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Sentenza

2 guardie volontarie del WWFcondannate per violazione di domicilio perchè all'interno di un fondo di proprietà privata, mentre la presunta parte offesa era in atteggiamento di caccia con la predisposizione di mezzi per attirare cinghiali. La Cassazione annulla la condanna.
2 guardie volontarie del WWFcondannate per violazione di domicilio perchè all'interno di un fondo di proprietà privata, mentre la presunta parte offesa era in atteggiamento di caccia con la predisposizione di mezzi per attirare cinghiali. La Cassazione annulla la condanna.
Cassazione penale  sez. fer.   
Data:
    27/08/2013 ( ud. 27/08/2013 , dep.08/10/2013 ) 
Numero:
    41646

 

    Intestazione

                        LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                           SEZIONE FERIALE PENALE                        
    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
    Dott. MARASCA   Gennaro        -  Presidente   -                     
    Dott. MULLIRI   Guicla         -  Consigliere  -                     
    Dott. DI SALVO  Emanuele       -  Consigliere  -                     
    Dott. MICHELI   Paolo     -  rel. Consigliere  -                     
    Dott. DELL'UTRI Marco          -  Consigliere  -                     
    ha pronunciato la seguente:                                          
                         sentenza                                        
    sul ricorso proposto nell'interesse di: 
    1.             S.R., nato a (OMISSIS); 
    2.            L.M., nato a (OMISSIS); 
    avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze del 07/12/2012; 
    visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; 
    udita la relazione svolta dal consigliere Dott. MICHELI Paolo; 
    udito  il  Pubblico  Ministero, in persona del Sostituto  Procuratore 
    Generale   Dott.   DELEHAYE  Enrico,  che   ha   concluso   chiedendo 
    l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata; 
    udito  per  i  ricorrenti  l'Avv.  BURZI  Roberto,  che  ha  concluso 
    chiedendo l'accoglimento del ricorso, e l'annullamento della sentenza 
    impugnata. 
                     


    Fatto
    RITENUTO IN FATTO

    1. Il 07/12/2012 la Corte di Appello di Firenze riformava la sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Grosseto in data 05/02/2010 nei confronti di S.R. e L.M., impugnata dal P.M. presso il medesimo Tribunale: la Corte condannava gli imputati alla pena di mesi 4 di reclusione, con i benefici di legge, per il delitto di cui all'art. 614 c.p., e condannava altresì il S. ed il L. al risarcimento dei danni subiti da F. R., costituitosi parte civile.

    I fatti si riferivano alla presunta introduzione dei due prevenuti, guardie volontarie del WWF, all'interno di un fondo di proprietà del R. (ciò il (OMISSIS), in orario notturno): secondo la ricostruzione operata nelle sentenze di merito, il S. ed il L. avevano accertato che la persona offesa si era appostata in un annesso agricolo ivi esistente in chiaro atteggiamento di caccia, mentre nei pressi vi erano segni di "attività di governo", mediante la predisposizione di punti di alimentazione idonei ad attirare cinghiali; a quel punto, dopo essersi le due guardie avvicinate al R., qualificandosi e spiegando le ragioni della loro presenza, gli stessi operanti avevano sollecitato l'intervento della Polizia Provinciale, a seguito del quale era stato sequestrato un fucile con relativo munizionamento a panettoni rinvenuto in possesso del cacciatore, arma su cui era stata applicata una torcia mediante un elastico.

    1.1 Il primo giudice, in ordine alla lamentata violazione di domicilio, evidenziava che certamente gli imputati erano penetrati nella privata proprietà del R. (pur sussistendo qualche contrasto sulle modalità dell'accesso, secondo le due guardie avvenuto attraverso uno dei numerosi tratti danneggiati della recinzione, che invece la parte civile sosteneva essere integra), e che altrettanto innegabile era la condotta illecita dello stesso R.: questi aveva sostenuto di essersi attrezzato per cercare di scongiurare nuovi danni che i cinghiali erano soliti arrecare al suo terreno, ma ben avrebbe potuto ovviare altrimenti a quegli inconvenienti, senza realizzare atti di sostanziale bracconaggio.

    Quanto alla legittimità dell'intervento del S. e del L., il Tribunale dava contezza di un contrasto giurisprudenziale ormai risalente circa l'estensione dei poteri delle guardie venatorie, richiamando pronunce di legittimità di diverso tenore a proposito della possibilità o meno di ravvisare in capo a tali figure la veste di agenti di polizia giudiziaria: segnalato comunque che, almeno in base ad una sentenza della Sezione Terza di questa Corte del 2006, doveva ritenersi consentito alle guardie volontarie delle associazioni di protezione ambientale anche il sequestro delle cose pertinenti i reati accertati, la sentenza di primo grado concludeva nel senso della sussistenza di una causa di giustificazione della condotta degli imputati, sul piano putativo.

