Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Penalista Trapani

Sentenza

Nel reato di truffa non è necessario un contatto tra truffato e truffatore.
Nel reato di truffa non è necessario un contatto tra truffato e truffatore.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 17 luglio - 22 ottobre 2013, n. 43143
Presidente Petti – Relatore Beltrani

Ritenuto in fatto

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza emessa in data 10 dicembre 2007, all'esito del giudizio abbreviato, dal GUP del Tribunale di Trani, che aveva dichiarato F.P..S. colpevole di truffa aggravata ai sensi dell'art. 61, comma 1, nn. 7 ed 11 c.p. (commessa in ..., dal (omissis) ), condannandolo - ritenute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti - alla pena ritenuta di giustizia, oltre alle statuizioni accessorie in favore della parte civile A..M. .
Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, deducendo mancanza e manifesta illogicità della motivazione, lamentando promiscuamente:
- che la sentenza impugnata riporta integralmente quella di primo grado;
- che non sussistono né i raggiri ed artifizi, né il profitto, elementi necessari ad integrare la materialità del reato di truffa;
- che la truffa non sarebbe comunque configurabile poiché la condotta contestata avrebbe raggirato un soggetto, mentre il presunto danno sarebbe stato patito da soggetto diverso, che con l'imputato non aveva mai avuto rapporti giuridici;
- che la circostanza di cui all'art. 61 n. 7 c.p. non sarebbe configurabile;
- che la circostanza di cui all'art. 61 n. 11 c.p. non sarebbe stata specificamente contestata e non sarebbe comunque configurarle.
All'odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.

