La Cassazione si pronuncia sulla valenza delle linee guida: non c'e' responsabilita' medica se vengono seguite.
Corte di Cassazione Sez. Quarta Pen. - Sent. del 12.06.2012, n. 23146
Presidente Sirena - Relatore RomisRitenuto in fatto
Con sentenza emessa il 12 novembre 2009 dal Tribunale di Lamezia Terme, S.U. , M.F. e T.M.A. venivano assolti, con la formula perché il fatto non sussiste, dal reato di lesioni colpose loro ascritto secondo la seguente contestazione: delitto p. e p. dagli artt. 113 c.p. e 590 c. 2 c.p. in relazione all'art. 583 c. 1 n. 2 c.p. perché, in cooperazione tra loro, il primo nella qualità di direttore della Unità Operativa di Oculistica, il secondo e il terzo nella qualità di medici del reparto, per colpa consistita in negligenza e imperizia, in particolare omettendo di effettuare un trattamento chirurgico tempestivo e adeguato al caso clinico (trabeculectomia) e autorizzando una dimissione intempestiva del paziente, cagionavano a P.D. un indebolimento permanente della funzione visiva dell'occhio destro pregiudicandone irreversibilmente il nervo ottico (in (omissis) ). Avverso tale pronuncia proponeva appello la parte civile, sostenendo che l'imperizia degli oculisti nell'affrontare il paziente P. aveva determinato l'evento della irreversibile compromissione del nervo ottico, come desumibile dalla disamina degli esiti delle consulenze mediche agli atti. L'appellante censurava l'impugnata sentenza sotto diversi profili, ribadendo la tesi già sostenuta in primo grado, ed aggiungeva che il primo giudice non aveva rilevato le ulteriori negligenze poste in essere dagli imputati ed il rapporto di causalità con l'evento lesivo; ribadiva che la lesione era stata determinata dall'eccessivo e prolungato aumento dei valori pressori, ragion per cui le dimissioni del P. dovevano ritenersi affrettate ed imprudenti oltre che causalmente collegate all'evento lesivo: una protratta osservazione all'interno della struttura sanitaria avrebbe consentito di monitorare i valori pressori; l'appellante chiedeva inoltre la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, finalizzato all'espletamento di una perizia di ufficio, nonché all'ammissione, quali testimoni, della signora Luciana Gallo, moglie del P. , e del Dott. Pl.An. , la prima per confermare di avere accompagnato, in ogni occasione,dopo le dimissioni, il P. presso l'ambulatorio per le misurazioni della pressione oculare, il secondo, medico-odontoiatra, per riferire che aveva avuto occasione di visitare il P. per un controllo, su indicazione del Dott. S. , così potendo constatare, nella circostanza, che il P. presentava l'occhio ancora fortemente sanguineo. La Corte d'Appello confermava l'impugnata decisione e, per la parte che in questa sede rileva, dava conto del proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: 1) non poteva trovare accoglimento la richiesta di rinnovazione parziale del dibattimento - peraltro istituto di carattere eccezionale che comporta per il giudice un onere motivazionale solo nel caso in cui si intenda fare uso di tale potere discrezionale - posto che, a fronte di un' istruttoria completa ed esaustiva, vi erano elementi sufficienti per consentire una compiuta valutazione: in particolare, nulla avrebbe aggiunto una ulteriore perizia, avendo i consulenti escussi offerto un quadro chiaro della patologia del P. , del suo evolversi e degli strumenti per approntare le cure del caso; 2) nel merito, avuto riguardo alla dinamica dei fatti per come ricostruita nell'impugnata sentenza, l'appello risultava infondato posto che: a) quanto all'omesso intervento di trabeculectomia mentre il paziente P. era ricoverato, risultavano condivisibili le conclusioni dei consulenti della difesa degli imputati, i quali avevano concordemente sostenuto che, sulla scorta della migliore letteratura, la condotta sanitaria posta in essere doveva considerarsi rispondente alla migliore scienza medica secondo cui, in caso di aumento dei valori pressori oculari, la prima terapia, non invasiva, da approntare deve ritenersi sicuramente quella farmacologica praticata al P. , per proseguire poi con un intervento poco invasivo, e cioè l'iridectomia, come