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Sentenza

Finita la relazione con la moglie continua a disturbare chiamando a casa del suocero. E' reato.
Finita la relazione con la moglie continua a disturbare chiamando a casa del suocero. E' reato.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 9 aprile - 23 maggio 2013, n. 22055
Presidente Giordano – Relatore Cassano

Ritenuto in fatto

1. Il 23 marzo 2011 il Tribunale di Monza, in composizione monocratica, dichiarava A..C.P. colpevole del reato previsto dagli artt. 81, 660 c.p. per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in tempi diversi, per petulanza o, comunque, biasimevoli motivi, recato molestia o disturbo a M.D. , effettuando sul suo cellulare, numerose telefonate, e lo condannava, senza applicare l'aumento per la continuazione, alla pena di trecento Euro di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
Il giudice fondava l'affermazione di penale responsabilità sulle dichiarazioni della parte offesa (suocero dell'imputato), di C.T. , sulle risultanze dei tabulati telefonici, evidenzianti plurime chiamate dell'imputato alla parte offesa in taluni casi anche più volte al giorno e in altri anche in orario serale in epoca successiva alla separazione di fatto dalla moglie.
2.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione personalmente l'imputato, il quale lamenta manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato contestato e al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Osserva in diritto

Il ricorso è manifestamente infondato.
1. Con la disposizione prevista dall'art. 660 c.p. il legislatore, attraverso la previsione di un fatto recante molestia alla quiete di un privato, ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta possibilità di reazione. Pertanto l'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela privata viene accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate (Cass., Sez. I, 29 settembre 1994, n. 11208; Cass., Sez. I, 1 luglio 2002, n. 25045, rv. 238134; Cass., Sez. I, 30 ottobre 2007, n. 43704, rv. 238134).
Il reato consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, interferendo nell'altrui vita privata e nell'altrui vita di relazione.
La contravvenzione prevista dall'art. 660 c.p., richiedendo che l'agente sia mosso da petulanza o da altro biasimevole motivo, suppone il dolo specifico, consistente, come in precedenza detto, nella volontà di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà.
Ai fini della configurabilità del reato non hanno rilievo le "pulsioni" che hanno spinto ad agire e, pertanto, sussiste il dolo del reato in questione anche nel caso in cui si arrechi molestia o disturbo alle persone allo scopo di esercitare un proprio diritto o preteso diritto, allorché ciò avvenga con modalità arroganti, impertinenti o vessatorie.
Per petulanza, ai fini della configurabilità del reato in questione, deve intendersi un atteggiamento di insistenza eccessiva e, perciò, fastidiosa, di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera (Cass., Sez. I, 13 febbraio 1998, n. 7044).
Il "biasimevole motivo" è quello che, pur diverso dalla petulanza, è ugualmente riprovevole in se stesso o in relazione alla persona molestata.
2.La sentenza impugnata è conforme ai principi in precedenza enunciati, laddove, con puntuale richiamo alle circostanze di fatto - in quanto tali insindacabili in sede di legittimità - ha ricostruito puntualmente le modalità delle condotte poste in essere, l'elemento soggettivo sotteso alle stesse, da inquadrare, in stretta correlazione causale e cronologica, nel più ampio contesto di tensioni interpersonali riconducibili alla separazione di fatto dalla moglie che aveva lasciato con la figli la casa coniugale per tornare a vivere con i genitori.
In realtà, il ricorrente, pur denunziando formalmente una violazione di legge in riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all'art. 192.2 c.p.p., non critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, inammissibile invece in sede d'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia - come nella specie - una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà del ricorrente di arrecare molestie e disturbo, per petulanza e altro biasimevole motivo a Ca..Co. e B..D.S. .
3. Alla dichiarazione di inammissibilità segue di diritto la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000), al versamento a favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro mille, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile da liquidare in Euro duemilacinquecento, oltre accessori come per legge, tenuto conto della natura del processo, della complessità delle prestazioni difensive, delle tariffe forensi.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile che liquida in Euro duemilacinquecento, oltre accessori come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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