Cancelliere palermitano condannato a 2 anni per peculato e rivelazione di segreti d’ufficio: si è appropriato di un contributo unificato e di una marca da bollo e ha fatto visionare tre fascicoli relativi a ricorsi per decreto ingiuntivo, custoditi nel suo ufficio al rappresentante di una società di macchine industriali, del tutto estraneo sia all’ufficio giudiziario sia ai provvedimenti visionati.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 29 ottobre – 6 dicembre 2013, n. 49133
Presidente Agrò – Relatore Ippolito
Ritenuto in fatto
1. La Corte d'appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa in data 29 giugno 2011, con cui il giudice dell'udienza preliminare del locale tribunale, all'esito di rito abbreviato, aveva condannato L..B. , con il riconoscimento del vincolo della continuazione e della circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis c.p., alla pena di due anni di reclusione per i delitti di peculato (art. 314 c.p.) e di rivelazione di segreto ufficio (art. 326 c.p.).
2. Il B. , cancelliere in servizio presso il tribunale di Palermo, è stato ritenuto colpevole di essersi appropriato di un contributo unificato di Euro 35 (fatto commesso il (omissis) ) e di una marca da bollo di Euro 14,62 (fatto commesso il (omissis) ), nonché di aver fatto visionare, il (omissis) , tre fascicoli relativi a ricorsi per decreto ingiuntivo, custoditi nel suo ufficio, a Fr..Ba. (rappresentante della "Schiavi macchine Industriali s.p.a.), del tutto estraneo sia all'ufficio giudiziario sia ai procedimenti visionati.
Le indagini erano stata avviate a seguito di denuncia del dirigente del ruolo generale degli affari civili del tribunale, che aveva segnalato alla Procura della Repubblica che erano stati rinvenuti cinque fascicoli, custoditi in armadi situati nel corridoio, relativi a procedimenti monitori privi della nota di iscrizione a ruolo su cui vengono applicati contributo unificato e marca di bollo. I fatti contestati e ascritti al B. erano stati poi accertati attraverso un servizio di videosorveglianza attivata dai Carabinieri nell'ufficio del funzionario.
3. Contro la sentenza ricorro per cassazione l'imputato, tramite difensore di fiducia, che deduce:
a) "violazione o falsa applicazione dell'art. 314 c.p. - insussistenza del danno patrimoniale della pubblica amministrazione ed assenza di danno significativo al buon andamento della pubblica amministrazione";
b) "violazione dell'art. 192 c.p.p. e difetto di motivazione della sentenza" in ordine alla ritenuta incidenza della condotta dell'imputato sull'attività complessiva della cancelleria civile del tribunale di Palermo;
c) "violazione dell'art. 326 c.p. - insussistenza del pericolo alla pubblica amministrazione o a terzi derivanti dalla diffusione della notizia".
Considerato in diritto
1. Premesso che i fatti accertati dai giudici di merito sono pacifici e non sono contestati dal ricorrente, l'impugnazione non merita accoglimento.
2. Il primo motivo è infondato. Il delitto di peculato è integrato nel momento in cui ha luogo l'appropriazione della "res" o del danaro da parte dell'agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla pubblica amministrazione, già comunque lesiva dell'ulteriore interesse tutelato dall'art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (Cass. Sez. 6, n. 26476 del 09/06/2010, Rao, Rv. 248004; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190).
2. Assolutamente infondato è anche il secondo motivo che deduce la violazione dell'art. 192 c.p.p., laddove non censura gli accertamenti e le valutazioni fattuali operati dai giudici. Irrilevante, alla luce di quanto rilevato a proposito del precedente motivo, risulta ogni questione relativa alla incidenza della condotta dell'imputato sull'attività complessiva della cancelleria civile del tribunale di Palermo.
3. In relazione al capo B) dell'imputazione, il ricorrente assume che non integra il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio l'aver fatto prendere conoscenza dei ricorsi per decreto ingiuntivo al sig. Fr..Ba. , non rientrando tali atti tra le "notizie d'ufficio, le quali debbano rimanere segrete" (art. 326 c.p.).
L'assunto non può condividersi.
La disciplina del segreto d'ufficio per l'impiegato pubblico è prevista dall'art. 28 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che ha sostituito l'art. 15 del D.P.R. n. 3 del 1957 (testo unico degli impiegati civili dello Stato).
Tale norma non si limita a disporre l'obbligo di "mantenere il segreto d'ufficio", ma ne definisce anche l'ambito e l'estensione, specificando che l'impiegato "non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso".
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema di rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio da parte degli impiegati dello Stato, per notizie di ufficio che devono rimanere segrete si intendono non solo le informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quelle la cui diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, perché effettuata senza il rispetto delle modalità previste ovvero nei confronti di soggetti non titolari del relativo diritto (Cass. Sez. 6, n. 9726 del 21/02/2013, Carta, Rv. 254593; Sez. 6, n. 11001 del 26/02/2009, Richero, Rv. 243578; Sez. 6, n. 30148 del 23/04/2007, Lazzaro, Rv. 237605).
Del resto, non c'è alcuna ragione per cui il contenuto della richiesta di un decreto ingiuntivo - che ben può comprendere notizie personali "sensibili" (economiche, finanziaria, sanitarie...) destinate, per necessità funzionale, alla conoscenza della controparte e dei competenti magistrati e funzionari dell'amministrazione giudiziaria - non dovrebbe godere della tutela rafforzata prevista dalla norma penale, la quale punisce il pubblico ufficiale e la persona incaricata di pubblico servizio che rivela notizie d'ufficio che debbano rimanere segrete o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio.
In proposito, mette conto sottolineare che l'art. 159 della legge 23 ottobre 1960, n. 1196, norma specificamente diretta al personale degli uffici giudiziari, dispone che "il funzionario di cancelleria e segreteria e il dattilografo devono osservare il più scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a operazioni o provvedimenti giudiziari o comunque amministrativi di qualsiasi natura e dei quali siano venuti a conoscenza a causa del loro ufficio".
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
09-12-2013 22:21
Richiedi una Consulenza