sua, aveva provveduto ad allertare, come dimostrato documentalmente, il Comune dello stato di pericolo. Pur non rientrando tali iniziative nei suoi compiti istituzionali. Si ribadisce, pertanto, che al Genio civile spetta di assicurare il buon regime delle acque pubbliche, nella fattispecie non posto in discussione.

    Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata perchè ha inteso individuare una posizione di garanzia laddove non sussisteva alcun dovere giuridico di impedire l'evento lesivo. Si sostiene l'insussistenza dell'obbligo giuridico del Genio civile di adottare provvedimenti autoritativi di polizia demaniale nei confronti delle altre pubbliche amministrazioni (in particolare Comune e Provincia) a cui la legge attribuisce concorrenti funzioni amministrative nell'ambito dell'assetto del territorio e più in particolare nell'ambito dell'assetto del demanio fluviale.

    L'unico strumento riconosciuto dall'ordinamento per la gestione degli alvei torrentizi, secondo la difesa, è la conferenza di servizi, a norma della L. n. 241 del 1990, art. 14, la quale, peraltro, doveva essere indetta dal Comune o dalla Provincia, in quanto competenti ad adottare i provvedimenti finali (realizzazione di un nuovo assetto viario, chiusura della viabilità, apposizione di cartelli indicatori di pericolo) ipotizzati dalla sentenza impugnata. In questa prospettiva corretta fu da parte dell'ing. N. l'attività propulsiva e di sensibilizzazione, mentre l'adozione di qualsiasi altro provvedimento sarebbe stata illegittima in quanto diretta a perseguire finalità diverse da quelle istituzionalmente attribuite al Genio civile. Si sostiene la manifesta illogicità della motivazione laddove afferma che non sarebbe stata opportuna l'attivazione di una conferenza di servizi, data l'urgenza della situazione. Strettamente collegata alla precedente è la censura sulla ricostruzione del nesso di causalità omissiva contenuta nella sentenza impugnata fondata su di un ipotetico processo dinamico costituito da quei provvedimenti sopra indicati che non erano di competenza del Genio civile. Si sostiene, inoltre, la non condivisibilità della motivazione in materia di ascrivibilità in capo al Genio civile del potere dovere di intervenire in autotutela essendo fuori luogo i riferimenti giurisprudenziali e normativi posti a sostegno della tesi. La giurisprudenza, anche amministrativa, citata dalla Corte di merito, avrebbe riferimento all'autotutela amministrativa del Genio civile in materia di costruzione di opere nell'alveo o di rimessa in pristino del letto del torrente e non sarebbe pertanto applicabile al caso di specie che si caratterizza per la certificata assenza di situazioni di pericolo per la corretta regimazione delle acque. Nella ricostruzione dei poteri afferenti al Genio civile la Corte territoriale sarebbe stata condizionata dai provvedimenti adottati all'indomani della tragedia, ai sensi del R.D. n. 523 del 1904, art. 93, senza tener conto che l'esercizio di quel potere trovava la sua giustificazione nella circostanza che a seguito dell'onda di piena era venuto meno l'argine del terreno e che, pertanto, la finalità era quella di provvedere alla regolare regimazione delle acque e non alla viabilità ed alla circolazione.

    Con il terzo motivo lamenta l'erronea applicazione dell'art. 589 c.p. sul duplice rilievo che la causa dell'evento lesivo non era stata una esondazione delle acque dall'argine ma la presenza nell'alveo delle autovetture, sulle quali si abbattè l'irresistibile forza trascinante delle onde e la condotta colposa delle vittime.

    Quanto al primo profilo, si reitera l'assenza di poteri impeditivi in capo al ricorrente e la condotta inoperosa delle autorità territoriali competenti in carica al momento del fatto.

    Sotto il secondo profilo si evidenzia che il passaggio dell'onda di piena dei torrenti (OMISSIS) non si era verificato imprevedibilmente ma in autunno in ora notturna allorchè imperversava da parecchi minuti un nubifragio di eccezionale intensità e le vittime avrebbero dovuto evitare di esporsi al grave pericolo, essendo evidente l'insidia.

    Con il quarto motivo lamenta la violazione del principio di correlazione tra l'imputazione e la sentenza dal momento che la contestazione al N. di aver cagionato per colpa l'inondazione del Torrente (OMISSIS) era stata confutata dalla prova peritale del regolare funzionamento del regime di raccoglimento delle acque nell'alveo. Il Tribunale, modificando un elemento essenziale del nesso di causalità, aveva attribuito all'imputato gli obblighi invece gravanti sul gestore della strada, così violando il principio di correlazione. Si censura quale illogica la motivazione della Corte di merito su punto, secondo la quale la sequenza causale, descritta nel capo di imputazione, anche se viene meno l'elemento intermedio della serie (l'onda di piena), una volta rimasti invariati i termini della condotta e dell'evento finale, deve ritenersi immodificata nei suoi elementi essenziali. Sul punto si sostiene che nel caso in esame soltanto il verificarsi dell'onda di piena, in quanto espressione dell'irregolare regimazione delle acque, a causa di un cattivo raccoglimento delle acque, avrebbe consentito la configurazione del reato omissivo in capo al Genio civile.

    Con l'ultimo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione laddove nella parte finale della motivazione la Corte di merito, dopo aver dato atto delle inadempienze storiche che avevano consentito il maturarsi dei tragici eventi, rileva "con disagio ed amarezza" che la condanna viene a colpire l'unico funzionario che quantomeno aveva fatto sentire la sua voce purtroppo inascoltata.

    Nell'interesse di G.R. si censura la sentenza con cinque motivi.

    Con il primo motivo si lamenta la mancanza di motivazione sulla genesi della posizione di garanzia da lui ricoperta, pur a fronte della sentenza del primo giudice, che, su conforme richiesta del PM, lo aveva mandato assolto in difetto di specifiche attribuzioni e competenze in materia di sicurezza stradale. La sentenza di primo grado aveva infatti chiarito che il G.: non aveva mai diretto la "Ripartizione Trasporti Viabilità ed Autoparco", che avrebbe potuto predisporre la realizzazione della segnaletica orizzontale e verticale che avrebbe dovuto impedire il traffico veicolare nella strada precaria realizzata nell'alveo del torrente (OMISSIS); nè lo stesso aveva la competenza di emettere ordinanze di chiusura al traffico di qualsivoglia strada comunale, compito riservato alla ripartizione viabilità, come dimostrato dal fatto che in epoca successiva ai fatti, fu proprio il direttore di quella Ripartizione municipale a dare incarico agli organi tecnici comunali competenti di trasmettere un dettagliato elenco degli accessi agli alvei al fine di predisporre l'eventuale apposizione di cartelli segnaletici; alla Ripartizione Strade Impianti del Comune di Messina non era addebitabile la realizzazione della strada e le opere successive, come risultava documentalmente e dalle testimonianze acquisite.

    Si sostiene che la strada in alveo sul torrente (OMISSIS) era stata realizzata da privati molti anni prima della nomina del G. a capo della Ripartizione Strade ed Impianti e che nessuna bitumatura e nessuna illuminazione sull'alveo del torrente (OMISSIS) era mai stata eseguita dal Comune di Messina.

    Si sostiene, sotto altro profilo, l'utilizzo improprio della strada in alveo,emergendo dalle deposizioni testimoniali l'esistenza di un'altra strada che avrebbe consentito alla famiglia C. di raggiungere la propria abitazione la sera dell'incidente.

    Con il secondo motivo si lamenta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. La Corte di merito aveva fondato la responsabilità dell'imputato nell'avere individuato un sito errato ove realizzare la strada e nel non avere adottato determinati accorgimenti tecnici in sede di realizzazione della via di collegamento mentre nel capo di imputazione si contestava di avere omesso le procedure finalizzate alla emissione dei provvedimenti di chiusura della viabilità precaria esistente nel torrente (OMISSIS) e di avere eseguito lavori relativi all'impianto di illuminazione pubblica o di bitumazione della strada tali da far sorgere nei cittadini l'incolpevole affidamento della esistenza di una pubblica via. La responsabilità dell'ente pubblico andava ricercata proprio nei confronti di quei soggetti (il Sindaco ed il Dirigente della Ripartizione trasporti e viabilità) che avrebbero potuto interdire il traffico quantomeno in determinati periodi dell'anno.

    Con il terzo motivo si duole della manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla individuazione della posizione di garanzia da parte della Corte di merito che non aveva preso in considerazione il dato pure emergente dagli atti che il G. aveva cessato di ricoprire l'incarico di responsabile della Ripartizione Strade ed impianti in data 15 maggio 1996, vale a dire due anni e quattro mesi prima dell'evento alluvionale del 27 settembre 1998 e che cinque mesi dopo la cessazione dell'incarico si era verificata nell'ottobre del 1996 una devastante alluvione che aveva portato al centro dell'attenzione i problemi della realtà territoriale di Messina e dei torrenti e la previsione che il fenomeno alluvionale non era un fatto eccezionale ma che si sarebbe ripetuto negli anni a venire. Tale previsione avrebbe dovuto innescare l'attivazione di iniziative da parte degli organi competenti rivolte a mettere in sicurezza la strada del torrente (OMISSIS). Conferma in tal senso viene tratta dal decreto di archiviazione emesso dal GIP presso il Tribunale di Messina nei confronti dei successori dell'Ing. G. nella direzione della Ripartizione Strade ed Impianti, laddove si dava atto che a seguito dell'ulteriore note del Genio civile in data 6 marzo 1998 l'ufficio Ripartizione si era attivato dando incarico per la redazione dei progetti inerenti la sistemazione idraulica dei torrenti, tra cui il (OMISSIS).