previsto anche dalle linee-guida, nel caso, di mancato decremento dei valori monitorati; ed in effetti, tale intervento, praticato al P. con il laser, aveva poi consentito di raggiungere un valore pressorio di 35 mm, pari alla metà di quello riscontrato all'atto dell'ingresso del paziente in ospedale, valore destinato ad ulteriormente diminuire, secondo le indicazioni della migliore scienza medica, se trattato poi farmacologicamente, ferma restando la necessità di sistematici controlli del valore della pressione oculare unitamente alla somministrazione dei tarmaci, senza alcuna necessità di ricovero in struttura ospedaliere: ed in effetti, all'atto della dimissione, al P. era stata prescritta la terapia da seguire ed era stato fissato il calendario dei controlli; dunque, correttamente era stata disposta la dimissione del P. allorquando costui presentava valori non allarmanti della pressione oculare; b) non altrettanto convincenti apparivano invece le argomentazioni dei consulenti del PM e della parte civile: pur non essendo vincolanti, le linee-guida comunque orientano il sanitario la cui condotta, una volta che a queste si adegua, in presenza dei dati anamnestici che ne giustificano l'operato, non può essere definita imprudente, né tanto meno imperita; c) l'anamnesi del paziente P. , per come descritta nella documentazione medica, e cristallizzata in sentenza, consentiva ed imponeva un approccio non invasivo, così come attuato dai medici dell'ospedale: lo stesso consulente del PM, Dott. R. , non aveva potuto fare a meno di sostenere come l'intervento chirurgico sarebbe stato necessario qualora i valori pressori, a fronte delle terapie approntate, non avessero avuto variazioni di rilievo, e, dopo aver evidenziato i valori pressori del paziente, aveva dovuto riconoscere che si era verificato un graduale decremento; d) apparivano dunque condivisibili le argomentazioni del primo giudice secondo cui i sanitari di (omissis) avevano, nella specie, tenuto una condotta ispirata alla miglior scienza ed esperienza: Tintervento chirurgico invasivo non si presentava affatto necessario ed indefettibile sulla scorta dell'evoluzione della patologia per come monitorata durante la degenza, né le conseguenze che si erano evidenziate in seguito potevano ritenersi prevedibili sulla scorta delle terapie praticate e dell'intervento effettuato; del resto, la stessa difesa della parte civile non aveva allegato elementi certi e scientificamente validi dai quali desumere che fosse, anche solo immaginabile, un peggioramento delle condizioni di salute del P. dopo il trattamento sanitario; sicché pari menti corrette dovevano considerarsi le dimissioni del paziente in presenza di valori pressori in netto decremento: i successivi monitoraggi del P. , effettuati in ospedale, non avevano evidenziato, nei tempi prossimi alle dimissioni, variazioni di rilievo; lo stesso consulente della parte civile aveva riconosciuto che, a fronte di un trend in discesa del valore pressorio, la trabeculectomia non poteva considerarsi necessaria; e) la circostanza che, al momento della visita presso il Policlinico di Reggio Calabria, a quasi due mesi di distanza dalle dimissioni, la misurazione avesse evidenziato un picco, non consentiva, in mancanza di altri dati certi, di ritenere che l'aumento potesse in qualche modo essere collegato alla condotta dei primi medici, essendo ben possibile un'impennata della pressione anche il giorno precedente la visita, e non potendo, di contro, escludersi una diminuzione del valore pressorio a fronte della terapia - come del resto si era verificato nei giorni prossimi alle dimissioni del P. - fino a rientrare in un range di normalità, per poi, improvvisamente rialzarsi: la mancata documentazione dei valori pressori dopo le dimissioni, non consentiva diverse letture, né era possibile desumere tali valori dalle dichiarazioni della parte civile trattandosi di valutazioni tecniche che non potevano essere rimesse alla prova testimoniale; anzi, le circostanze riferite dallo stesso P. - il fatto cioè che il (omissis) si era recato in (…) per lavoro - apparivano contraddire i valori pressori sempre da lui dichiarati: ed invero, ove