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Sentenza

Il reato di lesioni personali non è assorbito da quello di violenza sessuale.
Il reato di lesioni personali non è assorbito da quello di violenza sessuale.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 giugno 2012 – 11 aprile 2013, n. 16446
Presidente De Maio – Relatore Savino

Ritenuto in diritto

D.M. proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Salerno emessa in data 29.9.011 a conferma della sentenza in data 29.9.04 con la quale il GUP del Tribunale di Salerno, all'esito di giudizio abbreviato, lo aveva ritenuto responsabile del reato di cui agli art. 572 cp (capo A), 81, 582, 585, in relazione agli art. 576 co. 1 n. 1, 61 n. 2 cp., 585 ultima parte in relaz. Art. 577 co. I lett. A in relaz. art. 61 n. 4 cp (capo B), 609 bis cp (capo C), tutti commessi ai danni della convivente S.S. , e, ritenuta la continuazione, con la diminuente del rito, lo aveva condannato alla pena di anni sei di reclusione e alle pene accessorie come per legge, nonché al risarcimento del danno cagionato alla parte civile S.S. , da liquidarsi in separato giudizio e al pagamento della provvisionale di Euro 10.000 i favore della predetta.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il D. per i seguenti motivi:
1- ai sensi dell'art. 606 co. 1 lett. B) ed E) c.p.p., per inosservanza dell'art. 192 c.p.p. e mancanza e contraddittorietà di motivazione con riguardo all'attendibilità delle dichiarazioni della parte offesa.
Il ricorrente, facendo riferimento alla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte sull'efficacia probatoria della deposizione della parte offesa nei reati di violenza sessuale, lamenta che i giudici di secondo grado non abbiano effettuato un controllo accurato dell'attendibilità delle dichiarazioni della S. , sulle quali si fonda l'accusa, estendendolo in particolar modo al contesto famigliare in cui è maturata la relazione fra la stessa e l'imputato e alle dinamiche dei rapporti interpersonali fra i famigliari della donna e il D. . Queste sono state caratterizzate dalla mancata accettazione del predetto a causa della sua condizione di extracomunitario accompagnata da atteggiamenti di marcata diffidenza ed ostilità nei suoi confronti, accentuatisi dopo la nascita del figlio della coppia e l'inizio di una convivenza, momento a partire dal quale sono culminati in atti pressoché quotidiani di disturbo, di vessazione e di minacce da parte del fratelli della S. . Peraltro lo stesso comportamento della S. appariva irragionevole e contraddittorio posto che la donna aveva presentato tre denunce consecutive, le prime due per percosse e minacce, la terza per violenza sessuale, nei giorni del 25, 26, 27 luglio 2010, quando già a partire del 25 luglio il D. si era allontanato dalla casa famigliare, per fatti asseritamente accaduti diversi giorni prima.
2- ai sensi dell'art. 606 co. 1 lett. b) ed e) c.p.p., inosservanza, erronea applicazione della legge penale con riguardo all'applicazione dell'art. 609 bis c.p.p. carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata nel punto in cui ha ritenuto che la lesioni anale riscontrata non fosse assorbita nel reato di violenza sessuale ma integrasse l'autonoma fattispecie delle lesioni personali, ferma restando l'assoluta carenza di prova sulla correlazione fra la presunta violenza e tale lesione, ascrivibile ad altre cause indipendenti dalla condotta dell'imputato.
3 - Ulteriore censura riguarda il mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 609 bis terzo co cp. Posto che ai fini del riconoscimento di detta ipotesi occorre valutare la gravità del fatto con riferimento al grado di compromissione della libertà sessuale della vittima e all'incidenza dell'abuso sulla sfera psichica del soggetto passivo, il ricorrente evidenzia la modesta entità del fatto desumibile dal dato che si trattava conviventi che intrattenevano da svariati anni una relazione sentimentale, ragione per cui l'incidenza della presunta coercizione sessuale doveva ritenersi minore rispetto a quella attuata nei confronti di persona estranea.
