Agente della Polizia di Stato condannato per violenza sessuale perpetrata a danno di alcune donne detenute in stato di fermo nelle camere di sicurezza della Questura di Genova. Lo Stato è (civilmente) responsabile.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 giugno - 1° ottobre 2013, n. 40613
Presidente Teresi – Relatore Orilia
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza 12.6.2012 la Corte d'Appello di Genova - riformando parzialmente la pronunzia del Tribunale sulle statuizioni civili - ha dichiarato il Ministero dell'Interno non tenuto a risarcire i danni alla parte civile S.I. , confermando la condanna dell'imputato P.M.L. alla pena di anni dodici e mesi sei di reclusione per il delitto di violenza sessuale aggravata in danno di S.I. e di altre parti offese nonché di abbandono di posto di servizio. Ha altresì confermato la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni e al pagamento delle spese in favore della S. e del Ministero dell'Interno (costituitosi a sua volta parte civile).
La sussistenza dei reati ascritti al P. (consistenti in penetrazioni vaginali, rapporti orali e palpeggiamenti al seno all'interno delle camere di sicurezza della Questura di XXXXXX ove le donne si trovavano in stato di fermo e l'imputato prestava servizio in qualità di appartenente alla Polizia di Stato) è stata motivata, per quanto ancora interessa, attraverso seguenti passaggi:
- sono state ritenute l'attendibili le dichiarazioni delle parti offese e irrilevanti le contraddizioni segnalate dalla difesa dell'imputato, in quanto relative ad aspetti secondari;
- è stato escluso che una delle parti offese, la cittadina rumena C.V. , si fosse resa irreperibile per sottrarsi al dibattimento e quindi si è ritenuto che le sue dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali potessero essere utilizzate non sussistendo violazione dell'art. 512 cpp;
- è stato ritenuto che la condotta del P. integrasse anche il reato di abbandono di posto di servizio;
- non sono emersi elementi per ritenere sussistente una menomata capacità di intendere e di volere.
La Corte d'Appello ha altresì ritenuto corretto il trattamento sanzionatorio inflitto dal primo giudice, mentre invece, quanto alle statuizioni civili, ha riformato la decisione di primo grado escludendo la responsabilità civile dello Stato nei confronti della parte civile S.I. perché il comportamento dell'imputato non era finalizzato al raggiungimento di fini istituzionali.
2. Contro la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato (sulla base di cinque motivi) e della parte civile S.I. con unica censura.
3. Il Ministero dell'Interno ha depositato una memoria difensiva insistendo per il l'inammissibilità o il rigetto di entrambi i ricorsi.
Ribadisce l'interruzione del rapporto di immedesimazione organica tra lo Stato e il proprio dipendente. Deduce in particolare l'inammissibilità del quinto motivo di ricorso del P. (riguardante la responsabilità dello Stato) per difetto di interesse, non avendo l'imputato spiegato nessuna domanda di rivalsa. Richiama a sostegno della propria estraneità una serie di pronunce giurisprudenziali di legittimità.
Considerato in diritto
RICORSO DELL'IMPUTATO.
I Con un primo motivo, il P. denunziando l'inosservanza dell'art. 512 bis cpp e il vizio di motivazione, rileva che la sentenza, assolutamente scarna, si risolve in una mera petizione di principio senza spiegare perché mai non potesse sussistere un interesse delle donne (tutte irregolari e accusate di reati) ad accusare a loro volta l'imputato per conseguire particolari benefici. A dire del ricorrente, la Corte d'Appello avrebbe riprodotto la motivazione della sentenza di primo grado, incorrendo così nel vizio di motivazione apparente, senza considerare che era stato impugnata anche la pronuncia di condanna per il reato sub D (offesa a M.B. ). Rimprovera inoltre ai giudici di merito di avere trascurato le contraddizioni emerse nei racconti (luoghi, vestiti indossati dell'imputato, numero di agenti presenti ai fatti) tutt'altro che secondarie: ancora, rimprovera alla Corte di non avere considerato l'assenza di riscontri alle dichiarazioni rese dalle parti offese e le altre incongruenze denunziate.
Denunzia inoltre l'illegittima acquisizione del verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da C.V. (altra parte offesa) in violazione dell'art. 512 cpp (essendo prevedibile che costei intendesse sottrarsi al dibattimento avendo a suo tempo dichiarato di essere "senza fissa dimora". Svolge poi una serie di critiche in ordine alla posizione di M.B. (altra parte offesa) sottolineando che all'epoca dei fatti la donna era stata fermata presso il suo domicilio a seguito di una violenta lite col marito e che plausibilmente l'ematoma riscontrato sull'arto della donna era conseguenza di tale lite a cui la donna non aveva fatto alcun cenno.
