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Sentenza

Commette il reato di estorsione il datore che dice al proprio dipendente “Se non accetti uno stipendio più basso ti licenzio”.
Commette il reato di estorsione il datore che dice al proprio dipendente “Se non accetti uno stipendio più basso ti licenzio”.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 27 novembre – 12 dicembre 2013, n. 50074
Presidente Petti– Relatore Iannelli

Osserva

-1- B.M. e B.L. , tramite difensore, con due distinti atti ricorrono avverso la sentenza datata 5/20.12.2012 della corte di appello di Lecce , di conferma della pregressa decisione di primo grado - tribunale della stessa città in data 3.3.2009 - che li condannava alla pena,ciascuno, di anni due,mesi sei di reclusione d Euro 500,00 di multa per il delitto, in concorso, di tentata estorsione ex artt. 56,81 cpv. 629 c.p..
-2- In breve il fatto come ricostruito dai giudici di merito: B.L. materialmente, con il concorso morale della sorella B.M. ,e nella loro qualità il primo di gestore di fatto della società Federica s.r.l., avente ad oggetto vendita e noleggio di audiovisivi, la seconda nella qualità di amministratrice, avrebbe compiuto atti idonei e non equivoci a indurre le dipendenti F.C. e C.E. , con la minaccia di un pronto licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi inferiori a quelli loro spettanti sottoscrivendo atti di transazione nonché, per la sola C. , contemporaneamente a un atto di dimissioni volontarie. Al rifiuto delle due dipendenti era conseguito il loro pronto licenziamento. Le fonti di prova erano state individuate nelle deposizioni delle persone offese, nonché nel supporto informatico di una registrazione tra presenti realizzata dalla C. nell'occasione di una conversazione tra la predetta e B.L. in presenza della sorella M. .
-3- Le ragioni di doglianza, supportate dal richiamo all'art. 606 lett. b), c) ed e) codice di rito,in parte sovrapponibili dei due ricorsi, si impegnano - il primo motivo di ricorso di B.M. , il secondo,il quarto ed il quinto del ricorso di B.L. - a contestare la valutazione che i giudici di merito hanno inteso proporre delle dichiarazioni delle persone offese e del contenuto della registrazione della conversazione tra la C. e l'indagato, alla presenza della sorella. In buona sostanza l'invito alla firma di documenti con i quali le persone offese, in sede transattiva, rinunciavano a contestazioni circa i loro diritti di prestazione lavorativa sarebbe stata solo una proposta legittima, posto che l'alternativa alla non firma era il licenziamento che sarebbe stato del tutto legittimo. Ed in proposito i ricorrenti - primo motivo del ricorso di B.M. e terzo motivo del ricorso di B.L. - richiamano le sentenze prodotte in sede di giudizio di secondo grado del giudice del lavoro che avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa ".. per il clima aziendale, determinato dai comportamenti di entrambe le parti del rapporto, che rendeva ormai insostenibile la prosecuzione dello stesso". Ulteriore ragione di doglianza della difesa di B.L. - primo motivo di ricorso -, è risultata la denuncia di una arbitraria intromissione,nel contesto dell'interrogatorio incrociato dei testi e degli imputati, del Presidente del tribunale che avrebbe "strozzato" le contestazioni, delimitando illegittimamente le iniziative della difesa. Ed ancora comune è l'analisi critica della registrazione dalla quale non si ricaverebbe la rappresentazione di una condotta estorsi va, esulandovi ogni carattere i minaccia e di intimidazione. Peculiare, invece, del ricorso di B.M. è la contestazione in merito al contributo causale dai giudici di merito ritenuto alla condotta posta in essere materialmente dal fratello coimputato: al limite si dovrebbe trattare di una mera connivenza, come tale non punibile.
- 4 - Entrambi i ricorsi non possono accogliersi perché infondati.
