Gli indizi di colpevolezza altro non sono che gli elementi di prova (di natura storica/diretta o critica/indiretta) sottoposti a valutazione incidentale nell’ambito del sub procedimento cautelare.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 giugno - 23 luglio 2013, n. 32038
Presidente Siotto– Relatore Magi
Ritenuto in fatto
1. In data 6.12.2012 (con deposito del 27.12.2012) il Tribunale di Napoli, Sezione Riesame (da ora in poi TdL), pronunziandosi a seguito di istanza proposta da B.D. , dichiarava insussistenti i gravi indizi di colpevolezza a suo carico in relazione ai reati di duplice omicidio volontario e soppressione di cadavere, annullando l'ordinanza di custodia cautelare emessa il 6.11.2012 dal G.I.P. presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere. La complessa vicenda portata all'attenzione del TdL può essere sintetizzata nel modo che segue:
- nell'ambito di indagini tese a verificare le ragioni della scomparsa di G.E. e B.M. - rispettivamente coniuge e figlia dell'indagato B.D. - la Procura territorialmente competente in rapporto all'ultimo luogo di residenza ((omissis)) disponeva in data 13.11.2012 l'esecuzione di una perquisizione domiciliare presso l'abitazione sita in via (omissis) , attuale domicilio di B.D. e luogo in cui vivevano le persone scomparse;
- gli operanti, nel corso di tale atto, si avvedevano della presenza di un “vespaio” ossia di una intercapedine posta tra il piano di calpestio dell'immobile (una villetta unifamiliare con giardino) e il suolo, dell'altezza di circa 80 cm., cui poteva accedersi - non senza difficoltà - mediante una piccola grata in ferro;
- esaminato l'angusto locale - privo di pavimentazione - si rinvenivano due resti di scheletri umani, allineati con cura uno vicino all'altro, verosimilmente riferibili alle due donne (scomparse da anni) e ciò in rapporto al luogo del rinvenimento (si tratta dell'abitazione ove le due pacificamente hanno vissuto sino all'estate dell'anno (...)) e ad altri dettagli puntualmente indicati nel provvedimento emesso dal Tribunale alle pagine 8 e 9 (rinvenimento nel vespaio di effetti personali riconducigli alle due, tra cui un frammento della carta di identità di B.M. ).
A seguito della “ragionevole” attribuzione dei resti ossei alle due scomparse ed in virtù della esistenza di ulteriori elementi conoscitivi, compendiabili nelle circostanze seguenti:
- D..B. non aveva mai denunziato formalmente la scomparsa della moglie e della figlia (le indagini prendono le mosse dalle reiterate denunzie di un fratello di G.E. , G.L. , che già nell'anno (...) aveva segnalato l'anomala sparizione della congiunta);
- si era ritirato in solitudine nella villetta di (omissis) già nel periodo immediatamente successivo alla sparizione e, pur avendo inevitabilmente notato la presenza in casa di molteplici indizi che lasciavano presumere l'assenza di una volontà di allontanamento delle due donne (presenza degli abiti negli armadi, presenza della vettura intestata ad E..G. ) aveva sempre continuato ad affermare, a richiesta dei parenti e delle stesse forze dell'ordine, che la moglie e la figlia lo avevano abbandonato volontariamente per ignota destinazione;
- non poteva non essersi accorto della presenza dei due cadaveri nella intercapedine, specie nel periodo iniziale, caratterizzato dal tanfo della putrefazione;
- era raggiunto, altresì, dai contenuti di dichiarazioni rese da O.R. che lasciavano presumere l'esistenza di una personalità instabile e tesa alla realizzazione di violenze intrafamiliari;
- veniva disposto il fermo del B. , convalidato dal G.I.P. territoriale.
L'indagato, soggetto dalla pregressa esperienza in campo medico - essendo stato in passato il direttore sanitario della Casa di Reclusione di (omissis) - negava gli addebiti e pur apparendo in uno stato fisico e psichico alquanto precario (ben evidenziato già dal cognato G.L. in sede di denunzia e constatato anche dall'autorità giudiziaria procedente) mostrava di comprendere la natura e i motivi delle accuse a lui rivolte.