    Ad avviso del Tribunale di Grosseto, esclusa la possibilità di riconoscere de plano l'esistenza della scriminante dell'adempimento di un dovere, proprio in ragione dell'oscurità del quadro normativo e dell'esegesi giurisprudenziale, non di meno doveva ritenersi che le due guardie volontarie avessero agito nell'erronea ma scusabile convinzione - anche per "i limitati strumenti interpretativi di cui gli operanti potevano disporre" - di "agire nell'ambito del dovere imposto dalla carica e dal ruolo loro conferiti".

    1.2 A seguito della ricordata impugnazione, la Corte di appello di Firenze riteneva al contrario che il delitto di violazione di domicilio fosse configurabile, atteso che "le due guardie volontarie S. e L. erano pienamente consapevoli dei propri limiti, in particolare di non avere nessun diritto di entrare all'interno della suddetta proprietà senza il consenso del R., posto che la proprietà era completamente recintata con accesso da un cancello chiuso a chiave, tanto che subito dopo essersi presentate al R., che sorprendevano in atteggiamento di caccia all'interno del proprio casolare, chiedevano all'uomo di uscire dalla proprietà e contemporaneamente richiedevano l'intervento della Polizia Provinciale, che interveniva sul posto e provvedeva agli adempimenti di legge ed alle operazioni di sequestro, interdette ai volontari della guardia venatoria".

    La Corte territoriale rilevava quindi l'insostenibilità della tesi secondo cui la finalità degli imputati fosse quella di interrompere l'attività criminosa del R.: secondo i giudici di appello, infatti, essi avrebbero potuto perseguire quell'intento già limitandosi ad attirare l'attenzione del presunto bracconiere "per esempio suonando il clacson della loro autovettura, o chiamandolo a voce, comunque facendo in modo di avvisarlo della loro presenza in prossimità della recinzione o del cancello, il che avrebbe con certezza prodotto l'interruzione dell'attività di caccia da parte del R., che a quel punto avrebbe capito di essere stato scoperto. Inoltre gli imputati avrebbero comunque potuto avvisare dei loro accertamenti la Polizia Provinciale, che avrebbe poi, grazie alla loro segnalazione, potuto effettuare tutti gli accertamenti del caso, nel rispetto delle norme di legge".

    2. Propone ricorso per cassazione il difensore dei due imputati, deducendo cinque motivi.

    2.1 Con il primo, si lamenta mancanza di motivazione della sentenza impugnata per non essere stato esaminato l'appello incidentale che comunque era stato proposto dalla difesa, e con il quale si era invocata una più ampia formula assolutoria esponendo le ragioni poi ribadite nei tre motivi di cui appresso.

    2.2 Con il secondo motivo, il difensore degli imputati deduce inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 614 c.p., non ritenendo ravvisabile nel caso di specie un "domicilio domestico" ai sensi e per gli effetti di cui alla norma incriminatrice contestata agli imputati. Sul punto, vengono richiamati precedenti giurisprudenziali di legittimità.

    2.3 Il terzo motivo riguarda la asserita violazione dell'art. 55 c.p.p., nonchè l'inosservanza ed erronea applicazione delle norme sostanziali in tema di cause di giustificazione, quanto ai poteri da riconoscersi in capo alle guardie volontarie venatorie ed ambientali:

    la tesi della difesa è che a tali figure debba attribuirsi la veste di agenti di polizia giudiziaria, anche tenendo conto della circostanza che il problema risulta sinora affrontato in giurisprudenza con riguardo al solo profilo della possibilità di una guardia del WWF (o di altra associazione omogenea) di procedere a sequestri, e non invece a quello della facoltà di accedere a fondi privati per interrompere condotte criminose in atto.

    2.4 Con il quarto motivo, coerentemente alle argomentazioni appena esposte, si deduce altresì inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 51 c.p., dovendosi ritenere sussistente nel caso di specie la scriminante dell'adempimento di un dovere imposto da norme giuridiche, anche in difetto dell'eventuale spettanza per il S. ed il L. della qualifica di agenti di polizia giudiziaria. La difesa sostiene che i due imputati, la sera del fatto, risultavano svolgere un servizio antibracconaggio in coordinamento con la Polizia Provinciale (come confermato da un Ispettore di quel corpo, escusso in qualità di testimone) e dunque, dinanzi all'accertamento di condotte costituenti reato, essi avevano certamente un obbligo di intervento a prescindere dal rilievo se dette condotte venissero realizzate o meno all'interno di una proprietà privata. Nel ricorso vengono richiamate le previsioni di cui alla L. n. 157 del 1992, artt. 27, 28 e 30.

