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Sentenza

Il Giudice che ha gia' condannato l'imputato in un altro processo non puo' essere ricusato se il reato per cui si procede e' diverso dal primo
Il Giudice che ha gia' condannato l'imputato in un altro processo non puo' essere ricusato se il reato per cui si procede e' diverso dal primo
Corte di Cassazione Sez. Prima Pen. - Sent. del 02.04.2012, n. 12226

Ritenuto in fatto.

1. Con ordinanza emessa il 24 marzo 2011 la Corte d'appello di Reggio Calabria dichiarava inammissibile l'istanza dl ricusazione proposta da G.C. nei confronti delle dott.sse O. T. e B.B. componenti del Collegio del Tribunale, incaricato della trattazione del processo in cui l'istante era imputato dei delitti previsti dagli artt. 416, 479, 718 c.p., 3 d.lgs. n. 74 del 2000, 76 d.P.R. n. 445 del 2000, 12-quinquies I. n. 356 del 1992.
La Corte sottolineava l'assoluta diversità tra il delitto di estorsione aggravata ex art. 7 I. n. 203 del 1991, giudicato dal Tribunale di Reggio Calabria, composto, tra gli altri, dai giudici T. e B. e in relazione al quale era intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, e i reati per i quali doveva celebrarsi il nuovo processo dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria; in tale ottica, pertanto. era assolutamente irrilevante la presunta identità delle fonti probatorie.
2. Avverso il citato provvedimento ha proposto ricorso per cassazione personalmente il C. il quale, anche mediante una memoria successivamente predisposta dal difensore di fiducia e depositata nella cancelleria di questa Corte il 23 gennaio 2012, formula le seguenti doglianze.
Lamenta erronea applicazione della legge penale con riferimento all'adozione della procedura de plano sulla domanda di ricusazione, atteso che la questione prospettata - non manifestamente infondata alla luce dei principi contenuti nell'art. 41 c.p.p. - aveva richiesto un esame approfondito dei temi posti a base della richiesta.
Deduce, inoltre, inosservanza degli art. 34 e 37 c.p.p., atteso che i fatti oggetto del celebrando giudizio nei confronti di C. erano già stati ricompresi nella re giudicanda oggetto di delibazione nel precedente processo e inoltre che il reato di cui all'art. 12-quinquies I. n. 356 del 1992 presupponeva l'avvio di un procedimento volto all' applicazione di una misura di prevenzione, motivata proprio dalla partecipazione del ricorrente ad un'associazione per delinquere.

Osservato in diritto.