Considerato in diritto

Il ricorso è in toto inammissibile, in parte perché generico (riproponendo più o meno pedissequamente i motivi di appello, senza confrontarsi con la necessaria specificità con le motivazioni della sentenza impugnata), in parte perché manifestamente infondato, in parte perché proposto per motivi non consentiti in sede di legittimità.
1. È necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità, delineati dall'art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un'indagine sul discorso giustificativo della decisione finalizzata a sovrapporre una propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l'adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento.
La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. travisamento della prova, purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.
1.1. L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve risultare di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivise, Cass. pen., Sez. un., n. 24 del 24 novembre 1999, Spina, rv. 214794; Sez. un., n. 12 del 31 maggio 2000 n. 12, Jakani, rv. 216260; Sez. un., n. 47289 del 24 settembre 2003, Petrella, rv. 226074).
A tal riguardo, devono tuttora escludersi la possibilità di “un'analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi” (Cass. pen., sez. VI, n. 14624 del 20 marzo 2006, Vecchio, rv. 233621; conforme, sez. II, n. 18163 del 22 aprile 2008, Ferdico, rv. 239789), e la possibilità per il giudice di legittimità di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. pen., sez. VI, n. 27429 del 4 luglio 2006, Lobriglio, rv. 234559; sez. VI, n. 25255 del 14 febbraio 2012, Minervini, rv. 253099).
1.2. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di “travisamento della prova” (consistente nell'utilizzazione di un'informazione inesistente o nell'omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica) deve, inoltre, a pena di inammissibilità (Cass. pen., sez. I, n. 20344 del 18 maggio 2006, Salaj, rv. 234115; sez. VI, n. 45036 del 2 dicembre 2010, Damiano, rv. 249035):
(a) identificare specificamente l'atto processuale sul quale fonda la doglianza;
(b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché dell'effettiva esistenza dell'atto processuale
su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l'atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
1.3. Il giudice di legittimità ha, ai sensi del novellato art. 606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., sez. VI, n. 35964 del 28 settembre 2006, Foschini ed altro, rv. 234622; sez. III, n. 39729 del 18 giugno 2009, Belloccia ed altro, rv. 244623; sez. V, n. 39048 del 25 settembre 2007, Casavola ed altri, rv. 238215; sez. II, n. 18163 del 22 aprile 2008, Ferdico, rv. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da disarticolare l'intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione);
(c) l'esistenza di una radicale incompatibilità con l'iter motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto (non essendo il giudice di legittimità obbligato a prendere visione degli atti processuali anche se specificamente indicati, ove non risulti detto requisito);
(d) la sussistenza di una prova omessa o inventata, e del c.d. “travisamento del fatto”, ma solo qualora la difformità della realtà storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio).
1.4. Anche il giudice d'appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., sez. VI, n. 1307 del 26 settembre 2002, dep. 14 gennaio 2003, Delvai, rv. 223061).
1.4.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., sez. II, n. 1309 del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250; sez. III, n. 13926 del 1 dicembre 2011, dep. 12 aprile 2012, Valerio, rv. 252615).
1.5. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all'affermazione di responsabilità dell'imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il “cagionevole dubbio” sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p., sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, cfr. Cass. pen., Sez. un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, rv. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell'imputato (cfr. Cass. pen., sez. II, n. 19575 del 21 aprile 2006, Serino ed altro, rv. 233785; sez. II, n. 16357 del 2 aprile 2008, Crisiglione, rv. 23979; sez. II, n. 7035 del 9 novembre 2012, dep. 13 febbraio 2013, De Bartolomei ed altro, rv. 254025).
1.6. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l'odierno ricorso.
2. La Corte di appello, sulla base di argomentazioni esaurienti, logiche, non contraddittorie, e pertanto incensurabili in questa sede, ha valorizzato ai fini dell'affermazione di responsabilità (richiamando anche i condivisi rilievi del primo giudice, come è senz'altro consentito, ed anzi fisiologico, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, ma non limitandosi a tale richiamo: cfr. f. 9 ss. della sentenza impugnata) i seguenti elementi:
- F.P..S. ha parzialmente ammesso il prelievo presso il deposito/magazzino della COMIFAR di prodotti farmaceutici apparentemente a nome della farmacia M. (della quale era dipendente, e per conto della quale aveva già in altre occasioni ritirato merce della stessa specie), ma in realtà sine titulo (ovvero non su incarico né per conto della predetta farmacia), per impadronirsene e trame profitto personale: in particolare, prima dell'inizio del procedimento, il S. , vistosi scoperto, aveva parzialmente confessato il fatto al dr. M. , al quale l'accaduto era stato confermato anche dai responsabili della COMIFAR; dai registri della COMIFAR - che nulla dimostra essere in parte qua non genuini - risulta che i prodotti prelevati dall'imputato a nome della farmacia M. , ma in realtà all'insaputa di essa, sono molti di più di quanto emergente dalle parziali ammissioni dell'imputato;
- nel corso del procedimento il S. aveva reiterato la parziale ammissione di responsabilità in ordine al fatto, pur dandone una diversa giustificazione (l'imputato aveva inizialmente detto al dr. M. di averlo fatto per aiutare un parente che versava in difficoltà economiche, successivamente che avrebbe prelevato i prodotti per farne uso personale), risultata non avvalorata da alcun elemento;
- i responsabili della COMIFAR avevano confermato l'accaduto;
- i prodotti oggetto dell'imputazione de qua (trattasi di confezioni in numero ben superiore rispetto a quelle che l'imputato ha riconosciuto di avere prelevato abusivamente) risultavano consegnati dalla COMIFAR all'imputato, ma non erano stati ordinati dalla farmacia M. , né alla stessa erano comunque stati consegnati dal S. .
La motivazione della Corte di appello è, pertanto, senz'altro immune da vizi rilevabili in questa sede, e le doglianze del ricorrente in parte qua inammissibili per genericità (non avendo tenuto adeguatamente conto delle argomentazioni della Corte di appello), e comunque manifestamente infondate.