Va precisato altresì che le indagini svolte consentivano di accertare - sino al momento della decisione qui impugnata - che:
- G.E. e B.M. avevano aperto un conto bancario cointestato nell'anno 2003, conto su cui continua ad essere accreditata la pensione INPDAP spettante alla G. e che reca un saldo attuale pari a 144.792,81 Euro;
- l'ultimo movimento su detto conto bancario risale alla data del (omissis) ;
- in precedenza, sul conto in questione, tra (omissis) e (omissis) risultano prelevati circa 30.000,00 Euro;
- D..B. , pur collocato a riposo nel XXXX, non risulta aver inoltrato domanda di pensione e sul diverso conto a lui intestato risultavano presenti nel (omissis) soltanto 4.700,00 Euro, accresciutisi in virtù di un versamento di circa 29.000,00 Euro recante la data del (OMISSIS) ;
- nei primi mesi dell'anno XXXX (quello della verosimile scomparsa avvenuta nel periodo estivo) le due donne avevano avviato una piccola attività commerciale ed il B. dopo la scomparsa aveva - sino al momento del rinvenimento degli scheletri - continuato a pagare l'affitto del locale;
- B.M. aveva contratto matrimonio nel (...) con D.M.S. - infermiere presso il centro clinico di (omissis) - ma il rapporto coniugale era terminato nel (...) con una separazione; neanche il D.M. aveva mai allertato le forze dell'ordine in relazione alla scomparsa dell'ex coniuge, accontentandosi delle Indicazioni date dal Dott. B. , cui prestava assistenza materiale;
- la grata in ferro che consente l'accesso al “vespaio” era stata in epoca alquanto recente verniciata perché non mostrava tracce evidenti di ruggine.
Ciò posto, in sintesi, il TdL così argomentava la propria decisione:
- può concordarsi sulla riferibilità degli scheletri alle scomparse G.E. e B.M. in virtù dei convergenti indizi in tal senso;
- da ciò deriva che l'ipotesi dell'omicidio posto in essere dall'indagato è solo una delle possibili spiegazioni della morte delle due donne, cui allo stato è possibile contrapporne altre con pari plausibilità logica.
In particolare, il Tribunale - posto che non risultano acquisiti elementi certi circa le modalità del decesso - censura la ricostruzione operata in sede applicativa del titolo cautelare in riferimento alla interpretazione di talune circostanze di fatto come univocamente espressive di un reato di omicidio, lì dove le massime di esperienza utilizzate per accantonare altre ipotesi (in particolare quelle del duplice suicidio o dell'omicidio/suicidio) non appaiono dotate della necessaria forza persuasiva. I gravi indizi a carico del B. sarebbero stati desunti in massima parte dal suo stesso comportamento successivo alla scomparsa delle donne (l'omessa denunzia, l'accreditare l'ipotesi della scomparsa volontaria) ma tale condotta - indubbiamente anomala - non risulta essere compatibile solo con la volontà di mascherare un delitto commesso ma potrebbe avere altre spiegazioni, in un contesto familiare caratterizzato da un estremo disagio psicologico ampiamente emergente dagli atti. Il Tribunale inoltre valorizza ulteriori fonti conoscitive (manoscritti della G.E. rinvenuti nella villetta) da cui emerge la forte preoccupazione della G. per le “gravi condizioni di salute” della figlia B.M. , di cui la madre teme anche l'aggressività in momenti di crisi, tanto da aver paura a restare sola con lei ed in cui si definisce “esausta”. Circa, inoltre, gli elementi indizianti posti a carico del B. in relazione al luogo ed alle modalità del rinvenimento degli scheletri, il Tribunale afferma che in ipotesi di omicidio volontario ben avrebbe potuto l'indagato interrare i corpi sì da rendere più difficili le ricerche e da evitare che il lezzo della putrefazione attirasse l'attenzione dei vicini. Quanto alle ipotesi alternative le stesse vengono indicate:
a) nel duplice omicidio posto in essere da terzi estranei al nucleo familiare;
b) nel duplice suicidio o nell'omicidio/suicidio.
In particolare, si ritiene che da numerosi dati già acquisiti emerge che le due donne avevano in passato posto in essere tentativi di suicidio e che negare la verosimiglianza di tale ipotesi - come chiave di lettura dell'accaduto - per il fatto che le due avevano di recente intrapreso un'attività commerciale non appare frutto dell'applicazione di una consolidata massima di esperienza. Infine viene evidenziata dal Tribunale anche l'assenza di elementi certi sul possibile movente che avrebbe - In ipotesi di duplice omicidio - determinato l'azione da parte del B. .
2. Ha proposto ricorso per cassazione il Pubblico Ministero presso il Tribunale di S.Maria Capua Vetere, titolare dell'indagine, denunziando erronea applicazione di norme di legge (in riferimento agli artt. 273 e 192 cod. proc. pen.) e vizio di motivazione del provvedimento impugnato. La necessaria sintesi dello sviluppo dei motivi porta a dire che:
- ad avviso del P.M. impugnante il Tribunale avrebbe operato una illegittima “atomizzazione” degli elementi indizianti posti a carico del B. , violando l'obbligo di valutazione unitaria e congiunta dei dati;
- sarebbe altresì incorso in evidenti contraddittorietà ed in taluni casi avrebbe travisato il valore dimostrativo di specifici elementi acquisiti.
In particolare, dopo aver nuovamente evidenziato gli elementi di fatto emersi (alle pag. 4 e 5 del ricorso) si rappresenta che:
- le ipotesi alternative a quella del duplice omicidio introdotte dal Tribunale sarebbero smentite da dati obiettivi, sì da risultare illogiche ed arbitrarie;
- l'ipotesi del duplice omicidio sarebbe invece avvalorata da precisi ed individualizzanti elementi indizianti a carico dell'indagato.
A sostegno di ciò l'impugnante ribadisce che:
a) B.D. non ha mai sporto denunzia per la scomparsa della moglie e della figlia sempre accreditando l'ipotesi dell'allontanamento volontario e pur in presenza di dati obiettivi (presenza in casa di effetti personali, abiti, blocchetti di assegni, vettura) che lasciavano ragionevolmente dedurre il contrario;
b) ha certamente fatto ingresso nel vano posto sotto l'abitazione e ha operato la manutenzione della piccola grata di accesso;
c) ha continuato a pagare l'affitto del locale commerciale preso in gestione dalle due donne per ben otto anni;
d) ha fornito spiegazioni del suo contegno del tutto inverosimili in sede di interrogatorio, affermando di non aver sporto denunzia “per vergogna”;
e) all'interno del vano divenuto la tomba di G.E. e M..B. vi era, tra l'altro, una torcia ed un bacinella che si assumono portate dall'indagato allo scopo di “trattare” i cadaveri evitando la diffusione del lezzo della putrefazione;
da tutto ciò si deduce, sempre ad avviso dell'impugnante, la precisa volontà di occultare le proprie responsabilità in rapporto al decesso delle donne, unica spiegazione coerente, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale. Inoltre, vengono ritenute del tutto astratte le ipotesi alternative sulle quali si è soffermato il Tribunale, in rapporto alle considerazioni che seguono:
- l'ipotesi di terzi estranei non trova supporto dimostrativo nell'esistenza di contrasti - mai emersi - tra le donne ed altre persone (a differenza degli elementi che depongono per una marcata conflittualità in ambito familiare);
- non risulta la realizzazione di furti o rapine nella villetta né emergono motivi di rancore nei confronti di B.D. tali da far ipotizzare una vendetta trasversale;
- l'ipotesi del doppio suicidio o dell'omicidio/suicidio, pur apparendo meritevole di approfondimento, contrasta con talune emergenze investigative indicate nel fatto che nel periodo della scomparsa le donne “godevano di buona salute psicologica ed erano attivamente impegnate nella loro iniziativa commerciale e nell'abbellimento e parziale ristrutturazione dell'abitazione” oltre al dato che M..B. aveva contattato un legale per ottenere il divorzio. Viene altresì evidenziato che pur essendo emersi pregressi tentativi di suicidio (realizzati con abuso di psicofarmaci) mai le donne avevano posto in essere atti di violenza fisica l'una verso l'altra e le preoccupazioni espresse da G.E. nella lettera utilizzata dal Tribunale sono smentite dal fatto che le due vivevano - secondo numerose fonti - un rapporto simbiotico.
Viene infine evidenziato che l'affermazione circa l'assenza di un movente - in capo a D..B. - oltre ad avere non decisiva incidenza sulla valutazione sarebbe frutto di una sottovalutazione dei forti dissidi in ambito familiare pacificamente emersi (anche per le dichiarazioni rese dalla O. ) ed in ogni caso l'azione potrebbe essere stata causata da un impeto momentaneo. Si ribadisce, pertanto, la sostanziale unicità della chiave di lettura dei dati dimostrativi nella direzione del duplice omicidio e si ritiene più che legittima l'avvenuta valorizzazione del contegno “irragionevolmente negatorio” tenuto dal B. anche a fronte della scoperta dei due scheletri.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.
La obiettiva complessità della vicenda comporta la necessità di operare talune considerazioni preliminari. L'esame dei motivi presuppone, infatti, la delimitazione dei poteri di controllo del giudice di legittimità sul denunziato vizio di motivazione, in una con la ricognizione della regola di giudizio che governa l'applicazione delle misure cautelari personali.
Sul punto, va anzitutto osservato che il legislatore nel prevedere - all'art. 273 cod. proc. pen. - che nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono “gravi indizi di colpevolezza” ha inteso utilizzare il termine “indizio” non nel suo connotato tradizionale di “elemento di prova critico o indiretto” ma ha voluto, invece, valorizzare il significato dell'intera locuzione (indizi..di colpevolezza) creando un doveroso “rapporto” tra la valutazione in materia di libertà ed il prevedibile esito finale del giudizio (la colpevolezza intesa come affermazione di penale responsabilità). In ciò, come è stato più volte chiarito, gli indizi di colpevolezza altro non sono che gli elementi di prova - siano essi di natura storica/diretta o critica/indiretta - sottoposti a valutazione incidentale nell'ambito del subprocedimento cautelare e presi in considerazione dal giudice chiamato a pronunziarsi nei modi di cui all'art. 292 comma 2 lett. c cod. proc. pen..
La loro obbligatoria connotazione in termini di “gravità” al fine di rendere possibile l'applicazione della misura sta a significare che l'esito di tale valutazione incidentale (sia pure formulata allo stato degli atti) deve essere tale da far ragionevolmente prevedere, anche in rapporto alle regole di giudizio tipiche della futura decisione finale, la qualificata probabilità di condanna del soggetto destinatario della misura.
In ciò è evidente che il giudice chiamato a pronunziarsi in sede cautelare personale dovrà - per dare corretta attuazione ai contenuti del giudizio prognostico - confrontarsi:
a) con la natura e le caratteristiche del singolo elemento sottoposto a valutazione (ad es. l'indizio in senso stretto - la narrazione rappresentativa di natura testimoniale - la chiamata in correità o in reità);
b) con le regole prudenziali stabilite dai legislatore in rapporto alla natura del singolo elemento in questione (si veda, sul punto, quanto affermato da Sez. IV n. 40061 del 21.6.2012, Tritella, Rv 253723, in tema di elementi di prova critica, con necessità di tener conto anche in sede cautelare della loro particolare caratteristica);
c) con le regole di giudizio previste in sede di decisione finale del procedimento di primo grado, ivi compresa quella espressa dall'art. 533 comma 1 cod. proc. pen. (norma per cui l'affermazione di colpevolezza può essere pronunziata solo se il materiale dimostrativo raccolto consente di superare ogni ragionevole dubbio in proposito).
Con ciò non si intende dire - ovviamente - che dette regole prudenziali e di giudizio siano “direttamente” applicabili alla particolare decisione incidentale di tipo cautelare (tranne i casi espressamente previsti dal legislatore all'art. 273 comma 1-bis, peraltro espressione di un principio generale) ma di certo lo sono in via “mediata” posto che un serio giudizio prognostico di “elevata probabilità di condanna” non può prescindere dalla necessità di proiettare il “valore” degli elementi di prova acquisiti sulla futura decisione e sulle sue regole normative tipizzate (in tal senso, di recente, Sez. I n. 19759 del 17.5.2011, Misseri, Rv. 250243, ove si è con chiarezza affermato che “.. il giudizio prognostico in tal senso - ovviamente esteso alle regole per le ipotesi di incertezza e contraddittorietà considerate dal codice di rito all'art. 530, comma 2 e all'art. 533, comma 1, prima parte - è dunque indispensabile, pur dovendo essere effettuato non nell'ottica della ricerca di una certezza di responsabilità già raggiunta, ma nella prospettiva della tenuta del quadro indiziario alla luce di possibili successive acquisizioni e all'esito del contraddicono..”).
Da qui la necessità di identificare - da parte del giudice chiamato a pronunziarsi sulla domanda cautelare - in modo specifico e razionale il significato incriminante degli elementi raccolti sino al momento della decisione e sottoposti al suo esame, senza poter ipotizzare la sopravvenienza di ulteriori elementi a carico dell'accusato allo scopo di “fortificare” un quadro indiziario carente. Tale aspettativa, infatti, potrebbe essere smentita dal prosieguo dell'attività di indagine ed il sacrificio della libertà personale - ove nel frattempo disposto - risulterebbe del tutto incongruo e frutto non già di una “prognosi” fondata su elementi già esistenti, quanto, a ben vedere, di una “scommessa” fondata su una aleatoria sopravvenienza di dati, tali da realizzare l'accrescimento qualitativo dei materiali conoscitivi.
Chiarito tale aspetto, va ulteriormente precisato che il controllo sul “ragionamento giustificativo” della decisione esercitabile in sede di giudizio di legittimità va modellato in rapporto a quanto previsto dall'art. 606 comma 1 lett. e cod. proc. pen. (così come novellato dalla legge 20.2.2006, n.46 art. 8), sia pure in riferimento al particolare “modello legale” della decisione cautelare, previsto dall'art. 292 comma 2 lett. c cod. proc. pen..
In particolare, è evidente che le caratteristiche del giudizio di legittimità non consentono di sovrapporre una “ulteriore” attività valutativa alle attribuzioni di significato già realizzate in sede di merito ma impongono - nell'ambito dei motivi dedotti - di realizzare un controllo circa la congruità e la logicità dell'apparato argomentativo, secondo i seguenti criteri, frutto della elaborazione giurisprudenziale maturata in questa sede:
- verifica circa la completezza e globalità della valutazione operata in sede di merito, non essendo consentito operare irragionevoli parcellizzazioni del materiale indiziario raccolto (in tal senso, tra le altre, Sez. II n. 9269 del 5.12.2012, Della Costa, Rv. 254871) né omettere la valutazione di elementi obiettivamente incidenti nella economia del giudizio (in tal senso Sez. IV, n. 14732 del 1.3.2011, Molinario, Rv 250133 nonché Sez. I, n.25117 del 14.7.2006, Stojanovic, Rv 234167);
- verifica circa l'assenza di evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica tali da compromettere passaggi essenziali del giudizio formulato (si veda in particolare la ricorrente affermazione della necessità di scongiurare la formulazione di giudizi meramente congetturali, basati cioè su dati ipotetici e non su massime di esperienza generalmente accettate, rinvenibile di recente in Sez. VI n. 6582 del 13.11.2012, Cerrito, Rv 254572 nonché in Sez. II n. 44048 del 13.10.2009, Cassarino, Rv 245627);
- verifica circa l'assenza di insormontabili contraddizioni interne tra i diversi momenti di articolazione del giudizio (c.d. contraddittorietà interna);
- verifica circa la corretta attribuzione di significato dimostrativo agli elementi valorizzati nell'ambito del percorso seguito e circa l'assenza di incompatibilità di detto significato con specifici atti del procedimento indicati ed allegati in sede di ricorso (c.d. travisamento della prova) lì dove tali atti siano dotati di una autonoma e particolare forza esplicativa, tale da disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante (in tal senso, ex multis, Sez. I n. 41738 del 19.10.2011, Rv 251516, ove si è precisato, sul punto, che “.. non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione..”).
In altre parole, può dirsi pertanto che il giudice di legittimità è chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti specifici atti del processo. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione, sul rispetto delle regole normative di giudizio (tipiche della fase in questione) e sulla permanenza - a fronte delle specifiche deduzioni - della “resistenza logica” del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (si veda, ex multis, Sez. VI n. 11194 del 8.3.2012, Lupo, Rv 252178).
Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
2. Ciò posto, risulta possibile esaminare le specifiche doglianze denunziate dal ricorrente. Sul punto, questa Corte ritiene che, pur in presenza di elementi che di certo impongono una accurata prosecuzione della attività ricostruttiva (tesa, ad esempio ad accertare - per quanto possibile - le effettive cause del decesso delle due donne) il giudizio espresso dal Tribunale resiste alle critiche in punto di completezza e logicità articolate in sede di ricorso.
Va infatti evidenziato che il momento in cui - qui in fase iniziale dell'attività investigativa - viene emesso il titolo cautelare non può, per quanto detto sopra, influenzare negativamente i contenuti argomentativi del provvedimento de libertate, che deve essere sempre in grado di esprimere in modo chiaro e convincente gli aspetti connotanti la gravità indiziaria.
Nel caso qui in esame il TdL, pur partendo da alcuni dati che appaiono obiettivamente indizianti quali:
a) il rinvenimento dei resti ossei - correttamente attribuiti alle due donne scomparse da più di otto anni - nella intercapedine ricavata (in sede di edificazione dell'immobile) tra il piano terra dell'abitazione ed il suolo, cui poteva accedersi dal giardino attraverso la grata in ferro;
b) la condotta complessivamente tenuta dall'indagato in questi anni, tesa ad accreditare (effettivamente in modo irragionevole) la scomparsa volontaria delle due donne;
ha individuato l'esistenza di altri indici rivelatori tesi - in assenza di risultanze peritali capaci di raffigurare le modalità del decesso - ad accreditare ipotesi che escludono l'azione del B. come fattore “produttivo” del decesso delle sue congiunte.
Nel compiere tale operazione, come si vedrà, va anzitutto affermato che il Tdl non ha travalicato i limiti del giudizio cautelare, posto che il particolare contesto in cui è maturato il rinvenimento degli scheletri (a distanza di anni dalla scomparsa, in presenza di condizioni di evidente abbandono materiale e morale in cui vive il B. e di conoscenze significative circa le patologie comportamentali di almeno una delle vittime) imponeva - pena sì la violazione del canone di completezza - di analizzare i dati sino ad allora emersi, ivi incluse le risultanze circa i reiterati tentativi di suicidio posti in essere (in particolare) da B.M. negli anni precedenti a quello della scomparsa.
In altre parole, essendo la morte delle due donne ascrivibile a più fattori di possibile determinazione (in mancanza di dati di generica quali lesioni ossee derivanti da traumi, tracce di colpi esplosi da armi da fuoco o altro) ed esaminando la “storia personale” delle stesse vittime risulta ragionevole interrogarsi su modalità di produzione dell'evento che appaiano inclusive della volontà suicidiaria così come sulla ipotesi dell'omicidio/suicidio.
Ciò risulta conforme alla regola di giudizio di cui all'art. 273 cod. proc. pen. specie lì dove il tempo decorso dal fatto - come nel caso di specie - comporti un evidente difetto di prova generica, non colmato al momento della decisione cautelare da risultanze peritali.
Nell'esaminare i dati emersi, il TdL introduce - effettivamente - una ulteriore ipotesi che (sul punto si concorda con l'impugnante) appare congetturale, in quanto slegata dall'analisi specifica della scena del crimine e dagli altri elementi raccolti, rappresentata dall'intervento improvviso di “terzi” all'interno della villetta di (omissis) . Sul punto vero è che il luogo del rinvenimento (il “vespaio” posto al di sotto della costruzione) le modalità di “composizione” dei corpi e la non constatazione di traumi ossei, l'assenza - per quanto verificabile a distanza di anni - di consistenti sottrazioni di beni, l'assenza di conclamati contrasti con persone note, lo stesso comportamento tenuto dal B. , sono tutti elementi che portano ad escludere (almeno allo stato degli atti) l'azione omicidiaria consumata da soggetti introdottisi abusivamente all'interno della abitazione.
Ma l'introduzione di una ulteriore ipotesi alternativa - effettivamente non condivisibile - non può portare all'annullamento del provvedimento impugnato lì dove le considerazioni espresse dal TdL circa le altre ipotesi scrutinate (suicidio congiunto o omicidio/suicidio) appaiano formulate in aderenza ai dati raccolti e senza vizi logici (viziatur sed non viziat secondo il principio sotteso ai contenuti dell'art. 619 cod. proc. pen., come ribadito da Sez. I, n.9707 del 10.8.1995, Caprioli, rv 202302 ove si precisa che risulta possibile rimediare a difetti motivazionali non incidenti sul nucleo essenziale della decisione impugnata). Va infatti evidenziato che lo stesso P.M. impugnante - con la dovuta obiettività - ha qualificato l'ipotesi del suicidio congiunto o dell'omicidio/suicidio come “meritevole di approfondimento” in un quadro caratterizzato da forti disagi di tipo psichico (specie espressi da B.M. ), massiccio uso di psicofarmaci reiterato negli anni (con alcune confezioni di un farmaco a base di clonazepam rinvenute anche all'interno del “vespaio” ed in prossimità dei cadaveri come emerge dallo stesso provvedimento impugnato a pagina 9, numeri 20 e 24 dell'elenco) e ricoveri in strutture specialistiche, ma ne ha ridimensionato la rilevanza sulla base di taluni dati (l'attività commerciale di rivendita di detersivi da poco posta in essere, l'apparente stato fisico di normalità indicato da alcuni vicini, le iniziative legali di definizione della separazione intraprese dalla B. ) reputate idonee a contraddire la cittadinanza logica di tale ipotesi.
Tuttavia le massime di esperienza indicate sul punto in sede di ricorso non appaiono affidabili e degradano, anch'esse, il ragionamento espresso ad una sostanziale congettura. Non può dirsi, infatti, assistita da validità logico-scientifica l'idea per cui chi ha posto già in essere tentativi di togliersi la vita non sia pronto a riprovarci, così come non appare frutto di una corretta generalizzazione l'esclusione di una volontà suicidiaria correlata al fatto di aver intrapreso di recente un piccolo commercio.
Le considerazioni espresse - circa tale aspetto - dal Tribunale appaiono, al contrario, assistite da una corretta interpretazione dei dati emersi, ivi compreso il contenuto dei manoscritti rinvenuti nella abitazione (pag. 33 del provvedimento impugnato) in cui G.E. esprime tutto il suo disagio e le sue forti preoccupazioni per le “gravissime condizioni di salute” della figlia M. , chiedendo al marito istruzioni per i momenti di crisi della stessa, caratterizzati da “aggressività e da una forza brutale”. In una di tali lettere, peraltro, la G. chiede al marito di “mettere in vendita il negozio” il che smentisce l'ipotesi di “benessere” correlata alla intrapresa attività commerciale che, evidentemente, non aveva comportato alcun miglioramento del livello di vita delle due.
Ora, a fronte di tali considerazioni, va anche affermato che l'assenza di certezza sulle cause del decesso rende alquanto problematica la qualificazione in termini “indizianti” della condotta tenuta nel corso del tempo dall'indagato B. , condotta che pur presenta aspetti anomali, connotabili in termini di “sospetto”. Se si considera, infatti, che l'accesso al “vespaio” era effettivamente agevole (tanto da poter essere raggiunto anche dalle due donne ancora in vita nell'ipotesi di scelta suicidaria congiunta o da una delle due dopo aver eliminato l'altra) e se risulta in ogni caso credibile l'ipotesi di un ingresso del B. in tale locale successivo alla scomparsa delle due - come sostenuto dal P.M. ricorrente - è di certo legittimo dedurre che l'Indagato abbia mentito a chi, parenti o forze dell'ordine, gli chiedeva dove fossero le congiunte scomparse, ma anche tale dato non autorizza a ritenere che la causa della reticenza sia espressione di un suo coinvolgimento attivo nell'ipotetico duplice omicidio. Nell'esaminare la condotta del B. , infatti, non può omettersi la considerazione - espressa nel provvedimento impugnato - delle sue attuali condizioni esistenziali, del suo assoluto abbandono e chiusura al mondo esterno, tanto da non aver neanche richiesto l'attribuzione del trattamento pensionistico, della sua maniacale attenzione per l'ambiente “giardino” da cui è possibile accedere al luogo di anomala conservazione dei due scheletri. Tutto ciò resta compatibile - salvo l'esito delle ulteriori indagini - con due ipotesi di fondo che restano entrambe sostenibili:
- la prima che vede in D..B. l'autore del fatto, caduto in stato di forte depressione proprio in ragione della gravità della condotta commessa;
- la seconda che vede D..B. investito da un tragico lutto, epilogo di un fotte disagio intrafamiliare che si trascinava da anni ed in rapporto al quale matura un profondo senso di colpa, che lo conduce ad una completa chiusura relazionale e ad una volontà di occultamento dell'accaduto.
Pur accedendo, dunque, all'ipotesi introdotta nel ricorso di una “insincerità” del B. circa la consapevolezza o meno dell'accaduto, non può da ciò derivare;
- viste le complessive considerazioni contenute nel provvedimento impugnato e la loro intrinseca coerenza - un effettivo incremento della gravità indiziaria, tale da determinare l'annullamento della decisione.
Non risultano, infine, condivisibili le doglianze contenute nel ricorso e relative alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza circa l'ipotesi di reato di cui all'art. 411 cod. pen. (soppressione di cadavere) al più potendosi ipotizzare a carico del B. la diversa ipotesi di cui all'art. 412 cod. pen. (occultamento), norma quest'ultima che non consente l'applicazione di misure cautelari. Come ritenuto in diverse decisioni emesse in questa sede, l'elemento che differenzia le due ipotesi va ricercato nel fatto che nel primo caso il nascondimento assume connotati di stabilizzazione ossia di permanenza e definitiva impossibilità di ricerca (si ritiene tramite interramento o comunque abbandono in luoghi tali da comportare la tendenziale impossibilità di rinvenimento) mentre nel caso di occultamento il fatto è realizzato con modalità tali da rendere possibile, con elevata probabilità, il rinvenimento. Ora, pur a volere ipotizzare la consapevolezza dell'indagato circa la presenza dei corpi nel “vespaio” e la loro abusiva conservazione (e fermo restando quanto detto in precedenza circa la possibilità di una scelta delle due donne di attendere la morte in quel luogo) ciò risulta avvenuto con modalità tali da consentire il rinvenimento, sia pure a mezzo di una ricerca accurata.
Pertanto, all'esito della disamina dei contenuti del provvedimento impugnato, e con le precisazioni e rettifiche operate tenendo conto del nucleo essenziale della decisione, va rigettato il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
24-07-2013 22:36
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