4 - Altre censure riguardano il trattamento sanzionatorio, segnatamente l'omessa motivazione da parte della Corte di Appello in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, la cui richiesta è stata reiterata in appello, in ordine alla determinazione dell'entità della pena in misura superiore al minimo edittale, nonché all'entità degli aumenti apportati per la continuazione.

Considerato in fatto

Il presente ricorso è diretto a sollecitare una rivalutazione delle risultanze processuali, una diversa lettura degli elementi di fatto, non consentita al giudice di legittimità.
Si ricorda in proposito che in sede di controllo della motivazione ex art. 606 co. primo lett. E) c.p.p., il compito della Cassazione non consiste nell'accertare la plausibilità e l'intrinseca adeguatezza dell'interpretazione delle risultanza processuali, riservata al giudice di merito, bensì nel controllare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali; dunque deve accertare se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell'interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove i modo da fornire giustificazione razionale delle scelte di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass. S.U. n. 12 del 31.5.00, S.U. n. 47289 del 24.9.03, sez. III n. 40542 del 12.10.07, sez. IV n. 4842 del 2.12.03).
Quindi, una volta accertata la tenuta logica della motivazione, non è possibile una nuova valutazione delle risultanze processuale da contrapporre a quella effettuata dai giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei fatti sia pure anche essa logica. Ne consegue che, laddove le censure mosse dal ricorrente non siano idonee a scalfire la logicità e linearità della motivazione del provvedimento impugnato, queste devono ritenersi inammissibili, perché proposte per motivi diversi da quelli consentiti in quanto non riconducibili alla categoria di cui all'art.606 comma 1 lett. E c.p.p..
Fatta questa premessa sui limiti del controllo della motivazione da parte del giudice di legittimità, va anche ricordato come, nel caso di sentenze di merito conformi, quali quelle in esame, la valutazione della congruità ed esaustività della motivazione deve riguardare entrambe le motivazioni. Con riguardo al rapporto fra le sentenza di merito di primo e secondo grado, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, allorché dette sentenze concordino nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, esse si integrano vicendevolmente e la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente formando un unico complesso corpo argomentativo (Cass. sez. I 26.6.2000 n. 8868, sez. II 13.1.97 n. 11220)
La Corte di legittimità ha anche affermato, sempre in tema di integrazione fra sentenze di primo e secondo grado, con specifico riguardo all'ammissibilità del richiamo per relationem contenuto nella sentenza di appello, che se l'appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche e superflue, palesemente inconsistenti, è consentita la motivazione per relationem da parte del giudice dell'impugnazione; quando invece le soluzioni adottate dal giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall'appellante con motivi nuovi non riproposti, sussiste il vizio di motivazione sindacabile ai sensi dell'art. 606 co. 1 lett. E) c.p.p. se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure richiamando la censurata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi senza farsi carico di argomentare sulla inadeguatezza o inconsistenza dei motivi di appello (Cass. sez. IV 14.2.08 n. 15227).
Ciò posto, deve ritenersi pienamente ammissibile il richiamo contenuto nella sentenza di appello alla sentenza di primo grado in relazione a quelle censure aventi ad oggetto deduzioni già sottoposte al giudice di primo grado, non senza rilevare che, a parte il rinvio, la sentenza di secondo grado contiene una sua adeguata motivazione in ordine ai motivi di appello.
Tanto premesso, si deve ad ogni buon conto rilevare che la motivazione della sentenza impugnata appare coerente nella coordinazione dei passaggi logici attraverso i quali si sviluppa ed esaustiva nel confutare le deduzioni difensive dell'imputato, con articolata e congrua motivazione.