    Con il quarto motivo si lamenta l'erronea applicazione dell'art. 328 c.p., sul rilievo che la Corte di appello aveva fondato la responsabilità civile del G. sulla mancata adozione di provvedimenti che non rientravano nelle sue competenze.

    Con il quinto motivo si eccepisce la prescrizione del reato di cui all'art. 328 c.p., maturata in epoca antecedente alla sentenza di primo grado.

    Nell'interesse di N.T.R. vengono articolati nove motivi. In premessa si sostiene che la Corte di merito, trascurando di approfondire l'articolazione delle distinte competenze intercorrenti tra ufficio del Genio civile e uffici del Comune e della Provincia di Messina in relazione ai profili relativi al governo delle acque e della viabilità e circolazione" aveva erroneamente configurato in capo all'Ing. N. una posizione di garanzia extra ordinem, in quanto la funzione dallo stesso ricoperta non gli conferiva i poteri impeditivi che indicano la posizione di garanzia in rapporto alla tipologia degli eventi dannosi verificatisi.

    Ciò premesso, si lamenta l'errata applicazione della normativa di settore, con particolare riferimento alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 378, all. F., in relazione al R.D. 25 luglio 1904, n. 523, art. 2 e art. 97, lett. c).

    Il ricorrente ritiene che il giudicante aveva erroneamente ritenuto che detta disciplina attribuisca all'Autorità amministrativa poteri di polizia mentre le attribuzioni affidate all'ufficio del Genio civile attengono in realtà esclusivamente alla "Polizia delle acque Pubbliche" ed alla "Polizia idraulica" mentre non attengono al controllo della viabilità precaria, fermandosi alla valutazione della compatibilità con il particolare regime delle acque di quelle opere, che, consentendo di accedevi, potrebbero interferire con il regolare deflusso delle acque e con la stabilità degli argini. Si sostiene, pertanto, che la tutela delle persone che si trovino eventualmente all'interno dell'alveo non riguarda la competenza idraulica o delle acque ma un profilo connesso alla viabilità e circolazione la cui sicurezza può essere assicurata soltanto con provvedimenti dell'Autorità a ciò preordinata, cioè l'ente proprietario della strada, e, quindi, il Comune o la Provincia, come il divieto di transito o la chiusura materiale dei varchi, anche avvalendosi degli organi di polizia, in conformità alla normativa espressamente prevista dal codice della strada.

    Si afferma di non condividere l'assunto della Corte di appello, secondo il quale sarebbe illegittima la realizzazione di una strada nel letto di un torrente in quanto essa rappresenterebbe una immutazione dei luoghi che rileverebbe quale reato ai sensi dell'art. 632 c.p.. Sul punto si sostiene che proprio il R.D. n. 523 del 1904 prevede la possibilità di "qualunque opera fatta entro gli alvei" e si rappresenta che la fattispecie di cui al citato art. 632 c.p. è integrata non tanto dalla mera immutazione dello stato dei luoghi quanto piuttosto dall'assorbimento del luogo medesimo entro una prospettiva di convenienza funzionale ed esecutiva in cui predomina l'interesse privato, essendo comunque richiesta la finalizzazione della condotta al perseguimento di un interesse privato. Sempre, con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 632 c.p. si precisa che la fattispecie distingue la generica immutazione dello stato dei luoghi da quella suscettibile di interferire con le acque richiedendo a tal fine la deviazione delle medesime.

    La normativa di settore, secondo l'assunto difensivo, non prevede alcun potere impositivo del Genio civile finalizzato ad ottenere la demolizione di opere che nella prospettiva della tutela delle acque sono legittime in quanto non hanno in alcun modo ostacolato il regime idrico, come reso evidente dall'omessa indicazione da parte dei giudici di merito di una norma in tal senso. La competenza del genio civile di cui al R.D. n. 523 del 1904, artt. 2, 96 e 97 è prevista solo nella misura in cui le opere ivi elencate possano incidere sul regolare deflusso delle acque che potrebbe essere alterato dalla alterazione degli argini o dalle attività estrattive. Si contesta, pertanto, il significato estensivo fornito dalla Corte al concetto di buon regime delle acque, comprensivo anche della sicurezza della circolazione. Si contesta altresì l'interpretazione fornita dal giudice di appello all'art. 97, lett. m), secondo il quale le attività estrattive in alveo possono essere limitate o proibite dalla autorità amministrativa ogniqualvolta riconosca poterne il regime delle acque e gli interessi pubblici o privati esserne lesi.

    Da tale norma la Corte di merito aveva tratto la conferma testuale dei più ampi poteri conferiti al Genio Civile. Secondo la difesa la norma citata si riferisce soltanto alle attività estrattive in alveo e, prevedendo la tutela di interessi pubblici e privati distinti, dimostrerebbe proprio che il legislatore ha voluto limitare la competenza del Genio civile in ordine alla tutela di interessi diversi da quello del buon regime delle acque soltanto nel caso di attività estrattive, proprio in ragione della incidenza che esse possono avere sul buon regime delle acque. Conferma di tale interpretazione la difesa trae dal dato che nell'analitica elencazione delle opere, fatti, usi vietati dal T.U. del 1904 contenuta nella sentenza impugnata non sono ricomprese nè la formazione di strade nè il transito lungo i torrenti, trattandosi di opere che per loro natura non interferiscono con il regolare deflusso delle acque e che soltanto nella misura in cui ciò avvenga, concretizzandosi in opere stabili limitanti la sezione idraulica dell'alveo, possono attivare la competenza del Genio civile.

    Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 589 e 40 cpv. sostenendo l'insussistenza della posizione di garanzia del ricorrente, privo di un effettivo potere realmente impeditivo degli eventi, verificatisi a causa del transito in quel momento delle autovetture all'interno dell'alveo del torrente e non certo a causa dell'esondazione o della rottura degli argini. Si sostiene che a tutto concedere potrebbe semmai riconoscersi in capo all'Ing. N. quale responsabile dell'ufficio del Genio civile un mero obbligo di segnalazione, obbligo pienamente adempiuto dal ricorrente attraverso le comunicazioni ed i reiterati inviti al Comune di Messina affinchè provvedesse sui profili concernenti la viabilità e la circolazione sull'alveo del fiume.

    Nè a risultati significativamente diversi si sarebbe giunti se l'ufficio amministrativo avesse adoperato lo strumento dell'ordinanza.

    Con il terzo motivo si duole della violazione del principio di stretta legalità sul rilievo che il giudice di appello aveva interpretato le competenze del Genio civile in un'ottica tendenzialmente omnicomprensiva dilatandole al punto che il buon regime delle acque aveva finito per comprendere qualsiasi profilo attinente alla complessiva sicurezza delle attività in alveo in quanto, come sostenuto in sentenza, accanto al regime delle acque si colloca una serie non determinabile a priori di interessi, sia pubblici che privati. Tale interpretazione concretizzerebbe una inammissibile caso di estensione analogica in malam partem e di responsabilità al di fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge, laddove il principio solidaristico aveva già trovato una sua puntuale espressione nella disciplina dei poteri degli uffici comunali in rapporto ai profili collegati alla viabilità ed alla circolazione. Con il quarto motivo si lamenta la mancanza di motivazione in relazione alla pretesa posizione di garanzia ed alla causalità omissiva.

    Quanto al primo profilo si sottolinea ancora una volta l'omessa indicazione dei poteri impeditivi che il ricorrente avrebbe dovuto esercitare, oltre a quanto aveva già fatto, segnalando ripetutamente e reiteratamente al Comune di Messina i profili di rischio. Si sostiene altresì che la sentenza non avrebbe indicato neanche quale sarebbe dovuto essere il comportamento alternativo doveroso che avrebbe scongiurato i danni in concreto verificatisi. Sul punto i giudici di appello avevano affermato che i poteri del dirigente del Genio Civile rientrerebbero in una posizione definita di "controllo", per l'asserita omessa neutralizzazione delle fonti di pericolo che minacciavano i beni protetti e si erano limitati a richiamare del tutto apoditticamente lo schema del giudizio contro fattuale, senza adeguarlo al caso concreto. Si sottolinea la genericità ed anche l'indeterminatezza degli unici due passaggi in cui la sentenza indica le azioni che fissate preventivamente dalla legge come doverose avrebbero evitato l'evento. Si tratta dei passaggi in cui la Corte d'appello individua, con riferimento al N., quale azione doverosa omessa, la colposa tolleranza della strada in alveo, indicando un ventaglio di condotte asseritamente idonee (provvedimenti impeditivi del transito, ovvero ordinanze con cui si ingiungeva ai titolari delle strade la loro eliminazione, o, quantomeno, la realizzazione degli accorgimenti minimali al fine di assicurare la incolumità degli utenti), senza indicare le fonti normative che imporrebbero al Genio civile l'adozione dei suddetti provvedimenti. Si censura come contraddittoria la sentenza che dopo l'elencazione dei citati provvedimenti affermava la rilevanza sotto il profilo causale non dell'aver tollerato l'utilizzo della strada (omissione non sufficiente in quanto avrebbe comportato solo l'aumento del rischio del verificarsi dell'evento) ma della omessa rimozione ed effettiva chiusura della strada come del resto affermato successivamente nella medesima sentenza.

    Sotto tale profilo si rinviene una ulteriore illogicità della motivazione laddove non aveva tenuto conto di un dato, emergente dallo stesso provvedimento, sia pure con riferimento alla posizione del P., afferente la circostanza che la via del torrente (OMISSIS), al contrario del torrente (OMISSIS), si snoda al di fuori del centro abitato con tracciato indistinto dal letto del torrente senza apparenza di opere accessorie e di manutenzione che potesse far desumere da parte della pubblica amministrazione una volontà di tollerare che quella traccia viaria mantenesse connotazioni di strada pubblica.