    2.5 Con il quinto ed ultimo motivo, il difensore dei ricorrenti rappresenta infine contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata: nella pronuncia viene dato per ammesso che gli imputati non avevano avuto altra finalità che quella di interrompere l'attività criminosa del R., ma la Corte territoriale rileva al contempo che essi avrebbero potuto raggiungere lo scopo che si erano proposti semplicemente richiamando l'attenzione del cacciatore, senza entrare all'interno della proprietà di costui.

    Argomentazioni, appunto, contraddittorie ed illogiche giacchè, in ogni caso, la determinazione di impedire che il reato venisse portato a conseguenze ulteriori costituiva la ragione dell'intervento del S. e del L., così dovendosi escludere il dolo necessario alla configurabilità del delitto di violazione di domicilio.
    Diritto
    CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il ricorso merita accoglimento.

    2. Le doglianze di cui al primo motivo, comunque, non possono essere condivise: sul piano formale, è evidente che l'accoglimento dell'impugnazione del Pubblico Ministero comportava l'assorbimento delle opposte ragioni evidenziate nell'appello incidentale, senza alcuna necessità di dare espressamente atto che tali ragioni fossero state esaminate.

    3. Circa la possibilità di ravvisare nell'annesso agricolo in cui si trovava il R. gli estremi di un domicilio domestico, è la stessa difesa a ricordare il precedente giurisprudenziale secondo cui "ai fini della configurazione del reato di violazione di domicilio, il concetto di privata dimora è più ampio di quello di casa d'abitazione, comprendendo ogni altro luogo che, pur non essendo destinato a casa di abitazione, venga usato, anche in modo transitorio e contingente, per lo svolgimento di una attività personale rientrante nella larga accezione di libertà domestica" (Cass., Sez. 5^, n. 410 del 25/10/1984, Riga, Rv 167407, relativa ad una casa colonica su fondo coltivato, utilizzata dal possessore per uso domestico, anche saltuariamente, in relazione alla cura di animali od alla coltivazione stagionale del fondo).

    Nella fattispecie concreta, entrambe le pronunce di merito parlano, come ricordato, di un "annesso agricolo", che non è dato sapere se fosse destinato ad esclusivo ricovero dell'attrezzatura da utilizzare per la cura e la coltivazione del terreno, o se servisse anche per un pur saltuario disbrigo di attività domestiche: anche volendo escludere tale possibilità, peraltro, si rileva che secondo il difensore degli imputati in quella proprietà non vi era alcuna struttura abitativa (ma non è dato sapere da quale emergenza istruttoria ricavi detta conclusione), mentre la stessa sentenza di primo grado aveva precisato che lo spazio in cui il R. era stato sorpreso "era sicura pertinenza della sua abitazione", lasciando intendere che egli dimorasse in un edificio a servizio del quale era stato allestito anche l'annesso in questione.

    In punto di elemento soggettivo, va peraltro evidenziato che dalla motivazione della sentenza impugnata non appare chiarito con certezza se i due imputati fossero pienamente consapevoli di trovarsi in effetti all'interno di una proprietà privata, quanto meno fino al momento in cui giunsero al cospetto della parte civile: a fronte del contrasto di versioni sull'integrità o meno della recinzione di cui il Tribunale di Grosseto aveva dato atto, la Corte di appello di Firenze afferma (credendo al R., ma senza spiegare perchè questi sarebbe meritevole di maggior fede) che la proprietà "era completamente recintata con accesso da un cancello chiuso a chiave", e non sembra che l'assunto sia del tutto compatibile con le altre risultanze istruttorie. Come ricordato, il querelante aveva giustificato la propria presenza sul posto in quel frangente sostenendo di essersi determinato a risolvere il problema dei continui danni provocati dai cinghiali al suo terreno, ma allora - se è vero che di animali selvatici ne scorrazzavano a iosa, su quel fondo - è ragionevole ipotizzare che la recinzione fosse tutt'altro che completa, e che anzi fosse in alcuni punti interrotta o addirittura inesistente. Tanto meno si comprende, dinanzi all'ipotesi di un cancello chiuso a chiave, come avrebbero fatto il S. ed il L. ad entrare nella proprietà, non essendo stato dimostrato che essi scavalcarono reti di sorta, nè essendo state loro addebitate condotte di danneggiamento.