effettivamente la pressione oculare avesse raggiunto, quel giorno, ma anche nei giorni precedenti, valori prossimi ai 50/60 mg di mercurio, il P. avrebbe necessariamente dovuto avvertire - per come specificato dal Dott. Sc. - forti dolori che non avrebbe potuto fare a meno di riferire ai sanitari dell'Ospedale di (…), dove si era recato per ben altre patologie, ed in ogni caso non avrebbe potuto attendere alle sue normali attività; lo stesso viaggio in (…), per ragioni di lavoro, induceva a ritenere che il P. non presentasse disturbi seri, e soprattutto non potesse avere quei valori pressori dichiarati; f) nemmeno potevano condividersi le ulteriori censure della parte civile, secondo le quali, ove l'intervento chirurgico fosse stato effettuato prima, le lesioni in contestazione non si sarebbero verificate: tale assunto non aveva trovato riscontro nella istruttoria espletata, né gli stessi consulenti avevano offerto validi elementi scientifici in tal senso; generico era stato il Dott. R. , sul punto, con la sua consulenza apparsa estremamente teorica e non ancorata al caso concreto, non avendo offerto dati scientifico - medici per supportare le sue conclusioni sul punto, e, soprattutto, non aveva tenuto nel dovuto conto il fatto che le terapie approntate avevano avuto l'esito sperato, e cioè il rilevante decremento dell'iniziale valore all'atto del ricovero del paziente; né il consulente della parte civile si era discostato da tale metodologia; g) vi era ancora da aggiungere come anche il Dott. Sp. - il quale, in data (omissis) , aveva sottoposto il P. ad intervento chirurgico - gli aveva prescritto, a far data dalla prima visita del (omissis) , una terapia farmacologica, ad ulteriore conferma di come non sussistessero ragioni di particolare urgenza, e, ancora, di come il trattamento somministrato fosse, comunque, da preferire, almeno in prima battuta: nell'occasione, contrariamente a quanto accaduto mentre il P. si trovava presso l'ospedale di (omissis) , i valori non avevano risentito positivamente della terapia, e pertanto, solo per tale ragione, l'intervento invasivo si era reso necessario.
Ricorre per cassazione la parte civile P.D. , a mezzo del difensore munito di procura speciale - con atto di impugnazione "avverso la Sentenza n. 165/11, pronunciata dalla Corte di Appello di Catanzaro in data 02.03.2011 (giorni 90 per i motivi), con la quale veniva confermata la sentenza del 12.11.2009 del Tribunale di Lamezia Terme n. 489/09 di assoluzione degli imputati con la formula perché il fatto non sussiste7', per come testualmente si legge nell'incipit del ricorso - deducendo violazione di legge e vizio motivazionale sotto i seguenti profili: 1) avrebbe errato la Corte territoriale nel negare la rinnovazione del dibattimento posto che: il perito, quale ausiliario del giudice, avrebbe mantenuto una posizione equidistante, “super partes”; quanto ai testi, gli stessi avrebbero dovuto rispondere su circostanze specifiche circa le condizioni del paziente, con particolare riferimento alla pressione oculare; 2) vi sarebbe contraddittorietà di motivazione laddove la sentenza “nell'affermare l'esistenza di documentazione e dei dati di misurazione pressoria agli atti (p. 3) contraddice il presupposto dell'assoluzione dei sanitari incentrato su la mancata documentazione dei valori pressori dopo le dimissioni (p. 6)”; 3) la Corte avrebbe errato nel ritenere legittimo l'operato dei sanitari in quanto dettato dall'adesione alle linee guida: viene in proposito citata giurisprudenza di legittimità secondo cui la condotta del sanitario deve prescindere da direttive o linee guida posto che il suo compito è quello di apprestare al paziente le cure di cui lo stesso al momento ha bisogno utilizzando i presidi e le terapie di cui la scienza medica in quel momento dispone; 4) vizio di motivazione laddove è stata ritenuta corretta la decisione dei sanitari di dimettere il paziente muovendo dal rilievo che non sarebbero stati presenti "parametri allarmanti tali da far presagire la necessità di trattenerlo all'interno della struttura sanitaria": una pressione superiore a 35 mm era di per se stessa allarmante per come rappresentato