    Con il quinto motivo, strettamente connesso, si sostiene la nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione giacchè la contestazione prevedeva come condotte doverose omesse il non avere emanato i provvedimenti finalizzati alla chiusura della viabilità precaria ed alla rimozione delle rampe di accesso ai luoghi di residenza realizzate nello stesso alveo e l'avere omesso la rimozione e l'effettiva chiusura della strada.

    Con il sesto motivo si lamenta che la Corte di merito si era limitata a verificare la violazione della regola cautelare ma non aveva accertato in concreto che tale regola fosse diretta ad evitare proprio il tipo di evento di danno verificatosi.

    Con il settimo motivo si duole della omessa motivazione sul motivo di impugnazione rivolto ad evidenziare l'incolpevole rappresentazione da parte del N. dell'efficacia dei suoi interventi presso il Comune di Messina ed in generale la ragionevole aspettativa della messa in regola della situazione relativa alla viabilità ed alla circolazione da parte del Comune.

    Con l'ottavo motivo lamenta l'erronea applicazione della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 328 c.p. sia nella forma del rifiuto (comma 1) che nella forma di omissione di atti di ufficio (comma 2), non ricorrendo nè una condotta di rifiuto nè di omissione. Sotto lo stesso profilo, si sostiene che la Corte di merito aveva trascurato di considerare che alla base del comportamento amministrativo del ricorrente vi era stato quantomeno un errore di fatto sulle circostanze fattuali che, per come rappresentate dall'ing. N., escludevano un qualsiasi dovere diverso da quello di segnalazione e sollecitazione.

    Con il nono motivo lamenta l'omessa motivazione dei capo relativi alle pena ed alle conseguenze civili, nonostante specifico motivo di impugnazione che aveva evidenziato il contributo causale minimo dell'ing. N. ed il concorso di colpa delle vittime.

    E' stata depositata una memoria difensiva nell'interesse delle parti civili C. con la quale si chiede la conferma della sentenza di secondo grado, che ha compiutamente esaminato e ricostruito l'intera vicenda. Oltre a fare riferimento alle memorie difensive presentate nei precedenti gradi di merito si evidenzia che : l'ondata di piena del torrente (OMISSIS) non fu conseguenza di un evento eccezionale in quanto l'evento piovoso era caratterizzato da un tempo di ritorno fra i cinque e dieci anni, come dimostrato dal fatto che un evento similare, con danni solo alle cose, si era verificato due anni prima ed un altro nel 2000; le capacità devastanti dell'onda di piena - che ebbe la breve durata di 19 minuti - furono determinate anche dal trasporto conseguente alla demolizione di cospicue opere murarie esistenti in alveo, ignorate dal Comune e dal Genio civile; l'evento era, pertanto, del tutto prevedibile ed evitabile attraverso l'adempimento degli obblighi gravanti sui responsabili del Comune e sul capo del Genio Civile di Messina. La memoria passa poi ad esaminare i singoli ricorsi proposti dagli imputati e dai responsabili civili, confutandoli analiticamente e chiedendone il rigetto.

    E' stata altresì depositata memoria difensiva nell'interesse dell'imputato N.T.. Si articola un unico motivo nuovo con il quale si lamenta sotto più profili la violazione dell'art. 40 cpv. c.p. e la contraddittorietà della motivazione. Si sostiene innanzitutto che le norme di cui al R.D. n. 523 del 1904 sono dirette a tutelare esclusivamente il "buon regime delle acque pubbliche" e che si riferiscono esclusivamente alle opere idrauliche, cioè a tutti i manufatti realizzati al fine della regimazione delle acque, tra cui non rientrano le strade, realizzate con ben altra finalità.

    La "regolarità dell'opera" ha pertanto come punto di riferimento soltanto il profilo della corretta regimazione delle acque e non quello della sicurezza della circolazione, che non compete al Genio civile ma al Sindaco e/o dirigente dell'ufficio comunale in base alle norme del codice della strada.

    In tale prospettiva si evidenza che: il R.D. n. 523 del 1904, art. 93, nel vietare la possibilità di costruire opere senza il permesso dell'autorità amministrativa, si riferisce esclusivamente alle opere idrauliche; gli artt. 96 e 97 del medesimo decreto ricomprendono, al contrario di quanto sostenuto dalla Corte di merito, elenchi tassativi, come riconosciuto dai giudici amministrativi. Con specifico riferimento al significato da attribuire al "buon regime delle acque pubbliche" si sottolinea che tale espressione ha riferimento al regolare deflusso delle acque demaniali e che pertanto l'obbligo di statuire e provvedere sulle opere idrauliche in capo all'autorità amministrativa è limitato a quelle opere che possono avere relazione con il regolamento del deflusso delle acque.

    In tal senso si ritiene non condivisibile quanto affermato dalla Corte di merito che dalle eventuali limitazioni e divieti previsti per le attività estrattive in alveo dall'art. 97, lett. m) del citato decreto ha fatto discendere che la tutela di interessi sia pubblici che privati sia dal T.U. in ogni caso affidata al Genio civile. Si ritiene altresì non condivisibile l'interpretazione fornita dalla Corte di merito all'art. 97, lett. c), secondo la quale tale norma esprime, seppure con linguaggio arcaico, che l'eventuale presenza di strade nel corpo degli alvei sia subordinata all'autorizzazione del Genio civile. Sul punto si sostiene che l'autorizzazione dell'ufficio del Genio civile riguarda esclusivamente la stabilità del corpo dell'argine che potrebbe essere compromessa dall'opera che si intende realizzare per l'accesso all'alveo che consente lo stabilimento di comunicazione ai beni e non la via di transito saltuaria tra due sponde in senso ortogonale al percorso della via d'acqua, come sostenuto dalla Corte territoriale.

    Nessuna autorizzazione era pertanto richiesta nel caso in esame in cui la strada non ostacolava il deflusso dell'acqua.

    Si prospetta, infine, alla luce delle considerazioni sopra esposte, la configurabilità dello sviamento di potere nell'ipotesi in cui il N.T. avesse emesso un provvedimento con cui ordinava al Comune la rimozione o la chiusura della strada, dato che tale competenza non è prevista dalla normativa di settore. Nè sarebbe invocabile la L. n. 241 del 1990, art. 21 quinquies, visto che il potere di revoca e modificazione degli atti e delle situazioni divenute incompatibili con la destinazione pubblica del bene risulta attribuito all'Ente pubblico che aveva in passato emanato gli atti o creato le situazioni de quo. Nè il citato regio decreto prevede il conferimento del potere revocatorio al Genio civile.

    Sì sostiene che il potere di adottare provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di incolumità pubblica e sicurezza spetta al Sindaco ex D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 54. Si sottolinea, infine, la vigenza all'epoca dei fatti della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 32, comma 7, che prevedendo il pagamento di un canone, per l'utilizzo delle superfici destinate all'attraversamento di torrenti o fiumi, confermerebbe la liceità di tali manufatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, secondo la quale l'attraversamento delle strade costruite nei fiumi o torrenti deve ritenersi una consuetudine contra legem.

    CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi di G.R., N.T.R., Comune di Messina e Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia sono infondati.

    Quanto al ricorso proposto dal G., i motivi con cui si censura la sussistenza della posizione di garanzia sono di mero fatto, sostanziandosi non in una contestazione in diritto dei principi applicati, quanto piuttosto e solo in una prospettazione diversa da quella operata dal giudicante in ordine al ruolo svolto nella vicenda dalla Ripartizione municipale cui il G. era addetto e circa la posizione di garanzia che conseguentemente il medesimo veniva a ricoprire. La ricostruzione del giudicante non presta il fianco a censure di manifesta illogicità e la rilettura degli elementi probatori posti a fondamento della decisione non è qui consentita.

    Correttamente è stato argomentato l'addebito omissivo, sub specie della fattispecie incrtminatrice di cui all'art. 328 c.p., comma 1, sia pure ai limitati fini civilistici imposti dalla sola impugnazione delle parti civili.

    Invero, il giudicante, dopo avere individuato nel G., nella qualità di dirigente della Ripartizione strade ed impianti, il titolare del dovere di vigilare sulla situazione di pericolo, ha apprezzato in capo al medesimo anche il connesso obbligo di attivarsi per eliminare tale situazione di pericolo, resa palese dai fenomeni alluvionali manifestatisi sul territorio.

    Tale ricostruzione, come detto incensurabile in fatto, è anche giuridicamente corretta ove si consideri che il reato di che trattasi è compiutamente integrato sia dall'indebito diniego o dall'inerzia di comportamento doveroso in presenza di una richiesta o di un espresso ordine, sia - pur in assenza di tali specifiche sollecitazioni- quando sussista un'urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell'atto che, "per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità", debba essere compiuto senza ritardo.

    Infatti, il rilievo dato dalla norma alla oggettiva impellenza di determinati interventi ("indebitamente rifiuta un atto...che deve essere compiuto senza ritardo") induce a ritenere che la sollecitazione al compimento dell'atto, ove non sia espressamente prevista la necessità di una richiesta o di un ordine, ben può essere costituita anche dalla evidente sopravvenienza dei presupposti oggettivi che richiedono l'intervento e l'adozione dell'atto.

    Cosicchè, per intenderci, a fronte di una urgenza sostanziale impositiva dell'atto, dimostrata dai fatti oggettivi posti all'attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, potrebbe sostenersi che l'inerzia omissiva del medesimo assuma valenza di rifiuto ed integri, quindi, la condotta punita dalla norma (cfr.

    Sezione 6, 20 febbraio 1998, Buzzanca; Sezione 6, 19 novembre 2008, Orso e, da ultimo, 7 gennaio 2010, P.G. in proc. Acquesta, rv.

    246081).