Il ricorso è manifestamente infondato.
1. Con riferimento al primo motivo di ricorso il Collegio osserva che, secondo il costante indirizzo interpretativo di questa Corte, nel caso di manifesta infondatezza della ricusazione il giudice deve pronunciare de plano la relativa declaratoria di inammissibilità, senza sentire le parti interessate in camera di consiglio, previa fissazione di udienza e avviso, atteso che l'art. 41, comma 1 c.p.p. prevede che il Collegio provveda “senza ritardo” e non richiama, al contrario del successivo comma terzo, relativo alla decisione del merito della ricusazione, le forme dell'art. 127 c.p.p. (Sez. I, 26 novembre 1991, n. 4490; Sez. I, 25 giugno 1996, n. 4345; Sez. VI, 19 febbraio 1997, n. 706; ez. I. 20 gennaio 2000, n. 409; Sez. III, 9 aprile 200 l, n. 23619; Sez, V. 4 febbraio 2002, n. 7297: Sez. III, 6 novembre 2008, n. 46032 Sez. I 28 gennaio 2010, n. 6621 ).
Tale conclusione esegetica appare coerente con le indicazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo codice di procedura penale che richiama la necessità di scoraggiare l'uso strumentale dell'istituto e di valorizzare “la funzione di fiItro della pronuncia sulla ammissibilità per la ravvisata necessità di chiarire “senza indugio una situazione che incide sulla credibilità del giudice .
Essa appare, inoltre, conforme all'interpretazione letterale dell'art. 41, comma 1, c.p.p., la cui formula “senza ritardo' è in tutto equiparabile alla dizione “senza formalità di procedura presente negli artt. 36, 127,229,299,470,617,656 e 667 c.p.p. (Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 26156; Sez. III, 6 novembre 2008, n. 46032). Quand'anche, poi, si volesse sostenere, come affermato dal ricorrente, che l'accertamento della manifesta infondatezza della ricusazione implichi una decisione “sul merito” e renda, pertanto, applicabile l'art. 41, comma 3. c.p.p., è indubbio che, in forza della disposizione contenuta nell'art. 127, comma 9, c.p.p (”la inammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura salvo che sia diversamente stabilito”), la manifesta infondatezza dei motivi addotti costituisce causa di inammissibilità della ricusazione. Di conseguenza, la pretesa qualificazione della relativa declaratoria come una decisione “sul merito”, non influisce sulla legittimità della deliberazione de plano.
In realtà, però l'accertamento della manifesta infondatezza non evolve nel merito, in quanto la sommaria delibazione di manifesta infondatezza, si arresta in limine rispetto all'ambito peculiare dello scrutinio di merito e si traduce nella verifica esterna di corrispondenza al modello legale. concernendo il sindacato del giudice la mera plausibilità, risultante ictu oculi, dei motivi che sorreggono l'atto, con effetti di stretto diritto processuale e a salvaguardia del limite invalicabile all'impiego di moduli volti a eludere lo schema del procedimento (Sez. Un. 22 novembre 2000, n. 32; Sez, Un. 22 marzo 2005, n. 23428).
Il provvedimento impugnato appare all'evidenza rispettoso dei principi sinora enunciati, in quanto ha dichiarato la manifesta infondatezza della domanda di ricusazione in un caso che esulava palesemente dai paradigmi normativi, tassativamente previsti dall'art. 37 c.p.p.
2. A seguito della declaratoria di parziale illegittimità dell'art. dell'art. 37, comma I, c.p.p., nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto (cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 283 del 2000) è stata introdotta nell'ordinamento giuridico una nuova causa di ricusazione. Nell'ambito della predetta sentenza la Consulta ha argomentato che è affidato all'elaborazione giurisprudenziale il compito di definire i vari casi di applicazione della predetta causa di ricusazione, così come è avvenuto per le altre cause di astensione e ricusazione già previste dal codice. Con tale affermazione la Corte Costituzionale non ha invitato il giudice ordinario ad un'interpretazione estensiva dei casi di ricusazione, ma ha soltanto ribadito che egli deve individuare i casi concreti di ricusazione, nell'ambito del quadro generale delineato dalla legge.
Sulla base di questa premessa generale è evidente che, affinché sussista l'ipotesi di ricusazione sopra richiamata occorre che vi sia stata una precedente valutazione di merito sullo stesso fatto e nei confronti dello stesso soggetto.
Tale ipotesi non è configurabile nel caso di specie, poiché alla identità del soggetto non si accompagna l'identità del ‘fatto”, inteso ai fini dell'applicazione dell'art. 37 c.p.p., come corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso casuale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. Un .. 28 giugno 2005 n. 34655; Sez. I. 2 I aprile 2006, n. 19787, Sez. Il, 18 apri le 2008, n. 21035). Nel caso di specie è, quindi, evidente che non si verte in un caso di identità del “fatto”, attesa la profonda diversità delle condotte contestate al ricorrente e della differente struttura tra il delitto di cui all'art. 416 c.p. per il quale è già stata pronunciata dal Tribunale di Reggio Calabria sentenza di condanna divenuta irrevocabile, e i reati previsti dagli artt. 416, 479, 718 c.p., 3 d.lgs, n. 74 del 2000, 76 d.P.R. n. 445 del 2000, 12-quinquies I. n. 356 del 1992 in relazione ai quali pende processo dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria.
3. Le norme sulla ricusazione, derogando in norme dell'imparzialità al principio del giudice naturale, non ammettono interpretazione estensiva o analogica, e, quindi, non autorizzano una lettura degli artt. 36 e 37 c.p.p. che pretenda di assimilare interessi emergenti dal caso concreto - non espressamente considerati dall'ordinamento - a quelli oggetto di specifica regolamentazione. Ne consegue che non può essere dedotta quale causa di ricusazione dei giudici di un Collegio sotto il profilo del difetto di imparzialità, la già intervenuta valutazione da parte dei detti magistrati dell'attendibilità delle dichiarazioni di chiamanti in correità, in occasione di altri procedimenti per “fatti” diversi (Sez, I, 25 ottobre 2005. n. 45470; Sez. 1,5 dicembre 2002, n. 1376).
In conformità con i principi espressi dalla Corte Costituzionale (ordinanza n. 368 del 2000 e sentenza n. 283 del 2000) è, quindi, possibile affermare che la funzione pregiudicante può essere ravvisata non già in qualsiasi attività processuale precedentemente svolta dallo stesso giudice nel medesimo o in altro procedimento penale, a carico dello stesso imputato, bensì soltanto in una valutazione di merito espressa dal giudice, sia sulla sussistenza del medesimo fatto-reato, sia sulla colpevolezza dello stesso imputato. E', pertanto evidente che, la pretesa causa di incompatibilità, nella specie, esula da quelle tassativamente previste dall'ordinamento, non avendo i giudici ricusati espresso il proprio giudizio contenutistico di merito in una precedente decisione sullo tesso fatto reato, relativamente al medesimo imputato, essendosi gli stessi magistrati limitari a partecipare al Collegio che ha valutato, in altro e diverso procedimento penale, sia pure a carico dello stesso imputato le stesse fonti di prova in relazione ad un diverso reato.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l'assenza di colpa nella proposizione dell'impugnazione (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

 

Depositata in Cancelleria il 02.04.2012
Avv. Antonino Sugamele

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