dai testimoni escussi; inoltre, la stessa imputata T. aveva riferito che non era stato possibile valutare ed approfondire altri parametri - oltre quelli verificati della pervietà dell'iridotomia e della pressione - a causa delle condizioni dell'occhio del paziente; fa Corte avrebbe omesso di valutare nella sua integrità le considerazioni del consulente del P.M. Dott. R. nella parte in cui questi aveva osservato che la pressione oculare deve ritenersi ad alto rischio se superiore a 30 mm, e quindi l'intervento sarebbe stato necessario; 5) vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale dato risposte alle specifiche deduzioni svolte con l'appello ancorate alle indicazioni fornite dal consulente della parte civile prof. Pr. ; 6) omesso esame di vari certificati, parte integrante dell'elaborato del consulente di parte, da cui poteva rilevarsi che la pressione oculare era rimasta elevata, addirittura aumentando, successivamente alla dimissione del paziente e che l'occhio era molto infiammato: di tal che sarebbe illogica la motivazione della Corte laddove si accenna alla mancanza di documentazione dei valori pressori dopo la dimissione del paziente dall'ospedale, ed essendo state altresì trascurate le indicazioni fornite dal consulente degli imputati Dott. A. e quanto dichiarato dalla stessa imputata T. la quale aveva riferito della necessità dell'intervento chirurgico in caso di insuccesso dell'uso del laser; 7) vizio di motivazione in ordine al giudizio controfattuale che, se correttamente formulato, avrebbe permesso di giungere alla conclusione che se l'intervento di trabeculectomia fosse stato tempestivamente eseguito il danno all'occhio non si darebbe verificato. Con il ricorso, conclusivamente, si chiede l'annullamento della sentenza impugnata con la quale la Corte d'Appello ha mandato assolti gli imputati; all'atto di gravame sono stati allegati i vari documenti di riferimento richiamati nelle argomentazioni poste a sostegno dei motivi di ricorso. La parte civile ricorrente ha poi depositato memoria difensiva con ulteriori argomentazioni a sostegno delle censure formulate con il ricorso, con riferimento alla "mancata assunzione di una prova decisiva" ed alla "errata valutazione di prove decisive".
Considerato in diritto
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile sotto un duplice aspetto. Vanno preliminarmente rilevati i profili di inammissibilità che il ricorso presenta sul piano processuale. Ed invero, come precisato da questa Corte, "l'impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento è inammissibile se non contiene un espresso e diretto riferimento agli effetti civili che vuoi conseguire" (cfr. in termini Cass. Sez. 2, n. 25525/08, RV. 240646, proprio in relazione a ricorso per cassazione ritenuto inammissibile sotto tale aspetto; conf.: Sez. 1, n. 7241 del 04/03/1999 Ud. - dep. 08/06/1999 - Rv. 213698, ancora in relazione a declaratoria di inammissibilità di ricorso per cassazione; Sez. 5, n. 9374 del 30.11.2005, Rv. 233888; Sez. 2 n. 897 del 24.10.2003, Rv. 227966). Dunque, l'impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione - quale prevista dall'art. 576 cod. proc. pen. - deve necessariamente essere preordinata a chiedere l'affermazione della responsabilità dell'imputato, ma solo quale logico presupposto della condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno. Con la conseguenza che detta richiesta non può condurre ad una modifica della decisione penale, sulla quale si è formato il giudicato, in mancanza dell'impugnazione del P.M., ma semplicemente all'affermazione della responsabilità dell'imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alte restituzioni ed al risarcimento del danno. Essendo questa la “ratio” della disposizione di cui all'art. 576 c.p.p. - che, come visto, attribuisce alla parte civile la legittimazione a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata in giudizio ai soli effetti della responsabilità civile - ne deriva che la richiesta della parte civile, in sede di impugnazione, deve fare riferimento specifico e diretto, a pena di inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che si intendono conseguire.