    4. Quanto appena segnalato può correlarsi alle censure che la difesa muove con l'ultimo motivo di ricorso, registrandosi in effetti un profilo di contraddittorietà nella motivazione della sentenza della Corte di appello: rilevare infatti che i due imputati avrebbero potuto limitarsi a richiamare l'attenzione del cacciatore, onde raggiungere l'obiettivo di impedire la protrazione del presunto reato, può essere sufficiente per affermare che essi errarono nelle modalità con cui ritennero di perseguire quello scopo, non certo per ritenere provato che il loro scopo fosse un altro.

    5. Ad ogni modo, è soprattutto in ordine al terzo e quarto motivo di ricorso che le censure della difesa meritano un approfondimento, si da tornare a ribadire la correttezza delle conclusioni del primo giudice.

    Come già segnalato, nella giurisprudenza di questa Corte vi è stata una sola pronuncia che risulta avere affermato la necessità di attribuire alle guardie volontarie di associazioni ambientaliste la qualifica di agenti di polizia giudiziaria, sino a ritenere legittimo che tali soggetti diano corso ad atti di sequestro probatorio: si tratta della pronuncia della Sezione Terza n. 6454 del 02/02/2006 (ric. P.M. in proc. Lancellotti), nella cui motivazione si legge che "le guardie volontarie delle associazioni di protezioni dell'ambiente riconosciute dal Ministero dell'Ambiente (come il WWF) hanno la qualifica di agenti di polizia giudiziaria - perchè la L. 11 febbraio 1992, n. 157 espressamente attribuisce ad esse un compito di vigilanza venatoria sulla "applicazione della presente legge" compreso l'art. 30 relativo alle sanzioni penali vedi art. 27, lett. D);

    perchè l'art. 28 stessa legge nel definire poteri e compiti degli addetti alla vigilanza venatoria ricomprende sia il potere ispettivo (la richiesta di esibizione della licenza di porto del fucile per uso di caccia; la richiesta di esibizione del tesserino rilasciato dalla Regione; la richiesta del contrassegno di assicurazione), sia il potere di controllo della fauna abbattuta o catturata (vedi art. 28, comma 1) e il potere di accertamento (redazione del verbale) (art. 28, comma 5);

    - perchè la qualifica di polizia giudiziaria a favore delle guardie volontarie non richiedeva una specifica menzione, essendo tali soggetti competenti solo per la materia venatoria, mentre appariva necessaria per altri soggetti pure menzionati nella legge aventi competenza generale; perchè nel contenuto degli artt. 55 e 57 c.p.p., il "prendere notizia dei reati" è collegato logicamente in via funzionale al dovere di "impedire che vengano portati a ulteriori conseguenze" e ciò sembra debba valere anche per le guardie venatorie, naturalmente solo nei limiti del servizio cui sono destinate, anche per una esigenza operativa essenziale nella specifica materia, onde assicurare gli elementi probatori, evitarne la dispersione ed impedire che l'azione antigiuridica possa proseguire".

    Si tratta di una pronuncia, come detto, rimasta isolata, ma appare significativo rilevare, nel valutare la fondatezza o meno degli odierni motivi di ricorso, che intervenne appunto nel febbraio 2006, a distanza di pochi mesi dai fatti oggi sub judice: si deve pertanto ritenere che, all'epoca della condotta addebitata al S. ed al L., il dibattito sull'estensione dei poteri di una guardia volontaria nelle attività di controllo sull'esercizio della caccia fosse particolarmente vivo, e fosse caratterizzato da prese di posizione affatto diversificate.

    Già un anno dopo, la stessa Sezione Terza ebbe a mutare orientamento, osservando che "le guardie volontarie delle associazioni venatorie e di protezione ambientale non rivestono la qualifica di agenti di polizia giudiziaria, anche se ad esse è affidata la vigilanza sulla applicazione della L. 11 febbraio 1992, n. 157 sulla caccia, con la conseguenza che alle stesse non è consentito di operare il sequestro delle armi, della fauna e dei mezzi di caccia, che spetta, ex art. 28 della citata legge, ai soli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria" (Cass., Sez. 3^, n. 15074 del 27/02/2007, Zanola, Rv 236339). In motivazione, pur affermando l'impossibilità per la guardia giurata di un nucleo del WWF di procedere a sequestri di armi, fauna selvatica o mezzi di caccia in genere, la pronuncia ribadiva che tutti i soggetti cui spettava la vigilanza in tema di applicazione della L. n. 157 del 1992 e delle correlate disposizioni regionali avessero comunque "il potere di chiedere - nei confronti di qualsiasi persona trovata in possesso disarmi o arnesi atti alla caccia, in esercizio o attitudine di caccia - la esibizione della licenza di porto di fucile per uso caccia, del tesserino di cui all'art. 12, comma 12 e del contrassegno della polizza di assicurazione, nonchè della fauna selvatica abbattuta o catturata".

