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Sentenza

Una donna accusa un commercialista di “spartirsi clienti e onorari” con un avvocato. In primo grado viene condannata. In secondo assolta. La Cassazione annulla con rinvio.
Una donna accusa un commercialista di “spartirsi clienti e onorari” con un avvocato. In primo grado viene condannata. In secondo assolta. La Cassazione annulla con rinvio.
Corte di Cassazione Sez. Quinta Pen. - Sent. del 25.10.2012, n. 41661
Presidente Zecca - Relatore Oldi
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 31 marzo 2011 il Tribunale di Milano, in totale riforma della decisione assunta dal locale giudice di pace, ha assolto M.A. dall'imputazione di diffamazione ai danni di Pi.Pa. e P.M. , con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
1.1. L'imputazione elevata nei confronti della M. riguardava un esposto da lei presentato al consiglio dell'Ordine dei dottori commercialisti di Milano, nel quale aveva affermato che il Dott. Pi. : “era solito spartirsi clienti ed onorari” con l'avv. P.M. ; aveva “duplicato l'attività di consulenza ed assistenza” insieme all'Avv. P.M. , suo amico, in quanto “molta parte, se non tutta l'attività espletata non richiedeva certamente l'apporto di due professionisti - l'avvocato e il commercialista - con conseguente crescita esponenziale degli onorari”; aveva richiesto pagamenti sproporzionati rispetto all'attività effettivamente espletata, esponendo somme “da capogiro”; aveva “richiesto l'adempimento ad M.A. persona fisica per attività professionale espletata nei confronti di altri soggetti, persone giuridiche, quali la fallita B. s.r.l. e s.a.s. I.”; dopo essersi insinuato al passivo della B. ed essere stato liquidato dalla procedura, aveva “richiesto i pagamenti” ad M.A. persona fisica; che, inoltre, il Dott. Pi. , “in combutta con l'Avv. P.M. ” aveva cercato di estorcere alla M. la metà delle partecipazioni nel ristorante L'I., tentando di ingolosirla, dapprima, offrendole immediatamente l'importo di Euro 100.000,00 e poi sommandolo agli Euro 140.000,00 circa vantati da entrambi per prestazioni professionali, per cui essa avrebbe in definitiva pagato con il 50% del suo ristorante.
1.2. Il Tribunale ha motivato la pronuncia assolutoria osservando: che, nell'ambito dello scritto incriminato, occorreva distinguere tra “affermazioni” ed “espressioni”, dovendosi intendere col primo termine le circostanze di fatto enunciate nell'esposto e, con il secondo, le modalità espressive di tali circostanze; che le affermazioni della M. erano risultate in parte vere, in parte valutative e in altra parte controverse: donde il diritto della cliente di sottoporre la questione al consiglio dell'Ordine professionale affinché valutasse i fatti sotto il profilo disciplinare; che le espressioni usate dall'esponente, indubbiamente colorite, non erano tali da eccedere i limiti della continenza; di talché, conclusivamente, lo scritto non poteva considerarsi diffamatorio in quanto redatto nell'esercizio del diritto di critica.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, affidandolo a quattro motivi.
2.1. Col primo motivo il P.M. ricorrente denuncia violazione dell'art. 595 cod. pen. per avere il Tribunale eluso la necessità di accertare la verità - o falsità - dei fatti affermati dall'imputata, erroneamente ritenendo sufficiente la loro qualificazione come “valutativi” o “controversi”.
2.2. Col secondo motivo denuncia errata applicazione dell'art. 51 cod. pen., per avere il Tribunale ricondotto nell'ambito di una normale richiesta di valutazione dei fatti sotto il profilo deontologico quella che era, invece, una dolosa aggressione personale nei confronti dei due professionisti, eccedente i limiti della continenza.
2.3. Col terzo motivo deduce vizio di motivazione in ordine al giudizio di inoffensività delle espressioni adottate nello scritto della M.
2.4. Col quarto motivo denuncia travisamento della prova in ordine alla ritenuta veridicità dei fatti descritti nell'esposto.
3. Si sono, altresì, gravate le parti civili P. e Pi. , per il tramite del comune difensore, sulla base di due motivi.
3.1. Col primo motivo i ricorrenti deducono l'errata applicazione dell'art. 51 cod. pen., alla stregua della giurisprudenza affermatasi in argomento.
3.2. Col secondo motivo denunciano, a loro volta, travisamento della prova in ordine alla affermata fondatezza dell'esposto presentato dall'imputata.