Nel caso di specie la ricorrente parte civile ha svolto argomenti finalizzati unicamente a dimostrare la asserita sussistenza di vizi motivazionali nel percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito nella sentenza assolutoria, formulando conclusivamente la richiesta di annullamento della sentenza impugnata emessa dalla Corte d'Appello di Catanzaro "con la quale ha mandato assolti gli imputati"; peraltro, come innanzi si è avuto modo di precisare, neanche nell'incipit dell'atto di gravame vi è il benché minimo accenno all'azione risarcitoria, così come manca qualsiasi riferimento al rinvio al giudice civile quale conseguenza dell'eventuale annullamento di una sentenza assolutoria se impugnata - come nella concreta fattispecie - dalla sola parte civile e non (anche) dall'ufficio requirente. Né la richiesta, contenuta nelle conclusioni scritte rassegnate all'esito della odierna discussione, di una vantazione “ai fini civili” delle responsabilità degli imputati per la conseguente condanna degli stessi al risarcimento dei danni, può far venir meno i fin qui rilevati profili di inammissibilità del ricorso, trattandosi di indicazioni successive ed estranee al contenuto dell'atto di impugnazione che deve essere valutato, ai fini dell'ammissibilità, per come risulta formulato ed articolato al momento della sua presentazione, in quanto non suscettibile di integrazioni finalizzate a "neutralizzare" una causa di inammissibilità dell'impugnazione stessa. È bene ricordare che l'atto di impugnazione nel codice vigente si articola nella dichiarazione e nella contestuale enunciazione di motivi; la dichiarazione di impugnazione ed i relativi motivi costituiscono, dunque, elementi di un unico negozio processuale che si compone di una parte avente natura dichiarativa, la quale esprime la volontà di non prestare acquiescenza al provvedimento impugnato, e di una parte avente carattere argomentativo, costituita dai motivi: è, dunque, necessario che i detti due elementi intervengano, sia pure attraverso documenti distinti, entro il termine utile per l'impugnazione ("ex plurimis", Sez. 1^, n. 8871 dei 16/07/1993 Ud. - dep. 28/09/1993 - Rv. 197220).
La proposta impugnazione risulta comunque inammissibile anche sotto un secondo aspetto, e cioè in relazione alle argomentazioni poste a base delle censure dedotte. Con il ricorso, la parte civile ha sostanzialmente riproposto le tesi già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d'appello poi. Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui "è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 comma 1 lett. c), all'inammissibilità" (in termini, Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. - dep. 03/05/2000 - Rv. 216473; CONF: Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708). E va altresì evidenziato che già il primo giudice era pervenuto all'assoluzione degli imputati seguendo un percorso motivazionale ineccepibile per la completezza argomentativa; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, i giudici di seconda istanza legittimamente hanno anche evocato la motivazione addotta dal Tribunale a fondamento del convincimento espresso, senza peraltro limitarsi ad un semplice richiamo meramente ricettizio a detta motivazione, non avendo mancato di fornire autonome valutazioni ed indicare specifiche risultanze processuali a fronte delle deduzioni dell'appellante: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (in termini, “ex piurimis”, Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. - dep. 23/04/1994 - Rv. 197497; conf. Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 Ud. - dep. 05/12/1997 - Rv. 209145). La decisione impugnata - peraltro, come detto, di conferma di sentenza assolutoria già pronunciata in primo grado - si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi puntuali contenuti motivazionali, quali sopra riportati (nella parte narrativa) e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni, forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e vantazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti il fatto oggetto del processo. La Corte territoriale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda, ha spiegato le ragioni per le quali ha conclusivamente escluso che potessero ravvisarsi profili di colpa nella condotta dei sanitari alle cui cure era stato affidato il P. . Le argomentazioni svolte dal giudice di seconda istanza, nel caso in esame, risultano lineari, adeguate, complete e logiche, ed in piena sintonia con i principi e con i criteri più volte indicati in epoca più recente nella giurisprudenza di legittimità, in tema di onere motivazionale in materia di colpa professionale medica.