    Tale interpretazione estensiva del dato letterale della norma non sembra vulnerare il principio di tassatività della norma penale perchè e purchè si verifichi la sussistenza, nella fattispecie concreta, del dato oggettivo della indifferibilità dell'intervento doveroso da parte del pubblico ufficiale; e, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza in capo al medesimo della consapevolezza della necessità indifferibile di intervento, la cui omissione viene ad integrare implicitamente la situazione del rifiuto. Se ricorrono entrambe queste condizioni, oggettive e soggettive, non ci si trova in presenza solo di una mera inerzia ovvero di un non tacere inidonei a qualificare negativamente la volontà del soggetto; bensì di una situazione tale da consentire di qualificare tale volontà come espressiva di un "rifiuto implicito", penalmente sanzionabile. In una tale accezione ermeneutica, il rifiuto preso in considerazione dalla norma non sarebbe quindi necessariamente correlato ad una previa richiesta, ma sarebbe da intendere quale atteggiamento, anche implicito, di negazione, svincolato da qualsivoglia, esplicita e diretta sollecitazione esterna.

    A supporto di detta interpretazione estensiva, argomenti positivi possono essere tratti dalla lettura sistematica delle fattispecie incriminatrici penali caratterizzate dal rifiuto di una condotta doverosa, laddove il rifiuto sanzionato è espressamente collegato alla non soddisfazione di una correlata, esplicita "richiesta": cfr.

    l'art. 329 c.p. (rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica: "il militare o l'agente della forza pubblica, il quale rifiuta...indebitamente di eseguire una richiesta..."), art. 366 c.p., comma 2 (rifiuto di uffici legalmente dovuti: "le stesse pene si applicano a chi...rifiuta di dare le proprie generalità, ovvero di prestare il giuramento richiesto...") e art. 651 c.p. (rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale: "chiunque, richiesto...rifiuta di dare indicazioni...").

    L'apprezzamento operato in sentenza ai soli fini civilistici rende irrilevante ogni questione in punto di prescrizione.

    Non sussiste alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ove si consideri che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, secondo assunto pacifico, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso I1 iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sezione 4, 22 settembre 2011, G.).

    Ciò che qui deve ritenersi, osservando proprio l'ampia disamina processuale che bene ha consentito all'imputato di prospettare la propria versione difensiva.

    Proprio l'addebito omissivo, come ricostruito in sentenza, giustifica la ipotizzata contestazione a titolo di omicidio colposo.

    Anzi, coerenza giuridica avrebbe voluto, che, in ragione dell'ipotesi dolosa del rifiuto, il fatto omicidiario avrebbe dovuto essere qualificato ex art. 586 c.p. E' ovvio che, essendovi sul punto solo il ricorso dell'imputato, da questa diversa qualificazione non possono farsene discendere conseguenze.

    Anche il ricorso proposto nell'interesse di N.T. (il quale ha espressamente rinunciato alla prescrizione), pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva, non può trovare accoglimento, in quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa e di nesso di causalità.

    Quanto al reato di rifiuto di atti di ufficio, valgono le analoghe considerazioni svolte sopra con riferimento alla posizione del G..

    Va solo precisato, dovendosi in tal senso chiarire e puntualizzare la motivazione della sentenza gravata e le contestazioni elevate agli imputati, che qui non vi è certo materia per poter configurare l'omissione di atti d'ufficio, di cui all'art. 328 c.p., comma 2, già sotto il profilo materiale. La fattispecie incriminatrice di cui all'art. 328 c.p., comma 2, infatti, si applica solo nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione, nel senso che è diretta ad apprestare tutela all'interesse del privato cittadino "interessato" che avanza formale richiesta al pubblico ufficiale (o incaricato di un pubblico servizio) di adempimento di un atto dei suo ufficio e, comunque, di risposta per comunicare le eventuali ragioni del ritardo. Il reato è costruito sulla base di una richiesta/diffida ad adempiere avanzata dal privato "interessato" ad uno specifico atto cui il pubblico ufficiale non corrisponde, nè compiendo l'atto doveroso, nè giustificando il ritardo.

    E' un'ipotesi che qui non è configurabile (senza che ci si debba oltre soffermare nè sul requisito dell'interesse, nè sulle modalità della "diffida ad adempiere").

    Invece, più correttamente, ma in tal senso regge, con queste puntualizzazioni, la sentenza gravata, qui è stato ipotizzato il reato di rifiuto di atti d'ufficio, di cui all'art. 328 c.p., comma 1.

    Come si è visto relativamente al ricorso del G., incensurabilmente è stata esaminata e affermata la posizione di garanzia dei prevenuto, e, sempre secondo una ricostruzione della vicenda non rinnovabile, è stato evidenziato il comportamento inerte che, per le circostanze fattuali, ha assunto i caratteri del rifiuto indebito rispetto ad attività prevenzionali e precauzionali, dirette a salvaguardare la sicurezza pubblica, che le emergenze del territorio rendevano indifferibili ed indilazionabili.

    La motivazione fornita dai giudici di merito sulla posizione di garanzia dell'ingegner N., nella qualità di capo dell'Ufficio dei Genio civile di Messina, resiste alle censure contenute nei motivi di ricorso.

    Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v.

    efficacemente Sezione 4, 18 marzo 2008, n. 22154, PG in proc. Gualano ed altri, Sezione 3, 22 settembre 2004, n. 40618, Lilli ed altro, Sezione 4, 22 maggio 2007, n. 25527, Conzatti) l'obbligo di garanzia è obbligo giuridico, che grava su specifiche categorie predeterminate di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela; per mutuare una espressione dottrinaria, "deve trattarsi di un vincolo giuridico, che formalizza il rapporto di dipendenza sussistente tra l'azione doverosa del garante e la tutela del bene giuridico". Il suo carattere distintivo rispetto ad altri obblighi di agire è la titolarità, in testa al garante, di un obbligo di impedire l'evento scaturente da un potere impeditivo, il cui mancato esercizio conduce alla equiparazione della omissione non impeditiva all'azione causale. Trattandosi di un obbligo giuridico gravante su specifiche categorie di soggetti (i garanti) forniti dei necessari poteri giuridici di vigilanza ed intervento direttamente incidenti sulla situazione di pericolo, al fine di impedire eventi lesivi di beni altrui, la sua violazione può esser fonte di responsabilità penale talora di per sè, indipendentemente dal verificarsi di eventi lesivi, in virtù di un'autonoma incriminazione di carattere preventivo di pericolo (come avviene, ad esempio, nella fattispecie di cui all'art. 677 c.p., comma 3: i primi due commi di tale norma sono stati depenalizzati dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, art. 52); altra volta attraverso il combinato disposto, per quanto nella specie rileva, dell'art. 40 c.p., comma 2 e delle norme concernenti le fattispecie causalmente orientate, come quella in esame, nelle quali la norma indica l'evento ma non il meccanismo di produzione del medesimo.

    La fonte di tale obbligo deve essere una norma di legge extrapenale o un contratto, sicchè in mancanza di una fonte legale o contrattuale non sussiste alcuna posizione di garanzia ai sensi dell'art. 40, comma 2.

    V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: gli obblighi di protezione e quelli di controllo.

    La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell'incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l'integrità sessuale dei minori).

    Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l'obbligo di protezione può derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).

    La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il fondamento normativo nell'art. 2050 c.c. - il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc. In ossequio, peraltro, al "principio di legalità-tassatività", la fonte (vuoi legale, vuoi contrattuale) dell'obbligo di garanzia deve essere sufficientemente determinata, nel senso che deve imporre obblighi "specifici" di tutela del bene protetto: esulano perciò dall'ambito operativo della responsabilità per causalità omissiva ex art. 40 cpv. c.p. gli obblighi di legge indeterminati, fosse pure il dovere costituzionale di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), che costituisce il generale fondamento costituzionale della responsabilità omissiva, ma per sè stesso non può essere assunto a base delle specifiche responsabilità omissive dei singoli reati.

    Inoltre, in ossequio al "principio della responsabilità penale personale", la condizione di "garante" rispetto ad un bene da tutelare presuppone in capo al soggetto il potere giuridico di impedire (a lesione del bene, ovverosia quell'evento (reato) indicato dall'art. 40 cpv. c.p.. Infatti, quando questa norma precisa che "non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo" fonda la responsabilità penale dell'emittente non solo sull'obbligo, ma anche sul connesso potere giuridico di questi di impedire l'evento: responsabilizzare un soggetto per non avere impedito un evento, anche quando egli non aveva alcun potere giuridico, oltre che materiale, per impedirlo, significherebbe, in vero, vulnerare palesemente il principio di cui all'art. 27 Cost., comma 1.

    In particolare, per quel che concerne, i poteri impeditivi, deve trattarsi di poteri giuridici intestati al garante da una specifica norma, contenutisticamente afferente a doveri di vigilanza e di intervento diretto sulle situazioni di rischio, il cui mancato esercizio giustifica l'imputazione obiettiva dell'evento non impedito, ascrivibile al garante per il principio della responsabilità personale di cui all'art. 27 Cost.; ne consegue che la responsabilità del garante per l'omissione impropria comporta pur sempre l'accertamento che l'impedimento dell'evento rientrava tra i poteri-doveri dell'obbligato, che, cioè, l'evento effettivamente verificatosi si inserisca nel novero di quei tipi di evento che l'obbligo di garanzia mirava, appunto, a prevenire. E' soltanto l'obbligo impeditivo che legittima l'equiparazione - secondo la c.d.

    clausola di equivalenza - del non impedire e del causare: dalla causalità omissiva alla causalità attiva.

    In particolare - e per quel che nella specie più incisivamente rileva -, l'obbligo di sorveglianza, o di vigilanza, può comportare (e di solito comporta), assieme al dovere del garante di vigilare sulla situazione di pericolo, anche il connesso obbligo di attivarsi per eliminare questo, donde scaturisce il conseguente obbligo impeditivo dell'evento.