Considerato in diritto

1. In via del tutto preliminare corre l'obbligo di rilevare l'inammissibilità dei ricorsi delle parti civili, confluiti nell'atto d'impugnazione congiunto.
1.1. Alla stregua di un principio ripetutamente enunciato da questa Corte Suprema (Sez. 5, n. 43982 del 15/07/2009, Di Benedetto, Rv. 245429; Sez. 4, n. 6364 del 14/05/1997, Ferrerà, Rv. 208223), che va qui ribadito, la legittimazione a proporre ricorso per cassazione è riconosciuta al difensore di una parte diversa dall'imputato, purché iscritto all'apposito albo (requisito sussistente nel caso di specie), soltanto se questi sia munito di procura speciale: in mancanza di che il ricorso va dichiarato inammissibile.
1.2. Nel caso di cui ci si occupa il difensore delle parti civili P. e Pi. non risulta investito del potere di rappresentanza dei ricorrenti in virtù della necessaria procura speciale. Agli atti risulta, per vero, una precedente nomina a difensore apposta in calce al ricorso diretto al giudice di pace ex art. 21 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con contestuale costituzione di parte civile ai sensi dell'art. 23 dello stesso decreto; ma i poteri di rappresentanza così conferiti non possono intendersi estesi al giudizio di cassazione, ostandovi il disposto dell'art. 100, comma 3, cod. proc. pen., in forza del quale “la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell'atto non è espressa volontà diversa”.
1.3. Alla declaratoria di inammissibilità dei predetti ricorsi conseguono le statuizioni di cui all'art. 616 cod. proc. pen..
2. È invece ammissibile, e fondato per quanto si dirà oltre, il ricorso del pubblico ministero.
2.1. Per una migliore chiarezza espositiva, è opportuno anzitutto precisare quale debba essere la scansione del procedimento logico-giuridico da seguire in tema di accertamento della punibilità dell'imputato a titolo di diffamazione.
In primo luogo è necessario stabilire se il contenuto della comunicazione rivolta a più persone rechi in sé la portata lesiva della reputazione altrui, che costituisce il proprium del reato contestato. Nell'attendere a ciò deve omettersi ogni riferimento ai criteri di valutazione dettati dalla giurisprudenza in tema di esercizio del diritto (di critica o di cronaca), quest'ultima operazione logica presupponendo - in quanto diretta a verificare l'esistenza di una causa di giustificazione - il previo accertamento della commissione di un fatto previsto dalla legge come reato.
Solo una volta stabilito il concorso degli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, l'attenzione del giudicante può spostarsi sull'apprezzamento della linea difensiva volta a giustificare il fatto sotto il profilo della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen., e quindi sulla verifica di sussistenza dei noti requisiti di verità, interesse alla notizia e continenza.
La precisazione che precede si è resa necessaria in quanto la motivazione della sentenza impugnata reca una commistione dei temi di indagine, là dove esclude l'offensività dell'esposto inoltrato dalla M. in base ad argomenti che, invece, sono propri dell'accertamento dell'esimente del diritto di critica.
3. Tanto premesso va subito detto che, dal punto di vista della rlconducibilità della fattispecie all'ipotesi delittuosa contestata, il modello descrittivo della norma incriminatrice risulta integrato in virtù dell'attribuzione, al Pi. e al P. , di condotte descritte nell'esposto come contrarie alla deontologia professionale e alla correttezza verso il cliente, quando non, addirittura, costituenti reato. Ciò vale per i passi dello scritto nei quali si denunciano artificiosi ampliamenti delle prestazioni svolte, esposizione di onorari esageratamente alti, pretese di pagamento di compensi non dovuti; ma anche, e soprattutto, per il passo nel quale i due professionisti sono accusati di una tentata estorsione ai danni dell'esponente.
3.1. Il suesposto rilievo ovviamente non esaurisce - per quanto sopra detto - il thema decidendum, restando da verificare se sussistano o meno i presupposti per l'applicabilità della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen.: la quale, attesa la natura e finalità dello scritto, sarebbe da riguardare sub specie di quella forma particolare del diritto di critica che si ricollega alla legittima tutela dell'interesse del cliente ad invocare l'intervento dell'Ordine professionale in caso di comportamenti deontologicamente scorretti.
4. L'accertamento della menzionata esimente richiede, come già accennato, la verifica di sussistenza dei tre requisiti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità: la verità, l'interesse alla notizia (che nel caso di specie è in re ipsa, essendo il Consiglio dell'Ordine investito dell'azione disciplinare nei confronti dei propri iscritti) e la continenza.
4.1. Orbene, proprio nella valutazione del requisito di verità, la motivazione della sentenza impugnata si presenta in parte carente e in parte difforme da una corretta applicazione dei principi giuridici vigenti in materia.
La verità dei fatti segnalati è condizione indefettibile perché su di essi possa appuntarsi la critica (in tal caso lecita, quand'anche non condivisa); ma nell'accertamento della verità non è lecito arrestarsi alla constatazione secondo cui l'affermazione “è controversa”, essendo compito del giudice superare il dissidio fra le contrapposte linee difensive onde appurare la sussistenza del fatto storico nella sua oggettiva entità: in ciò, eventualmente, avvalendosi anche degli esiti delle indagini compiute dall'ordine professionale (ma, in tal caso, valutando nella sua completezza la documentazione prodotta). Ancor meno giustificato è limitarsi a qualificare come “valutative” le affermazioni dell'esponente, dal momento che la legittimità della valutazione critica ha il suo presupposto - come poc'anzi osservato - nella verità oggettiva del fatto criticato.
4.2. La convinzione dell'esponente circa la fondatezza delle accuse mosse viene in considerazione in un secondo momento, qualora la verità dei fatti addebitati risulti esclusa; in tale ipotesi, infatti, diviene rilevante la configurabilità dell'esimente sotto il profilo putativo. Ma il relativo giudizio deve essere emesso alla stregua dei principi giuridici enucleati dalla giurisprudenza a margine dell'art. 59 cod. pen., per cui si richiede che l'erronea supposizione dell'imputato non si basi su un mero criterio soggettivo, ma sia sostenuta da dati di fatto concreti, che siano tali da giustificare l'erroneo convincimento dell'esistenza della causa di giustificazione.
5. La sentenza del Tribunale di Milano, che ha sostanzialmente eluso l'obbligo di accertamento della verità dei fatti descritti nell'esposto della M. , deve essere pertanto annullata per tale ragione, restando assorbita ogni doglianza inerente alla continenza delle espressioni adottate dall'imputata. Il giudice di rinvio, che si designa nello stesso Tribunale di Milano (in persona di altro magistrato), sottoporrà la vicenda a nuovo giudizio nell'osservanza dei principi suesposti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi delle parti civili e le condanna ciascuna al pagamento delle spese processuali e al pagamento di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende;
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Milano per nuovo giudizio.

Depositata in Cancelleria il 25.10.2012
Avv. Antonino Sugamele

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