Il motivo è infondato sotto ogni profilo.
Essendo dedotto anche il vizio di motivazione, è bene premettere che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. Cass. sez. terza 19.3.2009 n. 12110; Cass. 6.6.06 n. 23528).
Ancora, l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 35397 del 20/06/2007 Ud. dep. 24/09/2007; Cassazione Sezioni Unite n. 24/1999, 24.11.1999, Spina, RV. 214794).
Prendendo le mosse dalla censura di natura procedurale (per ragioni di priorità logica), va osservato che secondo l'art. 512 cpp la lettura degli atti ivi indicati - tra cui anche le sommarie informazioni testimoniali di cui oggi si discute - va disposta dal giudice quando per fatti o circostanze imprevedibili ne è divenuta impossibile la ripetizione.
La lettura dibattimentale delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da testimoni cittadini stranieri - per sopravvenuta impossibilità di ripetizione dell'esame testimoniale ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen. - è legittima nel caso in cui il teste risulti irreperibile e tale irreperibilità non risulti prevedibile al momento della precedente assunzione delle sue dichiarazioni: pertanto il giudice deve valutare tutti gli elementi che possono avere rilevanza ai fini del giudizio sulla prevedibilità o meno della successiva irreperibilità del testimone, dando completa e logica motivazione del proprio giudizio (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23282 del 22/04/2004 Ud. dep. 19/05/2004 Rv. 229424; Sez. 2, Sentenza n. 43331 del 18/10/2007 Ud. (dep. 22/11/2007 Rv. 238198).
Nel caso di specie, dalla sentenza impugnata risulta accertata l'irreperibilità della C. (circostanza neppure posta in discussione nel ricorso) e la Corte d'Appello ha ritenuto che l'aver dichiarato di essere "senza fissa dimora" al momento della denunzia e quindi delle sommarie informazioni non poteva certo rendere ipotizzabile la sua futura irreperibilità anche perché la donna, in quella occasione, comunque aveva fatto riferimento ad una realtà cittadina (Padova) non certo metropolitana e quindi idonea ad una facile rintracciabilità (cfr. pag. 12 sentenza impugnata).
Il ragionamento si presenta logicamente coerente e quindi si sottrae alla critica mossa con la censura in esame, che invece sollecita una alternativa e non consentita valutazione di circostanze di fatto.
Venendo agli altri profili di censura (riguardanti l'attendibilità delle parti offese e le incongruenze evidenziate dalla difesa) va richiamato, in aggiunta al surricordato principio che delimita il controllo sulla motivazione, anche quello secondo cui le regole dettate dall'art. 192 comma terzo cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (cfr. da ultima, Sez. U, Sentenza n. 41461 del 19/07/2012 Ud. dep. 24/10/2012; cfr. altresì Sez. 3, Sentenza n. 44408 del 18/10/2011 Ud. dep. 30/11/2011 Rv. 251610, in motivazione).
Tornando alla fattispecie in esame, la Corte di merito ha motivato innanzitutto sulla attendibilità delle donne, escludendo intenti calunniatori o mercantilistici e per farlo ha rilevato non solo l'unicità della costituzione di parte civile a fronte di quattro episodi di violenza, ma anche la concordante descrizione di locali riservati della Questura e degli arredi, interdetta agli estranei e che quindi non avrebbero potuto altrimenti frequentare (la sala con i monitor, il tipo di lettino). Ha quindi ritenuto non rilevanti le "contraddizioni" segnalate dalla difesa, come ad esempio quelle riguardanti l'abbigliamento che indossava l'imputato il giorno in cui aggredì donne diverse, rilevando che ben poteva essergli cambiato tra un episodio e l'altro, così come il rilievo sulla presenza di altri agenti nell'ufficio di Polizia spiegando in proposito che il P. era solito allontanarli anche bruscamente con toni volgari.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto provate le condotte poste in essere dal P. e descritte dalle donne nelle loro denunzie.
Trattasi di un percorso motivazionale logicamente coerente e dunque insindacabile in questa sede sulla base di una critica che, invece, tende ad una rivisitazione in chiave diversa della vicenda fattuale.