    Ma può consistere anche solo nell'obbligo, di eguale contenuto, facente capo ad un soggetto privo di poteri impeditivi di possibili eventi lesivi, di esercitare un controllo sull'altrui operato, al fine di intervenire presso il titolare di tali poteri (intesi alla rimozione delle situazioni di pericolo ed al conseguente impedimento dell'evento), in genere informando questo (o il titolare del bene), con una condotta, quindi, che non è di per sè idonea ad impedire l'altrui comportamento, spettando, in sostanza, poi, solo al garante (o al titolare del bene), informati dal sorvegliante, i poteri di intervento impeditivi (v. il disposto dell'art. 2408 c.c., sull'obbligo, in materia societaria, del collegio sindacale di "indagare sui fatti denunziati e presentare le sue conclusioni ed eventuali proposte all'assemblea"; v. Sezione 4, 21, dicembre 2010, Di Mascio, che ha confermato il giudizio di responsabilità a carico di un responsabile del servizio prevenzione e protezione che, agendo con imperizia e negligenza, aveva trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale).

    Va altresì chiarito che, ai fini della configurabilità della responsabilità penale, l'addebito a titolo di colpa non può essere fondato solo sulla posizione di garanzia, giacchè richiede l'accertamento di una condotta concretamente colposa, dotata di ruolo eziologico nella spiegazione dell'illecito (cfr. Sezione 4, 2 dicembre 2008, Toccafondi ed altri, sia pure con riferimento ad una fattispecie di responsabilità professionale del medico).

    Il compito dell'interprete è, pertanto, innanzitutto quello di individuare chi sia il titolare (in concreto) della posizione di garanzia, di verificare se uno o più sono i (contitolari di tale posizione, di apprezzare se l'atteggiarsi della fattispecie legittimi o no un trasferimento della posizione di garanzia ovvero un intreccio di (co)responsabilità.

    L'interprete deve, poi, tenere conto, ovviamente, dei principi generali vigenti in materia di colpa, spesso invece misconosciuti o male intesi.

    In primo luogo, per quanto qui rileva, il principio della colpevolezza, che, come sopra accennato, esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la c.d.

    "concretizzazione" del rischio): infatti, l'individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l'evento (ciò che si risolve nell'accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica) (ciò che si risolve nell'accertamento dell'elemento soggettivo della colpa), ma anche se l'autore della stessa (qui, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale) potesse prevedere ex ante quello "specifico" sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In quest'ottica, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento non sono sufficienti per fondare la responsabilità, giacchè occorre anche chiedersi, necessariamente, se l'evento derivatone rappresenti o no la "concretizzazione" del rischio che la regola stessa mirava a prevenire. Occorre cioè chiedersi se l'evento dannoso fosse o no prevedibile ex ante: ciò in quanto l'inosservanza delle regole cautelari può dare luogo ad una responsabilità colposa soltanto per gli eventi che le regole stesse miravano ad evitare. Ed occorre altresì chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) avrebbe o no evitato l'evento: ciò in quanto si può formalizzare l'addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno.

    Ciò premesso, sotto il profilo dell'accertamento della colpevolezza la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure proposte dal ricorrente.

    Occorre innanzitutto sgomberare il thema decidendi da quello che è stato giustamente definito dal giudice di appello il nodo centrale della vicenda relativamente alla posizione processuale del N. T., quale Ingegnere capo del Genio civile, cioè quello della chiarificazione del significato del concetto di "buon regime delle acque", così come desumibile dal R.D. 25 luglio 1904, n. 523, intitolato "Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie".

    In sintesi, la tesi difensiva sostiene che le attribuzioni affidate dalla normativa di settore all'Ufficio del Genio civile attengano alla "polizia delle acque pubbliche" ed alla "polizia idraulica" e sono, pertanto, rivolte alla tutela del libero o regolare deflusso delle acque ed agli interventi, anche in via preventiva, su qualsivoglia situazione incidente sulla adeguatezza ed efficienza delle opere idrauliche. Secondo tale impostazione l'Ingegnere Capo del Genio civile, nell'assicurare "il buon regime delle acque pubbliche", deve limitarsi ad assicurare che le stesse non esondino dagli argini o che comunque non deviino dal loro naturale corso.

    Partendo da tale presupposto interpretativo, poichè era stato accertato, nel caso in esame, che gli eventi mortali non erano stati determinati dalla esondazione o comunque dalla deviazione del regolare deflusso delle acque e che, quindi, la viabilità realizzata non aveva inciso sul buon regime delle acque, si è sostenuta l'assenza di responsabilità dell'imputato, privo di poteri impeditivi che legittimassero l'intervento autoritativo del Genio Civile.

    Tale tesi non è validamente sostenibile.

    La formulazione e la finalità del citato Testo unico (v. in particolare gli artt. 2, 93, 96 e 97) inducono a ritenere corretta l'interpretazione fornitane dai giudici di merito che, attraverso la lettura testuale, sistematica e costituzionalmente orientata delle norme, sono arrivati alla logica e condivisibile conclusione che la formula sintetica "buon regime delle acque" è diretta a garantire non solo il corso naturale ed il libero deflusso delle acque e la sicurezza della navigazione ma anche la sicurezza della circolazione secondo la naturale destinazione dell'alveo.

    La responsabilità del Capo dell'Ufficio del Genio civile è stata, pertanto, fondata sulla colpevole tolleranza della presenza delle strade negli alvei dei due fiumi, non contrastata dall'esercizio dei legittimi poteri impedivi allo stesso attribuiti quali strumento di tutela.

    L'obbligo di intervenire è stato correttamente fondato dai giudici di merito sull'art. 2 del T.U. citato secondo cui spetta esclusivamente alla autorità amministrativa lo statuire e provvedere sulle opere di qualunque natura ed in generale sugli usi, atti, fatti, anche consuetudinari che possono avere relazione con il buon regime delle acque pubbliche.

    Va solo precisato che l'autorità amministrativa cui fa riferimento il citato articolo non possono che essere gli ingegneri capi degli uffici del Genio civile a cui sono state trasferite le attribuzioni affidate ai Prefetti dal presente articolo, a seguito delle modifiche introdotte al Testo unico sulle spese idrauliche dal R.D. 19 novembre 1991, n. 1688, art. 1. La Corte territoriale ha sottolineato che attraverso la endiade contenuta nel citato art. 2 il legislatore ha espresso la tendenziale omnicomprensività degli accadimenti suscettibili di incidere sul buon regime delle acque, rimettendoli alla esclusiva competenza del Capo del Genio civile.

    Da tale premessa la Corte di merito ha fatto discendere due conseguenze: l'elencazione dei manufatti di cui agli artt. 96 e 97 del citato Testo unico è una mera esemplificazione, che non esaurisce il campo di intervento della PA; l'omessa menzione delle strade in alveo tra le opere per le quali vige il divieto di realizzazione, quantomeno senza autorizzazione del Genio civile, non acquista il significato che tale utilizzo dell'alveo deve presumersi consentito e tollerato, neppure in via consuetudinaria, come invece sostenuto dalla difesa. A tale rilievo difensivo la Corte di merito ha risposto che la possibilità di configurare nell'utilizzo della via ricavata in alveo, una norma consuetudinaria, espressione del principio della transitabilità dei torrenti, è precluso, oltre che dalla configurabilità della ipotesi di reato di cui all'art. 632 c.p., dalla considerazione che tale fatto consuetudinario sarebbe in ogni caso subordinato all'ottemperanza della clausola di salvaguardia contenuta nell'art. 2 del cit. T.U., ovverossia che tale utilizzo dell'alveo, pur in ipotesi legittimato dalla consuetudine non si ponga in contrasto con il buon regime delle acque, come invece avvenuto nel caso in esame, essendosi determinata una situazione di pericolo per la incolumità, chiaramente percepita dal funzionario apicale del Genio civile, tanto da farne oggetto di ripetuti allarmi.

    Quale logica conseguenza di questo argomentare è stato ritenuto che la realizzazione della strada nel letto del fiume debba sen'altro definirsi come "opera", avente la sua individualità ed autonomia funzionale e che, come tale, ricade sotto la previsione dell'art. 93 del citato Testo unico, che esclude la possibilità di realizzare opere nell'alveo dei fiumi e dei torrenti senza il permesso dell'autorità amministrava, prevedendo quale ipotesi contravvenzionale la violazione di quel divieto.

    Alla luce di tale ricostruzione sistematica della normativa di settore non è, pertanto, contestabile la posizione di garanzia dell'imputato, nella qualità di ingegnere Capo dell'ufficio del Genio civile, correttamente definita dalla sentenza impugnata di controllo", che gli imponeva di esercitare un potere di sorveglianza e di vigilanza sugli immobili del demanio fluviale e torrentizio, idoneo ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti.

    In coerenza ai principi sopra esposti va rilevato che tale obbligo di sorveglianza, o di vigilanza, comportava a carico del garante, oltre al dovere di vigilare sulla situazione di pericolo, anche il connesso obbligo di attivarsi per eliminare questo, con il conseguente obbligo impeditivo dell'evento.

    In tal senso la sentenza gravata sottolinea che la ritenuta qualificazione della strada in alveo quale "opera" ex art. 93 citato imponeva l'obbligatorio intervento della competente Pubblica Amministrazione, tenuta all'autotutela mediante i provvedimenti specificamente preordinati alla salvaguardia degli interessi pubblici, sottesi agli artt. 96 e 97 del Testo unico citato, in attuazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 378, all. F, come modificata dal R.D. 19 novembre 1921, n. 1688, art. 1, che prevede, nella ipotesi di contravvenzioni relative ad opere pubbliche dei comuni, che alterano lo stato delle cose, la rimessione in pristino dello stato dei luoghi da parte del Capo dell'Ufficio del Genio civile.