    Allo stesso indirizzo interpretativo prestano poi adesione varie sentenze successive della stessa Sezione (v. ad esempio la n. 13600 del 05/02/2008, Paganelli, nonchè la n. 14231 del 15/02/2008, Steccanella) e della Sezione Sesta (v. la n. 37491 del 13/10/2010, Mazzuca): ma resta comunque il fatto che già la sola constatazione della necessità di nuovi interventi di questa Corte rende evidente il perdurare dell'anzidetto dibattito, con il succedersi di nuovi sequestri convalidati dagli uffici del Pubblico Ministero, talora ritenuti legittimi anche in sede di riesame.

    6. Il collegio, per quanto di interesse, ritiene senz'altro di aderire all'interpretazione dominante, considerato che riconoscere alle guardie volontarie di associazioni di protezione ambientale un potere di accertamento delle violazioni delle disposizioni sull'esercizio dell'attività venatoria non comporta ipso facto l'attribuzione della qualifica di ufficiali od agenti di p.g.: va anche tenuto conto che la L. n. 157 del 1992, ed in particolare la disciplina di cui agli artt. 27 e 28, risulta posteriore rispetto all'entrata in vigore dell'attuale codice di rito, contenendo dunque previsioni che circoscrivono e delimitano le norme di contenuto generale ex artt. 55 e 57 c.p.p..

    Tuttavia, non è comunque possibile escludere che il S. ed il L. si trovassero - si badi, nell'agosto del 2005 e non oggi, a giurisprudenza ormai univocamente consolidata - nell'erronea convinzione di agire nell'adempimento di un dovere, in ciò confortati anche dagli orientamenti interpretativi che in quel periodo si andavano formando: al di là della problematica del sequestro, che essi tennero ben presente giacchè sollecitarono a quel fine l'intervento della Polizia Provinciale, i due imputati ben poterono ritenere che spettasse loro un potere-dovere di intervento volto all'accertamento di una condotta criminosa in atto ed a scongiurare la possibilità che quella condotta avesse un seguito, fino a valutare che fosse coessenziale all'esercizio del potere de quo anche la legittima facoltà di penetrare in una proprietà altrui (ferme le perplessità già sopra segnalate in punto di concretezza della prova del dolo).

    Non va dimenticato, del resto, che alle guardie venatorie è stata da tempo riconosciuta una qualità pubblicistica rilevante anche in ambito penale, almeno ai fini della ravvisabilità del reato di cui all'art. 651 c.p., a carico di chi rifiuti di declinare loro le proprie generalità: già nel 1997 si segnalava infatti che "le guardie venatorie, pur non essendo agenti di polizia giudiziaria, nell'esercizio delle loro funzioni ricoprono la veste di pubblici ufficiali poichè esercitano poteri autoritativi e certificativi nell'ambito dell'attività di protezione della fauna selvatica che, in quanto patrimonio indisponibile dello Stato, attiene ad un interesse pubblico della comunità nazionale. E' illegittimo perciò ed integra gli estremi contravvenzionali di cui all'art. 651 c.p., il rifiuto delle proprie generalità quando queste siano richieste da una guardia venatoria nell'esercizio dei compiti di vigilanza che le sono propri" (Cass. Sez. 5^, n. 4898 dell'08/04/1997, Vitarelli, Rv 207896; nello stesso senso, da ultimo, v. Cass., Sez. 1^, n. 34688 del 05/07/2011, Rossi).

    Esistevano pertanto plurime e convergenti ragioni obiettive per far sì che i due odierni imputati agissero nella convinzione della sussistenza di una causa di giustificazione: convinzione che, per quanto erronea, non derivò certamente da una loro colpa, comunque dovendosi rilevare che il delitto contestato trova sanzione penale solo laddove commesso con dolo.
    PQM
    P.Q.M.

    Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè il fatto non costituisce reato.

    Così deciso in Roma, il 27 agosto 2013.

    Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2013
Avv. Antonino Sugamele

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