2. Con la seconda censura, denunziando l'inosservanza degli artt. 72 della legge n. 121/1981 e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui al capo E (abbandono di posto di servizio) il ricorrente rileva che la custodia delle persone detenute nelle celle di sicurezza non è una operazione di polizia ma una mera attività di servizio, come tale esclusa dal precetto sanzionatorio.
Il motivo è infondato.
La L. n. 121 del 1981, art. 72, comma 1, vieta per l'appartenente alla Polizia di Stato, nel corso di operazioni di polizia o durante l'impiego in reparti organici, l'abbandono del posto o del servizio o la violazione dell'ordine o delle disposizioni generali o particolari impartite.
La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modi di affermare la necessità di inquadrare la fattispecie criminosa di cui all'art. 72, primo comma, della L. n. 121/81 nell'ambito delle mansioni di istituto o degli specifici compiti affidati e affidabili all'appartenente al Corpo di polizia e quindi ha ritenuto che anche l'abbandono del posto o servizio nel corso dell'espletamento di specifici compiti di sorveglianza dei detenuti integra il reato in questione (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23654 del 31/05/2002 Ud. dep. 20/06/2002 Rv. 221628 relativo all'abbandono di posto di servizio da parte di agenti della Polizia Penitenziaria).
L'errore di diritto in cui mostra di incorrere la tesi del ricorrente sta dunque nell'interpretazione estremamente riduttiva del concetto di "operazioni di polizia", in un contesto completamente avulso dalla generalità dei compiti istituzionali degli appartenenti alla Polizia di Stato e, in definitiva, dalla ratio legis.
3 Col terzo motivo si denunzia l'inosservanza dell'art. 603 cpp e il vizio di motivazione sulla mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per accertare, mediante perizia, lo capacità di intendere e di volere dell'imputato.
Il motivo è infondato.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sez. 3 sentenza 27.6.-11.10.2012 n. 40143 Sez. 4, Sentenza n. 4981 del 05/12/2003, PG in proc. Ligresti, Rv. 229666; Sez. 4, Sentenza n. 18660 del 19/02/2004, Montanari e altro, Rv. 228353), nel giudizio d'appello, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603 c.p.p., comma 1, è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; e tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata.
Nel caso di specie, la Corte d'Appello, nell'esaminare il secondo motivo di appello (cfr. pag. 12) ha motivato il rigetto dell'istanza ritenendo che dagli atti non risultava alcun elemento per far ritenere uno stato psicofisico incidente sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato, sottolineando anzi che proprio nell'atto di appello al terzo motivo il ricorrente affermava di avere, dopo i fatti, interrotto le condotte di abuso dimostrando quanto meno di potere tenere a freno o comunque inibire determinati impulsi devianti. Le ragioni che giustificano l'esercizio del potere discrezionale risultano dunque esposte in maniera sufficiente e plausibile.
La critica del ricorrente sull'epoca dell'asserita infermità e sull'esistenza di problemi psicologici da ancorare al momento dei fatti si risolve in effetti in una lettura alternativa delle risultanze processuali, finalizzata a sollecitare una diversa valutazione dei fatti, attività non consentita, in considerazione della natura del giudizio di legittimità.
4 Col quarto motivo si denunzia la violazione di legge e il vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio con riferimento al diniego delle attenuanti generiche.
Il motivo è infondato.
Secondo un principio generale - a cui va data senz'altro continuità (cfr. tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 19639 del 27/01/2012 Ud. dep. 24/05/2012 Rv. 252900) - la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Anche il giudice di appello - pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante - non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione.
Nella fattispecie in esame la Corte di merito, nel corretto esercizio dei potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge ha congruamente motivato la conferma del giudizio negativo già espresso dal Tribunale sottolineando l'estrema gravità dei fatti, la reiterazione degli episodi e la non indifferente capacità a delinquere dimostrata da un soggetto preposto a un delicatissimo incarico di Polizia e comunque gravato da un precedente definitivo e da una pendenza in appello per fatti dello stesso genere.
Orbene, se si considera che i fatti ritenuti gravi e la capacità a delinquere del P. sono stati oggetto di approfondita disamina nel corpo della sentenza laddove viene descritta ampiamente la condotta come riportata nella sentenza di primo grado (cfr. pagg. 2 e ss della sentenza impugnata), il percorso decisionale deve ritenersi esplicitato in maniera esauriente e logicamente coerente. La critica quindi è fuori luogo.