    Si tratta di esercizio di poteri volti alla tutela degli interessi pubblici sottesi alla salvaguardia degli alvei dei corsi d'acqua, la cui finalità è quella della salvaguardia dell'incolumità pubblica o di altre utilità pubbliche attraverso l'esercizio dei poteri di "polizia delle acque pubbliche". Trattasi, pertanto, di un tipico potere autoritativo, frutto di scelte della P.A., che trovano fondamento nella normativa anzidetta e che, oltre a non tollerare l'apposizione di termini bervi (v. sentenza del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche n. 85 del 14 giugno 2002, secondo la quale l'esercizio del potere di tutela demaniale non incontra il limite di cui all'art. 1168 c.c.), come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, non subisce restrizioni neppure per quanto riguarda la cerchia dei destinatari, dai quali sarebbero escluse, secondo la tesi difensiva, che ha evocato il vizio di sviamento di potere - le pubbliche amministrazioni. L'urgenza della situazione, avvertita dal dirigente dell'ufficio del Genio civile, conseguente alla situazione di pencolo, come dimostrato dalla documentazione in atti, imponeva l'adozione di provvedimenti urgenti di rimozione ovvero di interdizione delle strade in alveo, entrambi riconducibili sia alle specifiche competenze degli enti territoriali, proprietari delle strade sia al Genio civile, nell'esercizio dei poteri di autotutela attribuitigli dalla normativa di settore, trattandosi di tracciati viari ubicati nell'alveo dei fiumi.

    Ciò che va chiarito in questa sede è che il Capo dell'Ufficio del Genio civile è solo uno dei soggetti onerati della "posizione di garanzia", perchè al rispetto della normativa cautelare sono chiamati anche gli enti proprietari o comunque gestori di fatto delle strade (Comune e Provincia).

    La riconosciuta posizione di garanzia, nel caso in esame, del Comune di Messina, non esclude, però, come prospettato dalla difesa, la concorrente responsabilità del Capo dell'ufficio del Genio civile.

    Vi sono casi, infatti, tra i quali rientra questo in esame, in cui la fattispecie legittima non un trasferimento della posizione di garanzia ma un intreccio di (co)responsabilità nella verificazione dell'occorso, alla luce del principio dell'affidamento, che è di particolare rilievo proprio nelle ipotesi in cui risultino più soggetti tenuti a garantire le esigenze di sicurezza. Si tratta, come è noto, del principio cardine della responsabilità colposa, in forza del quale, in coerente applicazione del principio di personalità della responsabilità penale, ciascuno risponde delle conseguenze della propria condotta, commissiva od omissiva, mentre non risponde, invece, dell'eventuale violazione delle regole cautelari da parte di terzi; e ciò in base al principio di "autoresponsabilità", non esistendo un obbligo di carattere generale di impedire che terzi, responsabili delle loro scelte, realizzino condotte pericolose. Peraltro, come è altrettanto noto, il principio di affidamento non è di automatica applicazione allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo. In tale evenienza persiste la responsabilità anche del primo in base al principio dell'equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere avuto caratteristiche di eccezionalità ed imprevedibilità (art. 41 c.p., comma 2). Ciò che sì verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l'abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata. In altri termini, per escludere la "continuità" delle posizioni di garanzia, è necessario che il garante sopravvenuto abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore o eliminandole o modificandole in modo tale da non poter essere più attribuite al precedente garante (es. Sezione 4, 5 giugno 2008, Stefanacci ed altri, che, proprio in ossequio al principio di affidamento in una vicenda di infortunio sul lavoro verificatosi a seguito della mancanza dei mezzi di protezione di una macchina, ha ritenuto corretta l'affermazione di responsabilità, oltre che del datore di lavoro, anche del costruttore e del venditore della macchina, sul rilievo che l'inidoneità della macchina, per la mancanza dei mezzi di protezione, era già esistente al momento della produzione e a quello della vendita, senza che vi fossero state modifiche ad opera del datore di lavoro che l'aveva utilizzata).

    La concorrenza delle posizioni di garanzia nel caso in esame non può essere posta in dubbio giacchè, come sopra esposto, gli imputati, nella qualità di dirigenti degli uffici apicali ivi indicati, erano titolari degli obblighi di impedire gli eventi e tali obblighi non hanno adempiuto, violando specifiche norme cautelari, al cui rispetto erano tenuti, proprio per gli incarichi di cui erano stati investiti.

    Non va del resto trascurato che, pure a fronte di determinazioni discrezionali del pubblico funzionario circa l'adozione dell'atto, l'esercizio concreto degli interventi che rientrano nella sfera della discrezionalità amministrativa merita di essere apprezzato secondo le regole generali di diligenza, di prudenza e di perizia, che devono sempre ispirare il comportamento dell'agente (v. Sezione 4, 14 luglio 2011, n. 34385, Baglivo ed altri).

    La riconosciuta posizione di garanzia del Capo dell'ufficio del Genio civile, non esimeva, però, il giudice penale dal fornire adeguata motivazione sulla colpevolezza del medesimo, alla luce dei principi indicati in premessa sui presupposti per la configurabilità della responsabilità penale.

    Proprio con riguardo all'apparato argomentativo a supporto del ritenuto addebito di colpa, ritiene il Collegio che la sentenza di merito appare congruamente motivata in relazione a tutti i profili di interesse, con corretta applicazione dei principi in tema di prevedibilità ed evitabilità degli eventi dannosi verificatisi nonchè di quelli relativi alla esigibilità in concreto da parte del prevenuto di una condotta atta a prevenirli. Sono stati altresì rispettati i principi in tema di nesso di causalità.

    I giudici di merito, partendo dall'assunto corretto della esistenza di una posizione di garanzia in capo all'imputato, conseguente all'aver rivestito, all'epoca del fatto, la qualità di Capo dell'Ufficio del Genio civile di Messina, hanno ritenuto che nell'esercizio delle funzioni indicate - che gli imponevano il controllo della situazione certamente a rischio - la discrezionalità del potere di valutazione del pubblico funzionario era vincolata all'esigenza di assumere tutte quelle iniziative ed interventi idonei a prevenire i tragici eventi verificatisi, che la normativa prevista in tema di tutela delle acque pubbliche, sopra indicata, era proprio diretta ed evitare.

    Il rispetto delle regole di diligenza e di prudenza imponevano all'imputato di attivarsi al fine di evitare il realizzarsi di quelle situazioni a rischio, ponendo in essere quei comportamenti, invece omessi, al fine di assicurare la incolumità degli utenti di quelle strade (provvedimenti impeditivi del transito in alveo, ovvero ordinanze con cui si ingiungeva ai titolari delle strade la loro eliminazione o, quantomeno, la realizzazione degli accorgimenti minimali a neutralizzare il rischio del realizzarsi degli eventi dannosi, poi verificatisi).

    Per quanto sopra esposto in tema di posizione di garanzia, non si tratta, come sostenuto dal difensore, di una interpretazione che conferisce ai doveri di ufficio dell'imputato una dimensione omnicomprensiva, estranea all'ambito delle competenze proprie del ruolo ricoperto dal N., così vulnerando il carattere personale della responsabilità penale ed il principio di colpevolezza.

    I giudici di merito hanno fondato, infatti, gli addebiti colposi non solo sulla affermata posizione di garanzia, che indubbiamente rileva solo per rendere possibile l'imputazione del fatto quando si sia in presenza di condotta omissiva, come nel caso in esame, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p. ed opera quindi sul piano del fatto, della tipicità oggettiva.

    Affermata la posizione di garanzia, i giudici di merito, seguendo il corretto itinerario logico-giuridico che conduce alla responsabilità colpevole, hanno anche individuato, come sopra esposto, le condotte concretamente colpose, dotate di ruolo eziologico nella spiegazione dell'evento lesivo.

    Le regole di condotta sopra enunciate, rispetto alle quali l'imputato è rimasto inadempiente, dovevano ritenersi tanto più pregnanti - e qui si entra sul punto relativo alla prevedibilità ed evitabilità degli eventi dannosi verificatisi, correttamente sviluppato dai giudici di merito-atteso che la situazione di pericolo, come emerge dalla sentenza e dalla stessa tesi difensiva, era stata chiaramente percepita dal funzionario apicale del Genio civile, tanto da farne oggetto di ripetuti allarmi rivolti alle altre pubbliche amministrazioni.

    Dunque la valutazione di prevedibilità degli eventi formulata dai giudici di merito appare condotta con criteri di logicità e si sottrae a censure in questa sede, laddove è stato in particolare sottolineato la non eccezionalità degli eventi alluvionali nella zona, evidenziata da eventi pregressi. Il riferimento è in particolare agli eventi alluvionali del 1 ottobre 1996, che avevano interessato anche il torrente (OMISSIS), quando, a causa di abbondanti piogge, le acque di deflusso avevano impegnato spazi in origine loro destinati sconvolgendo strade e manufatti, provocando gravi disagi agli utenti di quelle strade che costituivano le uniche vie di accesso ad edifici condominiali ed a singole abitazioni.