Essa ha illustrato l'iter logico seguito per pervenire all'affermazione di responsabilità dell'imputato, ha indicato in modo circostanziato gli elementi di prova utilizzati ed ha compiutamente confutato le ragioni addotte a difesa dell'imputato esponendo, per i singoli passaggi della motivazione, argomentazioni convincenti sul piano logico e giuridico, immuni da censure.
I-In particolare, con riguardo al primo motivo di ricorso, nel richiamare l'orientamento della Suprema Corte in tema di valutazione dell'attendibilità della dichiarazione della parte offesa con particolare riguardo ai reati di violenza sessuale, ha rilevato come le dichiarazioni della S. , incentrate nella descrizione del progressivo deterioramento della relazione con l'imputato, dovuta a differenze di cultura e di mentalità, culminata nei maltrattamenti e violenze oggetto dell'imputazione, siano intrinsecamente credibili data la precisione e coerenza logica del racconto, privo di sbavature anche nel resoconto della successione cronologica dei fatti, analitico nella rappresentazione del progressivo peggioramento dei rapporti fra i due conviventi, al tempo stesso privo di qualsiasi malanimo della donna nei confronti dell'imputato, e confortato, sul versante esterno, dalle deposizioni dei testi escussi.
Particolare attenzione è stata riconosciuta dalla Corte territoriale al problema della asserita contraddittorietà del comportamento della parte offesa per aver denunciato i fatti, compreso la violenza sessuale subita, a distanza di diversi giorni dalla loro commissione, situazione ritenuta plausibile, con motivazione assolutamente congrua, dai giudici di seconde cure, sulla base della giustificazione data che, solo a seguito di un'ulteriore aggressione fisica, la S. si è decisa, quando il convivente aveva lasciato la casa famigliare, a denunciare anche i pregressi episodi, prima taciuti nel tentativo di non esacerbare la conflittualità del rapporto e di evitare ripercussioni del comportamento violento del compagno sul loro figlioletto.
2- quanto al secondo motivo del ricorso, riguardante l'assoluta carenza di prova sulla correlazione fra la presunta violenza sessuale e la lesione anale riscontrata, ascrivibile, secondo la difesa del ricorrente, ad altre cause indipendenti dalla sua condotta, i giudici di seconde cure hanno ritenuto, con esaurienti e logiche argomentazioni, che la lesione fosse riconducibile alla violenza sessuale.
A tale conclusione sono pervenuti desumendola dalle dichiarazioni della parte offesa in ordine alla penetrazione anale subita ad opera del convivente, valutate attendibili anche sullo specifico punto, nonché dal referto medico dell'ospedale, in relazione al quale i giudici di appello hanno spiegato che la posteriorità della data di rilascio, 28.7.010, rispetto alla data dell'abuso sessuale, (…), riferita dalla S. , lungi dal costituire un elemento di fragilità della credibilità delle dichiarazioni accusatorie, era da attribuirsi alla decisione presa dalla donna solo a seguito dell'ultimo episodio di aggressioni verbali e fisiche avvenuto il 25.7.010, di denunciare il fatto e di farsi visitare dai medici del locale nosocomio, che le avevano riscontrato le lesioni indicate nel referto; ciò in quanto esasperata dalla crescente gravità da esso presentata rispetto alle precedenti manifestazioni di violenza ed intimorita dalle minacce fatte dal convivente di coinvolgere il loro figlioletto.
Del tutto destituita di fondamento è poi la censura concernente il mancato assorbimento della lesione anale riscontrata nel reato di violenza sessuale.
Come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, secondo costante indirizzo giurisprudenziale il reato di lesioni personali concorre con quello di violenza sessuale dal quale non è assorbito; trattasi difatti di fattispecie criminose che offendono beni diversi e che non sono in rapporto di necessaria strumentalità fra di loro, nel senso che la privazione della libertà sessuale può essere perpetrata anche con mezzi che non producono lesioni personali; di conseguenza, allorché alla vittima della violenza sessuale, si cagionino lesioni personali, anche solo per vincerne la resistenza, vi è concorso fra i due reati (Cass. sez 3, 28.10.04 n. 46760).