5. Con il quinto motivo, il P. denunzia infine la violazione di legge (art. 606 lett. b ed e cpp in relazione agli artt. 1223 cc e il vizio di motivazione sulle statuizioni di carattere civile, dolendosi in particolare della quantificazione dei danni e della ritenuta esclusione di responsabilità del Ministero dell'Interno.
La censura riguardante la quantificazione dei danni in favore della parte civile è inammissibile ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 606 cpp: ed infatti, né dalla sentenza impugnata (cfr. pag. 10 in cui è riassunto il contenuto del terzo motivo di appello), né dal ricorso per cassazione (soggetto alla regola della specificità ex artt. 581 lett. c) risulta che motivi di appello includessero anche la specifica censura sull'entità del risarcimento dei danni in favore della parte civile: si è dunque in presenza di una violazione di legge non dedotta con i motivi di appello.
Quanto alla critica sull'esclusione della concorrente responsabilità civile dello Stato, essa resta assorbita dalle considerazioni di cui appresso.
RICORSO DELLA PARTE CIVILE S.I. .
1. Con l'unico motivo di ricorso, denunziando l'inosservanza degli artt. 185 cp, 28 cost. e 2049 cc la S. si duole della esclusione della responsabilità civile dello Stato. Ritiene innanzitutto fuori luogo la giurisprudenza richiamata dalla difesa erariale (perché relativa a reati commessi da agenti di polizia in veste di privati cittadini fuori dagli orari di lavoro e dagli uffici della Questura).
Rileva inoltre che le mansioni svolte dall'imputato hanno grandemente agevolato la condotta criminosa e addebita allo Stato una "culpa in vigilando" per avere presto l'imputato ad un compito delicato (quale è la custodia degli arrestati) benché fosse già stato condannato per episodi di violenza gravissima contro soggetti fermati (fatti verificatisi a XXXXXX in occasione del G/8) osservando che la mancanza di una sentenza definitiva su tali vicende avrebbe consigliato, se non imposto, in base alle più elementari regole dei buona amministrazione, di affidare al P. un incarico diverso.
Il motivo è fondato.
Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, a cui si ritiene senz'altro di aderire, la responsabilità civile della P.A. per reato commesso dal dipendente presuppone un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti svolti, anche se il soggetto ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti, (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 21195 del 18/01/2011 Ud. dep. 26/05/2011 Rv. 250207; Sez. 6, Sentenza n. 17049 del 14/04/2011 Ud. dep. 03/05/2011 Rv. 250498).
Nel caso di specie, è stato accertato che i fatti si sono svolti all'interno di un ufficio di Polizia e durante il servizio di vigilanza alle persone fermate, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione pubblica di agente di polizia: sussistendo quindi il rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto e le mansioni svolte, in applicazione del suddetto principio di diritto, andava confermata ai sensi degli artt. 185 cp e 2049 cc la responsabilità civile dello Stato che, peraltro, nonostante il P. fosse già stato coinvolto in fatti di violenza contro soggetti in stato di fermo e condannato in primo grado, ha ritenuto opportuno adibirlo ancora una volta allo svolgimento di mansioni che prevedevano il contatto diretto con le persone arrestate o fermate e che quindi rendevano elevatissimo il rischio di commissione di reati della stessa indole.
La giurisprudenza richiamata dal giudice di merito (cfr. sentenza 1386/1998, Savi ed altri) è invece fuori luogo perché riguarda fatti svoltisi in un contesto del tutto privato e senza il benché minimo collegamento, concreto e attuale, con l'attività svolta dal dipendente.
L'impugnata sentenza va pertanto annullata limitatamente all'esclusione della responsabilità civile dello Stato e pertanto, rendendosi superfluo il rinvio (art. 620 lett. f cpp), va confermata la condanna in solido inflitta al Ministero dell'Interno dal giudice di primo grado.
Le esposte considerazioni assorbono logicamente la critica svolta con l'ultimo motivo di ricorso dal P. che, per effetto del sostanziale rigetto della sua impugnazione va condannato al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio sostenute dalle parti civili (S.I. e Ministero dell'Interno).
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla esclusione del responsabile civile e, per l'effetto, conferma la condanna in solido inflitta al Ministero dell'Interno in persona del Ministro in carica, a favore della parte civile S.I. . Conferma nel resto le statuizioni civili.
Rigetta il ricorso dell'imputato, che condanna al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili liquidate in Euro. 3.500,00 (tremilacinquecento/00) per ciascuna di essa, oltre accessori di legge ove spettanti.
06-10-2013 18:47
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