    Tale giudizio è stato formulato correttamente, in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. da ultimo, proprio con riferimento ad una fattispecie riguardante un disastro alluvionale, Sezione 4, 12 marzo 2010,n. 16761, Proc. gen. App. Salerno ed altri in proc. Basile ed altro) secondo la quale il giudizio di prevedibilità dell'evento dannoso - necessario perchè possa ritenersi integrato l'elemento soggettivo del reato, sia nel caso di colpa generica che in quello di colpa specifica- va compiuto, con criterio ex ante, con l'utilizzazione del criterio dell'agente modello (homo eiusdem professionis et condicionis), quale agente ideale in grado di svolgere al meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve tener conto non solo di quanto l'agente concreto ha percepito, ma altresì di quanto l'agente modello avrebbe dovuto percepire valutando anche le possibilità di aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano essere ragionevolmente escluse. A tal riguardo, ai fini del giudizio sulla prevedibilità, rilevano, oltre alle regole di esperienza convalidate dall'uso, anche le leggi scientifiche pertinenti, se esistenti, se ed in quanto queste, nel giudizio predittivo ex ante, valgano a rendere concreto il giudizio di prevedibilità dell'evento, che va ancorato non all'elevata credibilità razionale che l'evento, in presenza di una certa condotta, si verifichi (secondo lo schema dimostrativo proprio della "causalità"), ma alla possibilità (concreta e non ipotetica) che la condotta possa determinare l'evento. In questa prospettiva, il giudizio sulla colpa non va quindi ancorato all'elevata credibilità razionale (ad un elevato grado di probabilità) che quell'evento si produca, ma alla concreta possibilità che ciò avvenga.

    Ne deriva, quanto agli eventi naturali o alle calamità che si sviluppino progressivamente, che il giudizio di prevedibilità deve tener conto della natura e delle dimensioni di eventi analoghi storicamente già verificatisi, ma valutando altresì se possa essere esclusa la possibilità che questi eventi possano avere dimensioni e caratteristiche più gravi o addirittura catastrofiche. Infatti, la valutazione della prevedibilità ha sempre caratteristiche predittive, quindi da adottare con un giudizio a priori, sul quale ciò che è avvenuto in passato costituisce un elemento di conoscenza rilevantissimo ed ineliminabile, ma che non può prescindere dalla valutazione su che cosa può avvenire in futuro, a meno che le caratteristiche del fenomeno non siano da sole idonee a fondare un giudizio di esclusione di più gravi conseguenze.

    In questa prospettiva, l'agente modello non è quello che si adagia sulle esperienze precedenti senza che esistano elementi di conoscenza che consentano di escludere che i fenomeni possano avere carattere di maggiore gravità: è tale, invece, quello che è in grado di ipotizzare le conseguenze più gravi di un fenomeno pur ricorrente.

    A ciò va aggiunto che in tema di ambiente e di tutela della vita e della salute dei consociati, il rischio diviene concreto anche solo laddove la mancata adozione delle cautele preventive possa indurre il dubbio concreto della verificazione dell'evento dannoso ( v., in conformità, Sez. 4, 17 maggio 2006- 6 febbraio 2007, n. 4675, PG. in proc. Bartalini ed altri).

    La sentenza impugnata pone poi l'accento sul tema della violazione della norma cautelare c.d. "elastica", inquadrando tra queste, all'evidenza, le norme cautelari violate poste a fondamento dell'addebito di responsabilità.

    Il concetto è stato approfondito con la sentenza della 4 Sezione della Cassazione, in data 20 aprile 2005, Stasi ed altro, in cui venne affrontato per la prima volta il tema già trattato in dottrina, partendo dalla individuazione dell'area di rischio protetta dalla norma cautelare, distinguendo la regola di diligenza "a struttura rigida" (nelle quali, quindi, il comportamento che si deve tenere per evitare l'evento dannoso o pericoloso è fissato con assoluta nettezza dal legislatore) e norma "a contenuto elastico" (o "aperta"), che, per essere applicata abbisogna di un legame più o meno profondo e più o meno esteso con le circostanze del caso concreto. Nel primo caso, secondo il giudice di legittimità, lo schema di comportamento è stato fissato con assoluta nettezza dal legislatore ed il giudizio di idoneità ex ante (relativo alla attitudine della situazione considerata a cagionare l'evento e della misura di sicurezza ad evitarne o ridurne la probabilità di verificazione) è già stato formulato dallo stesso legislatore: in sostanza, la prevedibilità o evitabilità dell'evento non ha bisogno di dimostrazione, in quanto la inosservanza della regola scritta concreta di per sè, quella imprudenza o negligenza che costituisce l'essenza della colpa. Da ciò consegue anche che il destinatario della norma non ha altra scelta che quella di farne puntuale applicazione onde evitare il verificarsi dell'evento dannoso o pericoloso. Nel secondo caso, invece, l'applicabilità della norma presuppone una approfondita valutazione delle circostanze del caso concreto (nella specie, la Corte ha ritenuto norma a struttura rigida quella contenuta nel D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 42, che impone al datore di lavoro di non fare affiorare le parti salienti dei bulloni, avendo questi la sola possibilità, per realizzare lo scopo prevenzionale, di scegliere tra i tre accorgimenti tecnici ivi descritti).

    Trattasi all'evidenza di un criterio di interpretazione della ratto della norma cautelare in base al quale il principio della concretizzazione del rischio che la regola stessa mira a prevenire va inteso con criteri di ragionevolezza, interpretando la regola cautelare non in senso formale e statico ma secondo la sua ratio e secondo criteri che tengano conto dell'evoluzione della conoscenze e della possibilità di ricondurre comunque l'evento alle conseguenze della violazione della regola di condotta, anche se infrequenti e non previste anticipatamente, purchè non siano completamente svincolate dallo scopo perseguito nella redazione della regola cautelare (v. sul punto anche la già citata sentenza della Sez. 4, n. 4675 del 2007, in cui la S.C. ha affermato che il D.P.R. n. 303 del 1956, artt. 20 e 21, oggetto di contestazione agli imputati, rientrano nella categoria delle norme cautelari "aperte", limitandosi a dettare le regole di condotta in termini generali in relazione alla astratta possibilità del verificarsi di eventi dannosi, anche di quelli ignoti al legislatore dell'epoca. Essendo già riconosciuti da tempo il cvm e il pvc come sostanze idonee a provocare gravi patologie, dovevano, pertanto, ritenersi ex ante prevedibili gravi danni alla salute dei lavori esposti a tali sostanze, sì da potersene fare discendere l'obbligo -anche se fossero mancate regole cautelari di origine normativa, nella fattispecie, invece, esistenti-, per il datore di lavoro, di adottare le cautele necessarie per preservare i lavoratori dal rischio per la salute).

    A ben vedere, quindi, ciò che rileva è l'individuazione dell'area di protezione della norma, così come è stato implicitamente ritenuto nella sentenza impugnata laddove, ponendosi il problema del significato attuale del concetto di "buon regime delle acque", quale bene giuridico oggetto di tutela, contenuto nel R.D. del 1904, ha correttamente affermato che la definizione del bene giuridico è funzionale alla individuazione degli interessi tutelati dalla norma da parte dell'interprete che dovrebbe orientare il dettato formale della norma alla protezione di questo obiettivo finalistico, rendendo così attuale la previsione astratta. In tal senso, attraverso un analisi letterale delle norme di riferimento ed una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del concetto di "buon regime delle acque", il giudicante ha ritenuto che le norme sulla tutela delle acque , oggetto di contestazione, rientrano nella categoria delle norme "elastiche" (o "aperte"), limitandosi a dettare le regole di condotta in termini generali in relazione alla astratta possibilità del verificarsi di eventi dannosi, anche di quelli ignoti al legislatore dell'epoca, e che l'interprete non può non tener conto dei principi costituzionali, tra i quali quello della tutela della persona e del bene primario della vita, arrivando a comprendere nel concetto in questione l'interesse fondamentale alla incolumità delle persone che si trovino all'interno dell'alveo, pur non avendo essa attinenza con la efficienza idraulica bensì con la viabilità e la circolazione che ivi si svolge. Non può, pertanto, ragionevolmente escludersi la responsabilità penale del capo del Genio civile sostenendo che la normativa era indirizzata solo alla tutela del deflusso delle acque, essendo stato dimostrato, attraverso una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata, che le regole cautelari sono state dettate anche per tutela della incolumità pubblica delle persone che utilizzano le strade realizzate negli alvei dei fiumi.

    Il giudicante si sofferma, altresì, sul profilo dell'evitabilità degli eventi, che è parimenti rilevante ai fini della concreta formalizzazione dell'addebito colpevole, precisando che una condotta diversa ( ordinanza di rimozione della strada e sua effettiva chiusura) da parte degli imputati N. e G., avrebbe evitato il verificarsi degli eventi.

    La sentenza è in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, già sopra indicata, secondo la quale l'addebito soggettivo dell'evento richiede, infatti, non solo la violazione della regola cautelare e non soltanto che l'evento dannoso fosse prevedibile, ma anche che lo stesso fosse evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito) non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che non avrebbe potuto comunque essere evitato.

    L'evitabilità, va precisato, riguarda sia l'elemento oggettivo del reato (l'evento) sia l'aspetto soggettivo di esso.

    Sotto il primo profilo se, con valutazione ex post, si verifica che l'evento - anche per l'esistenza di caratteristiche del caso non conoscibili in precedenza- non era comunque evitabile, anche se fosse stata posta in essere una condotta esente da colpa, vuoi dire che la condotta colposa non ha avuto efficacia causale (nel senso che difetta la causalità della colpa) perchè l'evento era oggettivamente inevitabile.

    L'addebito dell'evento sotto il profilo soggettivo, invece, va compiuto con criteri di accertamento dell'evitabilità ex ante. La prevenibilità che riguarda l'elemento soggettivo è la prevenibilità in astratto: se si accerta, con valutazione ex ante, che il comportamento alternativo lecito richiesto all'agente modello non era astrattamente idoneo ad evitare il verificarsi dell'evento l'agente non è in colpa, anche se poi, in concreto, si verifichi questa idoneità. Il caso in esame non rientra in tale ultima ipotesi in cui i giudici di merito hanno accertato in concreto che il comportamento alternativo lecito posto in essere dagli imputati avrebbe evitato il verificarsi degli eventi.