Invero le valutazioni sulle dichiarazioni dei testi, nella specie delle persone offese, come le espressioni proprie delle conversazioni registrate rientrano nella valutazione insindacabile sul piano della legittimità del giudice di merito, ove non illogiche e coerenti. Costituisce ormai principio consolidato che la interpr, sul piamo del disvalore giuridico penale, etazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, e si sottrae al sindacato di legittimità se tale valutazione è motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza e che è possibile, sì, prospettare in sede di legittimità una interpretazione del significato di una frase od espressione diversa da quella proposta dal giudice di merito, ma soltanto in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva ed incontestabile. Ma di una tale contro- prova, nel rispetto dei limiti propri delle valutazioni di legittimità, non vi è traccia nella esplicitazione delle ragioni difensive di doglianza.
Ora è pacifico, perché non contestato da nessuno, che B.L. abbia più volte chiesto la firma di uno scritto nel quale le parti offese rinunciavano, in via transattiva alle loro pretese lavorative, dietro la prospettiva del licenziamento ove non avessero apposto la firma sui documenti. Il che è comprovato dal contenuto delle sentenze civili prodotte dalla stessa difesa ed ammesse dal giudicante, dal quale si trae il fatto che, giustificato al limite il licenziamento, pur tuttavia sussistevano importi da corrispondere alle lavoratrici per il rapporto di lavoro, a cui la transazione richiesta dall'imputato, pena il licenziamento, si riferiva. Ne consegue che, possibile o meno il licenziamento pur nella facoltà del datore di lavoro, integra comunque il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che,per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento. L'ingiustizia del profitto in tale condotta è in re ipsa, riferita alla prestazioni non corrisposte, che si traducono anche nella ingiustizia del licenziamento, pervaso da un disvalore giuridico-penale, che proviene dalla sua ingiusta causa.
Non coglie nel segno l'asserita denunciata prevaricazione del Presidente del collegio nel corso dell'esame incrociato: a parte ogni pur possibile rilievo per la genericità dell'assunto e per l'omessa indicazione, ed allegazione, in concreto degli interventi in tesi abusivi, vi è sottolineare in linea di diritto che in tema di esame incrociato, al limite, l'assunzione della prova direttamente a cura del presidente, non può dirsi sì conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, perché non si articola con domande su fatti specifici (art. 499, comma primo, cod. proc. pen.), tende a suggerire la risposta (art. 499 commi primo e secondo), e comunque viola la disposizione per la quale - salvi alcuni casi particolari - le domande sono rivolte al testimone direttamente dalle parti processuali (art. 498 comma primo), ma comunque non potrebbe mai essere oggetto né della sanzione della inutilizzabilità (art. 191 cod. proc. pen.), posto che non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge bensì di prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte, tanto meno della sanzione della nullità, posto che la deroga alle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178 del codice di rito.
Da ultimo è ancora non fondata la censure mossa dalla difesa della B.M. nella misura in cui la predetta, amministratrice della società, assiste alla condotta estorsiva del fratello, nell'interesse illegittimo dell'ente, non intervenendo ed anzi palesando atteggiamenti di approvazione, sorridendo, alla intimazione del fratello, gestore di fatto della società, alla C. di sottoscrivere pena il licenziamento. Ipostatizzato il fatto, secondo l'insindacabile giudizio di merito, le conseguenze sul piano del diritto risultano piane, alla luce della regola che individua la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato, nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo - morale o materiale - alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Ed è indubbio che la presenza del legale responsabile della società nel luogo in cui si consuma un illecito nell'interesse dell'ente, senza la registrazione di alcun atteggiamento di rifiuto, ha contribuito a sostenere e rafforzare l'intento criminoso dell'autore materiale del reato.
Ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, gli imputati che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite che si liquidano, giusta la nota depositata, come da dispositivo.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione, in solido, delle spese sostenute dalle parti civili, F.C. e C.E. che liquida nella complessiva somma di Euro 1.800,00, oltre accessori di legge.
Avv. Antonino Sugamele

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