3 - altrettanto inammissibile è in quanto riguarda censure già dedotte in appello ed oggetto di disamina, è la censura riguardante il mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 609 bis terzo co cp.
La Corte di appello si è pronunciata su di essa fornendo del diniego della richiesta attenuante una motivazione assolutamente adeguata e corretta sul piano logico, fondata sul rilievo dalla gravità della condotta in relazione alla natura dell'atto sessuale preteso, alle lesioni arrecate, alle conseguenze psicologiche subite dalla parte offesa, al contesto di gravi vessazioni e prevaricazioni in cui la condotta sessuale si è venuta ad inserire.
Quanto poi ai profili della richiesta difensiva sui quali la corte territoriale, ad avviso della difesa, non si sarebbe pronunciata, omettendo di tenere conto della scarsa incidenza della presunta coercizione (rispetto a quella attuata nei confronti di persona estranea), trattandosi di conviventi che intrattenevano da svariati anni una relazione sentimentale, si richiama il costante orientamento della Suprema Corte secondo cui "il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto, ad opera del giudice del merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo sufficiente l'analisi approfondita e l'esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass. sez VI n,20092, del 4.5.011, sez III n. 46223 del 16.11.2011).
4 - Altrettanto inammissibili sono le censure riguardanti il trattamento sanzionatorio, segnatamente l'omessa motivazione da parte della Corte di Appello in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, in ordine alla determinazione dell'entità della pena in misura superiore al minimo edittale, nonché all'entità degli aumenti apportati per la continuazione, anche esse già dedotte in appello ed oggetto di disamina.
Secondo costante insegnamento di questa Corte Suprema, le statuizioni in ordine all'entità della pena, al pari di quelle relative al riconoscimento o meno delle attenuanti generiche, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, rientrano nell'ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, che sfugge al sindacato di legittimità qualora non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretto da sufficiente motivazione. (Sez. U, Sentenza, del 25/02/2010 Ud. (dep. 18/03/2010) Rv. 245931, Sez. 2, Sentenza del 18/01/2011 Ud. (dep. 01/02/2011) Rv. 249163).
Quanto alla determinazione della pena, si è inoltre sostenuto che, proprio perché la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, questi ottempera all'obbligo motivazionale di cui all'art. 125, comma terzo, cod. pen. anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 cod. pen. e, qualora la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, anche adoperando espressioni come "pena congrua", "pena equa", "congruo aumento", ovvero richiamandosi alla gravità del reato o alla personalità del reo. (Cass. Sez. III, 29/05/2007 rv. 237402, Sez. 4, Sentenza n. 41702 20/09/2004 rv. 230278, Sez. Unite 25/02/2010 rv. 245931, Sez. 2, 18/01/2011 rv. 249163).
Quanto alla concessione delle attenuanti generiche, il relativo giudizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la vantazione circa l'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Si è ritenuto di conseguenza che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso, non essendo necessario che siano esaminati tutti i parametri di cui all'art. 133 cod. pen..(Cass Sez. 2, Sentenza 18/01/2011- 01/02/2011 rv. 249163, Sez. 1, Sentenza del 07/07/2010-13/09/2010 Rv. 247959).
Orbene la sentenza impugnata nel richiamare e fare proprie le conclusioni della sentenza di primo grado con riguardo alla determinazione dell'entità della pena e degli aumenti per la continuazione, e al diniego delle attenuanti generiche all'imputato, ha fornito adeguata e congrua motivazione della scelta operata, fondata su un'attenta ponderazione della gravità della condotta e della personalità del predetto, secondo i criteri direttivi di cui all'art. 133 c.p.. motivazione conforme ai principi espressi dalle richiamate pronunce della Suprema Corte, del tutte esente da censure di legittimità.
Il ricorso è dunque inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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