    In conclusione, le regole cautelari violate dall'imputato erano finalizzate anche ad evitare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi (c.d. "concretizzazione del rischio"), con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la responsabilità del ricorrente nella causazione dell'evento non può essere esclusa.

    Anche le censure afferenti la causalità della condotta dell'imputato sono infondate. Da quanto sopra esposto, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile:

    l'omessa adozione della condotta alternativa lecita ( provvedimenti interdittivi del transito, ovvero ordinanze con cui si ingiungeva ai titolari delle strade la loro eliminazione o, quantomeno, la realizzazione degli accorgimenti minimali al fine di assicurare la incolumità degli utenti) aveva rappresentato la premessa imprescindibile per la realizzazione delle condizioni che avevano reso possibile gli eventi letali.

    Trattasi di un giudizio positivo sulla sussistenza della condotta colposa omissiva del prevenuto che non si appalesa affatto illogico ed è fondato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, sull'art. 2 del T.U. citato laddove attribuisce in via esclusiva all'autorità amministrativa lo statuire e provvedere sulle opere di qualunque natura ed in generale sugli usi, atti, fatti, anche consuetudinari che possono avere relazione con il "buon regime delle acque pubbliche" e sulla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 378, all. F, come modificata dalla R.D. 19 novembre 1921, n. 1668, art. 1, che attribuisce al Capo dell'ufficio del Genio civile la competenza a far eseguire immediatamente i lavori di ripristino.

    Nè sussiste incompatibilità logica, sostenuta dal ricorrente, laddove la sentenza individua quale condotta colposa, prima la colposa tolleranza delle strade e poi la omessa rimozione ed effettiva chiusura delle stesse.

    La Corte territoriale, come sopra evidenziato ha ricostruito in termini omissivi la causalità affermando che la realizzazione di una condotta diversa (ordinanza di rimozione della strada e sua effettiva chiusura) avrebbe evitato il verificasi degli eventi.

    In merito a questa censura va premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto, nella seconda è un comando ad essere violato (v. sul punto, Sezione 4, 6 novembre 2007-10 gennaio 2008, n. 840, Brignoli, con precipuo riferimento ad ipotesi di responsabilità medica). In concreto, però, la distinzione tra le due forme di causalità non è sempre agevole, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l'accertamento della natura della causalità. Un orientamento più recente, affermato sino adesso con esclusivo riferimento alla responsabilità medica, afferma che avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzato si sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente.

    Alfa luce di tali considerazione non può esservi dubbio sulla natura omissiva della causalità nel caso in esame. Il Dott. N. T., omettendo di intervenire, ha violato un comando che gli imponeva di assumere provvedimenti impeditivi rispetto alla creazione della situazione di pericolo, così introducendo un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi.

    Il giudizio controfattuale è stato, pertanto, correttamente compiuto dai giudici di merito dando per avvenuta una condotta impeditiva che non c'è stata e chiedendosi se, posta in essere la medesima, l'evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini di elevata credibilità razionale. E la risposta è stata fornita in termini negativi così riconducendo gli eventi alle condotte omissive contestate.

    E' infondato anche il motivo afferente l'asserita violazione del principio di correlazione. In proposito valgono altresì le considerazioni svolte con riferimento ad analogo motivo proposto dal G..

    Infondato è anche il motivo con il quale il N.T. lamenta l'omessa motivazione sul motivo di impugnazione con il quale il ricorrente aveva rappresentato la sua buona fede dipendente da errore di fatto sulla esistenza dell'obbligo di attivarsi fondato sulla ragionevole aspettativa della messa in regola della situazione relativa alla viabilità da parte del Comune.

    Sul punto la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, ha fornito adeguata motivazione facendo riferimento alla consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente, come nel caso in esame, svolge una attività in uno specifico settore rispetto alla quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente ( v. da ultimo, Sezione 5, 26 febbraio 2008, n. 22205,Ciccone, citata anche nella sentenza impugnata).

    Anche il motivo afferente l'omessa motivazione sul motivo di impugnazione afferente il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p. è infondato.

    Anche in questo caso, il giudicante ha fornito puntuale risposta richiamando la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza al reato, di cui all'art. 114 c.p., comma 1, presupponendo un apporto differenziato nella preparazione o nell'esecuzione materiale del reato stesso, non è applicabile ai reati omissivi in quanto il "non tacere" è concetto ontologicamente antitetico alla sussistenza dei requisiti richiesti per il suo riconoscimento ( v., per i puntuali riferimenti, Sezione 4, 6 novembre 2008, n. 45119, Crepaldi ed altri).

    Infondati sono anche i ricorsi proposti dai responsabili civili.

    Comune di Messina ed Assessorato ai Lavori pubblici Regione Siciliana, che, in linea di massima propongono le stesse questioni, oggetto dei motivi di ricorso esposti dagli imputati, già sopra trattati.

    Per il resto i predetti ricorsi evocano questioni di mero fatto che avrebbero dovuto essere devolute alla competente sede di merito. Ciò vale con particolare riferimento alla questione prospettata dal Comune di Messina sulla impossibilità di provvedere alla esecuzione delle attività, ritenute colposamente omesse dal dirigente, in mancanza di espressa previsione in bilancio.

    Il ricorso proposto dalle parti civili è fondato con riferimento al punto concernente l'omessa condanna di N.T.R. alla rifusione delle spese del giudizio di appello, che aveva confermato il giudizio di responsabilità dello stesso, con la conseguente competenza ex art. 622 c.p.p. del giudice civile competente per valore in grado di appello.

    Gli altri motivi sono infondati.

    E' all'evidenza infondato il secondo motivo a fronte dell'ineccepibile rilievo contenuto nella sentenza gravata della mancata tempestiva impugnazione in primo grado delle statuizioni relative alla posizione dell'Assessorato regionale.

    Anche il terzo motivo è infondato, a fronte di una decisione che regge senz'altro al vaglio di legittimità.

    Quanto alla pretesa posizione di garanzia del P., in ragione della qualifica funzionale dallo stesso ricoperta nell'ambito della Provincia, quale responsabile del 13 settore (Assetto e Protezione Ambientale) e dirigente del 14 settore (Pianificazione del territorio e progettazione territoriale) la sentenza ha, innanzitutto escluso, l'appartenenza anche solo di fatto della strada nell'alveo del torrente (OMISSIS) in capo alla Provincia ed ha rimarcato che, in ogni caso, la competenza ad intervenire affinchè fosse realizzata e mantenuta una via allocata all'interno del torrente (OMISSIS) apparteneva ad altro settore ( il 15, Settore Lavori Pubblici e Strade), che gestiva la totalità delle competenze relative ai manufatti viari.

    Sotto il primo profilo (non appartenenza della strada alla Provincia) il giudice di appello ha confutato la tesi sostenuta dal giudice di primo grado, che pur riconoscendo la mancanza di specifiche competenze in capo al P. in materia di viabilità, aveva affermato che i compiti al medesimo affidati gli imponevano di attivarsi per impedire l'improprio utilizzo degli alvei, partendo dal presupposto che il tracciato viario sul torrente (OMISSIS) fosse di proprietà della Provincia. Siffatta conclusione era stata fondata sulla duplice considerazione che attraverso detto tracciato si collegavano due strade provinciali e che esisteva un progetto relativo alla costruzione da parte della Provincia di una nuova strada che, incidendo in parte sull'alveo, avrebbe dovuto meglio collegare i due siti.

    La Corte territoriale ha, invece, ritenuto che gli indici rivelatori ai fini della individuazione dell'appartenenza della strada, sono da individuarsi nell'esercizio, anche solo di fatto, di un potere estrinsecatosi in concreti atti di gestione (opere accessorie e di manutenzione), tali da ingenerare nella comunità l'affidamento sulla sua appartenenza di fatto all'ente territoriale. La sentenza fornisce una ricostruzione non illogica e qui non rinnovabile in fatto dello stato e della disciplina della strada in termini tali da escludere ab imis qualsivoglia posizione di garanzia da cui possa farsi discendere la responsabilità dell'imputato.

    Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento al secondo profilo (competenza di altro Settore ad intervenire), pur dovendosi rilevare la valenza assorbente degli argomenti posti a fondamento dell'affermata non riconducibilità del tracciato viario all'Ente provinciale. Da tale impostazione consegue che correttamente sono stati ritenuti non sussistenti gli addebiti omissivi articolati a carico dell'imputato.

    Al rigetto dei ricorsi consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna degli imputati G. e N.T. e dei responsabili civili Comune di Messina ed Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione in favore delle parti civili C. delle spese di questo giudizio, liquidate come in dispositivo nonchè del solo N. alla rifusione delle spese di questo giudizio sostenute dalle parti civili R.A.S.C. e W.P. P.N.F., liquidate come in dispositivo.
    PQM
    P.Q.M.

    Annulla la sentenza impugnata nei confronti di N.T. R. limitatamente al punto concernente la rifusione delle spese di giudizio di appello in favore delle parti civili R. A.S.C. e W.P.P.N. F., con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. Rigetta nel resto il ricorso di tali parti civili.

    Rigetta i ricorsi di G.R., N.T. R., Comune di Messina, Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia, i quali condanna al pagamento delle spese processuali.

    Condanna N.T.R. alla rifusione in favore delle parti civili R.A.S.C. e W. P.P.N.F. delle spese di questo giudizio che, unitariamente e complessivamente, liquida in Euro 3.500,00, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali come per legge.

    Condanna N.T.R., G.R., responsabili civili Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia e Comune di Messina alla rifusione, in solido tra loro, in favore delle parti civili C.G. e C.G. delle spese di questo giudizio che, unitariamente e complessivamente, liquida in Euro 3.500,00, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali come per legge.

    Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 febbraio 2012.

    Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2012
Avv. Antonino Sugamele

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