Le doglianze della ricorrente parte civile, finalizzate alla individuazione di profili di colpa nella condotta degli imputati, in alcun modo riescono a scalfire l'impugnata decisione, ancorata alle risultanze probatorie e vieppiù rafforzata da deduzioni e considerazioni logiche sulla base di circostanze oggetti ve sopra ricordate. Da quanto fin qui esposto deriva altresì la manifesta infondatezza del motivo con il quale la ricorrente parte civile ha censurato il diniego della Corte d'Appello di una integrazione istruttoria, finalizzata anche all'espletamento di una perizia. In primo luogo va evidenziato che la Corte stessa ha dato conto della propria statuizione in proposito sottolineando la superfluità degli ulteriori incombenti istruttori sollecitati con l'appello. Giova poi ricordare che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, ed avallato dalle Sezioni Unite, "la rinnovazione del giudizio in appello è istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti" (Sez. Un., n. 2780/96, RV. 203974). Per quel che riguarda poi le valutazioni scientifiche da parte dei giudici di merito, laddove sono state disattese le osservazioni del consulente tecnico del P.M. e del consulente tecnico dalla parte civile, mette conto sottolineare che costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie, l'apprezzamento, positivo o negativo che sia, delle conclusioni del perito e/o dei consulenti. Certo, il giudice di merito ha l'obbligo di motivare il proprio convincimento con criteri che rispondano ai principi scientifici oltreché logici. Ma è altresì certo che il giudice stesso può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l'una piuttosto che l'altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta, e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire. Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l'omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della relazione tecnica disattesa, poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all'onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento (così, "ex plurimis", Sez. 5, n. 10835 del 08/07/1988 Ud. - dep. 11/11/1988 - Rv. 179651). Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, laddove la Corte distrettuale ha motivatamente disatteso, con puntuale argomentazione, le indicazioni fornite dai consulenti del P.M. e della parte civile. È stato condivisibilmente precisato che "in tema di valutazione delle risultanze peritali il giudice di merito può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l'una piuttosto che l'altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire" (in termini, "ex plurimis", Sez. 4, n. 11235 del 05/06/1997 Ud. - dep. 09/12/1997 - Rv. 209675).
Neppure possono assumere rilievo, nella concreta fattispecie, con specifico riferimento agli atti evocati dalla ricorrente parte civile ed allegati al ricorso, le modifiche apportate dalla legge n. 46/2006 (c.d. Legge Pecorella) all'art. 606 del codice di rito. A fronte dei motivi formulati con il ricorso, compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se la parte ricorrente sia riuscita a dimostrare, in questa sede di legittimità, l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte distrettuale, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni del ricorrente P. non risultano in sintonia con il senso dell'indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Ciò posto, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell'art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come modificato dalla legge 46/2006, occorre allora tener conto che la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, può parlarsi di "travisamento della prova", che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioè, incorra in una utilizzazione di un'informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della legge n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. - nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" - detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell'art. 581 lett. c) c.p.p. (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere "l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"). Con la conseguenza che sussiste a carico dei ricorrente - accanto all'onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell'art. 581 c.p.p. - anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell'atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l'impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all'esame diretto degli atti (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte fornite dalle integrative pronunce di primo e secondo grado alle questioni poste dalla difesa della parte civile. Ma v'è di più, posto che, sempre con riferimento alla portata delle innovazioni della legge n. 46/2006 relativamente allo specifico caso di ricorso per cassazione di cui all'art. 606, lettera c), c.p.p., non è sufficiente: a) che gli atti del processo evocati con il ricorso siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità; b) né che tali atti possano essere astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorre invece che gli "atti del processo", presi in considerazione per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione, siano "decisivi", ossia autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. In definitiva: la nuova formulazione dell'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., introdotta dall'art. 8 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato", anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all'intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova vantazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri). Tenendo conto di tutti i principi testé ricordati, deve dunque concludersi che, nei caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure appena esaminate non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale la parte civile ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto facendo riferimento all'art. 606 lett. e) c.p.p.: pur asserendo di volere contestare l'omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, con il ricorso, in realtà, è stato piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito. Le allegazioni difensive della parte non valgono dunque a disarticolare l'apparato argomentativo delle integrative pronunce di primo e secondo grado (trattasi di doppia conforme).
Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 7 – 13 giugno 2000) al versamento a favore delle cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 500,00 (cinquecento).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed a quello della somma di Euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
16-06-2012 00:00
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