I maltrattamenti in famiglia si configurano anche se ad essere sottoposta a vessazioni morali e fisiche è la convivente.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 8 marzo – 1° luglio 2013, n. 28414
Presidente De Roberto – Relatore Carcano
Ritenuto in fatto
1. G..V. impugna la sentenza in epigrafe indicata con la quale è stata confermata la decisione di primo grado che lo condannò per il delitto di maltrattamenti in danno della convivente M.S. , minacciandola, offendendola e percuotendola e cagionandole lesioni.
Ad avviso della Corte d'appello, S..M. ha reso dichiarazioni coerenti e precise circa l'esistenza di contrasti per motivi di carattere economico e per questioni connesse al figlio della coppia le quali costituiscono la ragione delle continue comportamenti aggressivi e violenti nei suoi confronti.
La circostanza della mera convivenza non esclude per il giudice d'appello il delitto di maltrattamenti, anche se spesso i due conviventi vivessero separatamente, richiamando al riguardo la giurisprudenza di legittimità secondo cui la convivenza more uxorio non deve essere necessariamente stabile, ma deve solo esprimere la volontà della coppia di vivere nella prospettiva di creare un legame di solidarietà e di reciproca assistenza.
Anche, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, ad avviso della Corte di merito, la conclusione cui è giunto il giudice di primo grado è corretta poiché non incide sul dolo la circostanza che le reazioni minacciose e ingiuriose erano dovute ai comportamenti della M. e in particolare alle continue pretese economiche; anzi, tali giustificazioni avvalorano la sussistenza della volontà di sottoporre la convivente a continue vessazioni morali e fisiche.
Esclusa la continuazione ritenuta dal primo giudice e ravvisata l'abitualità delle condotte, da intendere integrata anche là dove non siano state prolungate nel tempo, ma siano comunque consistite in molteplici episodi di aggressione morale e fisica, la Corte d'appello conferma la condanna, ridimensionando la pena.
2. Il difensore di G..V. , propone ricorso e deduce:
- violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt.572 e 62 n.2 c.p..
Ad avviso del ricorrente non vi è stata una condotta di maltrattamenti, intesa nel senso corretto di comportamento vessatorio abituale protrattosi per lungo tempo, situazione non risultante dalle dichiarazioni della persona offesa e da alcuni testi, quale Mi.Do. , che hanno affermato di avere assistito soltanto a litigi e che proprio la persona offesa ebbe a minacciare il convivente per aver detto di voler tornare a Catania per rivedere i figli. Analoghe le dichiarazioni della madre del V. , la quale ha riferito di litigi essenzialmente dovuti all'affetto che V.G. manifestava per i figli.
La difesa ritiene che la persona offesa in realtà riferisce solo tre episodi significativi, ma non parla di una continuità e abitualità di atti di aggressione, bensì descrive il marito come una persona dal carattere mutevole e al contempo nervoso. Altri testi, hanno riferito di non avere mai assistito a violenze o aggressioni, ma solo ad una vita di coppia contraddistinta da dissidi e conflittualità, tali da non poter configurare maltrattamenti, nel senso richiesto dalla norma incriminatrice.
Nella descrizione di altri episodi riconducibili alla tensione esistente tra la coppia, il ricorrente richiama quanto emerso dai colloqui con la psicologa, nelle promesse.
Per il ricorrente, quanto accertato all'esito dell'istruttoria rende evidente che si è in presenza di episodici fatti non inquadrabili nella fattispecie dei maltrattamenti. Altrettanto, non vi è la prova del dolo richiesto per la configurazione del reato che deve essere necessariamente programmatico.
La difesa censura il diniego dell'attenuante dello stato d'ira in cui era l'imputato per l'azione della convivente. In realtà, vi erano gli elementi richiesti per la configurazione dell'attenuante.
Non può essere giustificato il diniego, soltanto per l'abitualità della condotta, non valutando correttamente quanto affermato dalla stessa persona offesa circa l'episodicità della condotta.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è in realtà non è volto a rilevare mancanze argomentative e illogicità ictu oculi percepibili, bensì a ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito la vicenda coniugale.
Il giudice d'appello, come si è esposto in narrativa, ha dialogato con le conclusioni raggiunte dal Tribunale e, dopo una complessiva e accurata valutazione delle prove acquisite, ha condiviso il significato da esse tratto dal Tribunale.
La Corte di merito ha posto in rilievo - si è già detto in narrativa - che il racconto della persona offesa non è smentito da quanto riferito dai testi cui fa riferimento la difesa, poiché le reazioni di S..M. confermano ancor più le prevaricazioni del ricorrente.
La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata ha fondamento, dunque, in un quadro probatorio giudicato completo e univoco, e tanto da far ritenere la sussistenza di un precisa determinazione di V. di sottoporre la convivente S..M. a continue vessazioni morali e fisiche di notevole gravità tanto da far emergere in termini incontrovertibili l'abitualità della condotta prevaricatrice e aggressiva.
In conclusione, a fronte di una plausibile ricostruzione della vicenda, come ampiamente descritta in narrativa, sui precisi riferimenti probatori operati dal giudice d'appello, in questa sede, non è ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l'iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.
La Corte territoriale ha compiutamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto la sussistenza degli elementi richiesti per la configurazione del delitto de quo e le condotte alle quali ha riconosciuto tale illecita connotazione.
3. Il ricorso è, dunque, inammissibile e, a norma dell'art. 616 c.p.p., il ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n. 186.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a quello della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna altresì il ricorrente a rimborsare alla parte civile le spese di questo grado, che si liquida in complessivi Euro tremila, oltre Iva e C.P.A..
05-07-2013 23:10
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