2.1. In diritto, la sussistenza dei necessari raggiri ed artifizi appare evidente in riferimento alla condotta dell'imputato, che aveva indotto i responsabili della COMIFAR a credere che egli ritirasse i prodotti de quibus (come già avvenuto in passato) per conto della farmacia M. , al contrario nel caso di specie ignara e nolente; ed è evidente il profitto tratto dalla disponibilità acquisita senza versare alcun corrispettivo in denaro di prodotti farmaceutici senz'altro dotati di rilevante valore economico e facilmente commerciabili.
D'altro canto, la struttura del delitto di truffa non esige l'identità tra il soggetto passivo del raggiro, ovvero la persona indotta in errore dalla condotta fraudolenta dell'agente (nel caso di specie, i responsabili del magazzino/deposito COMIFAR) ed il soggetto passivo del danno, ovvero il titolare dell'interesse patrimoniale leso (nel caso di specie, il titolare della farmacia M. ), né occorrono contatti diretti tra il truffatore ed il truffato; la truffa è, pertanto, configurabile pur in difetto di tale identità, sempre che tra i raggiri od artifizi posti in essere dal soggetto agente per trarre in inganno il terzo, inducendolo in errore, il danno patrimoniale patito dal truffato ed il profitto tratto dal truffatore sussista un nesso di causalità (Cass. pen., sez. II, n. 2705 dell'11 maggio 1973, dep. 2 aprile 1974, rv. 126644; sez. V, n. 950 del 26 agosto 1969, rv. 112507; sez. VI, n. 8418 del 25 agosto 1975, rv. 130681; sez. II, n. 6335 del 29 ottobre 1998, dep. 29 gennaio 1999, rv. 212266; sez. II, n. 10085 del 5 marzo 2008, rv. 239508), nel caso di specie all'evidenza configurabile.
Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto:
“il delitto di truffa è configurabile anche quando il soggetto passivo del raggiro è diverso dal soggetto passivo del danno, ed in difetto di contatti diretti tra il truffatore ed il truffato, sempre che tra i raggiri od artifizi posti in essere dal truffatore per indurre in errore il terzo, il profitto tratto dallo stesso truffatore ed il danno patrimoniale patito dal truffato sussista un nesso di causalità. (Fattispecie nella quale il dipendente di una farmacia si era impadronito di prodotti farmaceutici ritirati presso il deposito di una ditta inducendo i responsabili di quest'ultima a credere di essere stato incaricato del ritiro dal titolare della farmacia, in realtà ignaro)”.
Le doglianze del ricorrente sono, pertanto, in parte qua inammissibili perché manifestamente infondate.
2.2. Quanto alla configurabilità della circostanza di cui all'art. 61 n. 7 c.p., la sentenza impugnata evidenzia che a fondamento di essa va posto l'elevato valore dei prodotti complessivamente trafugati (complessivamente stimato pari a circa 20.000 Euro): trattasi di argomentazione in fatto incensurabile in questa sede perché esauriente, logica e non contraddittoria.
Le doglianze del ricorrente sono, pertanto, in parte qua inammissibili per genericità (non avendo tenuto adeguatamente conto delle argomentazioni della Corte di appello), e comunque manifestamente infondate.
2.3. Il difetto di specificità della contestazione della circostanza di cui all'art. 61 n. 11 c.p. non ha costituito oggetto di rituale appello (la doglianza non è, infatti, indicata dalla sentenza impugnata: cfr. riepilogo dei motivi di appello a f. 1 s., che in parte qua il ricorrente avrebbe avuto il dovere di contestare nell'odierno ricorso, se parziale o inesatto).
Peraltro, la circostanza è senz'altro contestata in fatto nel corpo dell'imputazione, ed ai fini della contestazione dell'accusa, ciò che rileva è la compiuta descrizione del fatto e delle circostanze, non anche l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (per tutte, Cass. pen., sez. III, n. 22434 del 24 maggio 2013, rv. 255772).
Essa è, inoltre, sicuramente configurabile, sussistendo un non contestato rapporto di prestazione d'opera tra l'imputato ed il datore di lavoro truffato (il titolare della farmacia M. , soggetto passivo della condotta).
Le doglianze del ricorrente sono, pertanto, in parte qua inammissibili per genericità (non avendo tenuto adeguatamente conto delle argomentazioni della Corte di appello), e comunque manifestamente infondate.
3. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché - apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) e tenuto conto della rilevante entità di detta colpa - della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
3.1. Il ricorrente va, inoltre, condannato alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile A..M. .
3.1.1. In proposito, ritiene il collegio che le spese debbano essere liquidate secondo i nuovi parametri introdotti dal d.m. 20 luglio 2012, n. 140.
Invero, come chiarito dalla Corte Suprema di Cassazione (Sez. un. civ., sentenza n. 17405 del 2012), in tema di spese processuali, agli effetti dell'art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all'art. 9, secondo comma, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata.
È pur vero che, ai sensi dell'art. 13, comma 10, della ancora successiva l. n. 247 del 2012, “Oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive”. Il citato comma 6 della medesima disposizione stabilisce che “I parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”.
Tuttavia, non risultando ancora emanato il decreto di cui al citato comma 6 dell'art. 13 l. n. 247 del 2012, la disposizione di cui al comma 10 del medesimo articolo di legge deve ritenersi allo stato in concreto non operante.
Vanno, in proposito, affermati i seguenti principi di diritto:
“In tema di spese processuali, agli effetti dell'art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all'art. 9, secondo comma, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di compenso la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata”;
“In tema di spese processuali, non risultando ancora emanato il decreto di cui al comma 6 dell'art. 13 l. n. 247 del 2012, cui è devoluta la determinazione della misura massima per il rimborso delle spese forfettarie, la disposizione di cui al comma 10 del medesimo articolo 13 - che reintroduce la previsione del rimborso delle predette spese, in passato denominate spese generali -, deve ritenersi allo stato in concreto non operante”.
3.1.2. Le spese sostenute dalla parte civile costituita vanno, pertanto, liquidate come da dispositivo, con riguardo ai soli compensi, in difetto della documentazione di esborsi rimborsabili; non è dovuto il rimborso di spese “forfettarie” o “generali”; sono dovuti gli accessori di legge (IVA e CPA).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute m questo grado dalla parte civile M.A., che liquida in Euro duemila per compensi, oltre accessori come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza