Finto ginecologo in carcere. Prescrive atti di autoerotismo al telefono.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 marzo – 3 maggio 2013, n. 19102
Presidente Teresi – Relatore Marini
Ritenuto in fatto
1. La misura cautelare emessa nei confronti dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bologna a carico del sig. U. concerne molteplici episodi qualificati ai sensi dell'art.609-bis, comma 2, cod. pen., in un caso come reato consumato e in altri quattro casi come reati tentati. Le condotte ascritte all'indagato consistono in conversazioni telefoniche nel corso delle quali, qualificatosi come medico ginecologico, riferiva alle donne chiamate di essere al corrente degli accertamenti medici da queste effettuati o in procinto di effettuare e, rappresentate situazioni di urgenza o di opportunità, le sollecitava a compiere su se stesse atti di autoerotismo giustificati da finalità mediche oppure a fotografare la loro zona genitale e trasmettere l'esito via e-mail.
Sia il giudice delle indagini preliminari sia il Tribunale del riesame interessato dall'indagato hanno ritenuto che tale condotta debba essere ricondotta, nei casi più gravi, ad ipotesi di violenza sessuale "per induzione" e ad applicare la misura cautelare della custodia in carcere in considerazione della gravità delle condotte, della loro reiterazione, della esistenza di condotte simili poste in essere in altre località e, infine, della circostanza che una parte delle condotte illecite sono state poste in essere durante il periodo di custodia domiciliare applicata all'indagato da altro giudice per fatti di simile natura.
2. Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame è stato proposto ricorso dal Difensore, che in sintesi lamenta:
a. Errata applicazione di legge ai sensi dell'art.606, lett. b) cod.proc.pen. non potendo le condotte contestate essere ricondotte al reato di violenza sessuale. In primo luogo, i giudici hanno fatto ricorso in modo errato al concetto di soddisfacimento della propria libido sessuale, posto che si tratta di elemento che non rientra fra i presupposti del reato in parola e che i giudici hanno impropriamente posto a fondamento del giudizio di sussistenza del reato (pag. 7 motivazione);
b. Errata applicazione di legge ai sensi dell'art.606, lett. b) cod.proc.pen. con riferimento alla valutazione dei giudici che ritengono il reato integrato anche in ipotesi in cui difetta qualsiasi contatto fisico tra l'autore e la pretesa persona offesa; la giurisprudenza richiamata dal Tribunale si collega a situazioni in cui erano coinvolte persone minori, cosa che non si verifica nel presente procedimento;
c. Errata applicazione di legge ai sensi dell'art.606, lett. b) cod.proc.pen. per avere il Tribunale omesso di considerare che non sussistono esigenze cautelari attuali e prevalenti: avrebbero dovuto essere presi in esame, infatti, la durata della custodia subita, le condizioni psichiche dell'indagato e i controlli possibili in sede domiciliare ad opera dei familiari;
d. Vizio motivazionale ai sensi dell'art. 606, lett. e) cod.proc.pen. con riferimento alle esigenze cautelari la cui esistenza è sostenuta da motivazioni stereotipate ed errate. La custodia domiciliare appare sufficiente a contrastare l'eventuale pericolo di fuga, così come è stata attribuita eccessiva rilevanza alla vita anteatta del ricorrente, del tutto omettendo di esaminare le censure proposte su questo specifico aspetto e così incorrendo nel vizio di carenza di motivazione
Considerato in diritto
1. La Corte ritiene che il ricorso non meriti accoglimento. Mentre i motivi di impugnazione terzo e quarto, relativi alle esigenze cautelari, nella impostazione attuale devono essere giudicati manifestamente infondati, ad un giudizio di infondatezza deve giungersi per i motivi concernenti la sussistenza di un grave quadro indiziario in relazione alla fattispecie di reato ipotizzata.
Muovendo dalle censure relative alla insussistenza del quadro indiziario o, meglio, alla non riconducibilità delle condotte dell'indagato alla fattispecie tipica, la Corte ritiene di dover esaminare partitamente i due profili principali che sono oggetto dell'impugnazione.
2. Sotto un primo profilo, infatti, il ricorrente afferma che l'assenza di qualsiasi contatto fisico con le persone offese esclude che possano dirsi integrati gli estremi del reato contestato. In altri termini, la commissione di atti sessuali penalmente rilevanti richiederebbe l'esistenza di una qualche relazione fisica tra agente e vittima.
Tale impostazione ermeneutica ha formato oggetto di esame da parte di questa Corte ed è stata ritenuta non rispondente al dato normativo. È sufficiente sul punto rinviare alla chiara motivazione della sentenza di questa Sezione n. 11958/2011, udienza del 22/12/2010 (rv 249746), nella quale si chiarisce che l'induzione della vittima a commettere atti sessuali su di sé da parte dell'agente, induzione che mira a soddisfare il desiderio sessuale dello stesso, integra gli estremi del reato previsto dall'art.609-bis cod. pen.. Del resto, non costituisce affatto precedente difforme alla logica della sentenza citata quanto affermato dalla precedente sentenza n. 15464 del 12/02/2004 (rv. 228498), che esclude la sussistenza del reato nelle condotte di autoerotismo poste in essere dall'agente su se stesso in quanto non hanno comportato alcuna invasione della sfera sessuale della persona che vi assiste. Infatti, ciò che rileva ai nostri fini, al di là delle conclusioni cui è giunta l'ultima sentenza citata, è il principio sotteso alle due decisioni: in assenza di contatti fisici fra i due protagonisti del fatto, il reato di violenza sessuale risulta integrato qualora sia compromessa la libera determinazione sessuale della persona destinataria delle condotte dell'agente e ne risulti aggredita la personalità sul piano sessuale.
3. Sotto un secondo e diverso profilo, il ricorrente afferma che i giudici di merito hanno operato un errato richiamo alle finalità delle azioni poste in essere dall'imputato e al soddisfacimento delle sue pulsioni. Anche questa impostazione trova smentita nella giurisprudenza e nei principi che sono stati affermati nel tempo. Infatti, se non vi è dubbio che integrano il delitto ex art.609-bis cod. pen..
le condotte invasive della sfera intima della vittima dettate da finalità di soddisfacimento delle spinte sessuali dell'agente, la giurisprudenza ha affermato che il delitto in parola, caratterizzato da dolo generico, è integrato sul piano soggettivo dalla semplice coscienza e volontà dell'azione tipica; a ciò consegue che il reato sussiste anche quando la condotta tipica e l'offesa al bene protetto siano poste in essere per finalità diverse, quali la volontà di umiliare la persona o di porre in essere una vendetta, senza che venga coinvolta la sfera sessuale dell'agente. Sul punto si rinvia alla chiara motivazione della sentenza di questa Sezione n. 39710 del 21/09/2011 (rv 251318) e, sotto diversa prospettiva, alla motivazione della precedente sentenza n. 21336 del 15/04/2010 (rv 247282) con riferimento alla finalità di provocare timore nella persona offesa.
4. In altri termini, la fattispecie di reato in esame risulta integrata dalle intenzionali aggressioni alla sfera sessuale della vittima, e in tal modo ad una dimensione intima e sensibile della sua persona e della sua personalità, commesse con modalità in qualche modo violente, subdole o artificiose che privino la vittima stessa della reale libertà di determinarsi, e ciò anche nei casi in cui l'agente agisca per finalità diverse dalla soddisfazione della propria libido.
5. Fatte queste premesse sui principi interpretativi applicabili alla fattispecie, la Corte rileva che l'ordinanza impugnata evidenzia come il ricorrente abbia rivolto le proprie attenzioni a persone sconosciute, circostanza che appare escludere finalità di vendetta o comunque legate a problemi di relazione con la destinataria delle azioni; parimenti, le modalità dei fatti sembrano denotare una specifica e morbosa attenzione alla sfera sessuale delle donne coinvolte, così che non sembrano sussistere circostanze che sul piano logico e fattuale escludano la sussistenza degli elementi propri del reato ipotizzato. Ciò impone, infine, di escludere che le condotte poste in essere dal ricorrente siano riconducibili all'ipotesi di reato ex art.660 cod. pen. prospettata dalla difesa.
6. Così affrontato il tema dell'esistenza di gravi indizi di reato, essendo fuori discussione il verificarsi delle specifiche vicende che hanno avuto per protagonista il ricorrente, occorre procedere all'esame delle censure che concernono le esigenze cautelari. Osserva la Corte che le condotte che gli sono state contestate risultano commesse mentre il ricorrente si trovava in stato di custodia cautelare presso il domicilio. Osserva, ancora, la Corte che l'ordinanza impugnata illustra in modo logico e coerente le ragioni che giustificano l'applicazione della più grave custodia cautelare.
7. A tale proposito la Corte osserva che la possibilità prospettata dal difensore di applicare al ricorrente la misura della custodia in un luogo ove possa essere seguito e assistito non appare in via di principio infondata, ma non può certo avere come riferimento l'abitazione familiare, ove si è dimostrata attuale la possibilità di commettere i reati oggetto del presente procedimento ed è emersa la incapacità dei genitori di influire sulle spinte che determinano il ricorrente ad agire contra legem. Pertanto, in assenza di diversa indicazione da parte del ricorrente, i motivi concernenti le esigenze cautelari devono considerarsi manifestamente infondati.
8. Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato, ai sensi dell'art.616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'Istituto Penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall'art.94, comma 1-ter delle norme di attuazione al Codice di procedura penale.
06-05-2013 23:37
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