Il fatto che la convivente pur subendo lesioni personali, minacce e ingiurie non abbia chiamato aiuto non scrimina il fatto reato.
Corte di Cassazione Sez. Quinta Pen. - Sent. del 08.02.2012, n. 4914
Presidente Giuliana Ferrua - Relatore Grazia Lapalorcia
Ritenuto in fatto:
G.R. è stato ritenuto responsabile, con sentenza della Corte d'Appello di Perugia del 13-4-2010, in conferma di quella del tribunale monocratico della stessa città in data 14-2- 2007 dei reati di lesioni personali gravi, ingiuria e minaccia grave in danno della convivente M.M. (fatti commessi il 7-5-2002 in Castiglion del Lago) e condannato alla pena di legge e al risarcimento del danno in favore della p.o. costituita parte civile, alla quale era assegnata una provvisionale di € 30.000. La corte territoriale, con ordinanza 20-6-2009, aveva tra l'altro respinto l'istanza di sospensione dell'esecuzione della provvisionale proposta con l'atto di appello).
I fatti avvenivano a seguito di una lite scoppiata tra i due conviventi, mentre si trovavano per una vacanza in un immobile di proprietà della donna, in quanto questa, ricevuta una telefonata sull'apparecchio cellulare aveva finto, per prevenire una scenata di gelosia del compagno, che a chiamarla fosse stata un'amica, chiudendo subito la comunicazione, mentre si trattava di
F.F., imprenditore edile, al quale essa intendeva commissionare la ristrutturazione di
quell'immobile.
G. insospettito, aveva voluto che la compagna richiamasse l'utenza che l'aveva contattata
per ultima, e aveva parlato con il F. chiarendo la situazione. Tuttavia la M. aveva chiesto di essere accompagnata alla stazione ferroviaria per tornare a casa, scatenando l'ira dell'imputato che l'aveva minacciata di passarle sopra con l'automobile, l'aveva ingiuriata e le aveva stretto la mano con violenza tale da procurarle la frattura del quinto dito della mano destra. La vicenda si era conclusa con il rientro a casa dei due, a bordo dell'autovettura del G. L'affermazione di responsabilità era basata sulla testimonianza della p.o.,successivamente deceduta, avvalorata dalle dichiarazioni del F., della figlia della M. e del m.llo L. questi ultimi due anche sul punto delle difficoltà della relazione tra imputato e p.o.
L'imputato ha proposto ricorso, tramite il difensore avv. M. G. M., deducendo due motivi, articolati in varie censure.
1) A) Erronea applicazione di legge in relazione all'art. 159 cp, in quanto erroneamente la corte, che ha escluso che i reati fossero già prescritti al momento della pronuncia della sentenza, ha calcolato come causa di sospensione della prescrizione l'intera durata del rinvio dell'udienza (mesi sei e gg. 13) determinato da impedimento del difensore per motivi di salute, mentre avrebbe dovuto applicare quello massimo di sessanta giorni, secondo quanto previsto dalla vigente normativa, B) Erronea applicazione dell'art. 612 cp in quanto in sentenza non si era tenuto conto del fatto che il comportamento della M. la quale si era fatta riaccompagnare a casa in autovettura, non aveva chiesto aiuto né in occasione delle soste ai distributori avvenute durante il viaggio, né tramite il proprio cellulare, prestando per di più soccorso al compagno che era stato colto da lieve malore, non deponeva per alcun timore o turbamento della sua libertà psichica. Inoltre il teste F. che aveva parlato al telefono con G., aveva indicato il tono di questi come tranquillo e pacato, il che era incompatibile con la descrizione del suo comportamento, fornita dalla p.o. C) Erronea applicazione dell'art. 599 cp, per mancata qualificazione come fatto ingiusto della menzogna della M.,alla base delle offese che l'imputato le aveva rivolto.
2) Illogicità della motivazione. A) Mancata derubricazione delle lesioni personali in lesioni colpose. Il motivo investe la durata della malattia, da determinarsi in 21 giorni (tenuto conto del giorno in cui era stata rimossa la fasciatura), e il mancato riconoscimento dell'eccesso colposo in causa di giustificazione (si sarebbe trattato di lite tra innamorati poi trascesa, in cui l'atteggiamento del G. era stato meramente difensivo). B) Mancata formulazione del giudizio di prevalenza delle generiche, ignorando la vita anteatta e il comportamento processuale collaborativo dell'imputato. C) Mancata sospensione dell'esecutività della provvisionale, doglianza che riguarda la relativa ordinanza della corte territoriale, sia sotto il profilo della valutazione della mancanza di beni in capo alla p.o. che potessero garantire l'eventuale restituzione della somma all'imputato, sia sotto quello dell'entità della provvisionale stessa, a fronte di un presumibile danno biologico da micropermanente.
La richiesta è di annullamento della sentenza impugnata.
Considerato in diritto:
1) A) Con la prima doglianza di cui al primo motivo, il ricorrente ripropone la questione
della prescrizione, sostenendone l'avvenuta verificazione anteriormente alla sentenza di secondo grado, già rigettata dalla corte territoriale sul rilievo che al termine di sette anni e sei mesi andava aggiunto il periodo di sei mesi e tredici giorni, pari alla sospensione della causa estintiva per effetto del rinvio del dibattimento per legittimo impedimento del difensore, con conseguente scadenza del termine alla data del 20-5- 2010, successiva alla sentenza d'appello. Tale decisione si ispira a principi di indubbia esattezza, sottintendendo l'integrale applicazione della previgente normativa in materia di prescrizione, nella specie più favorevole. Trattandosi di lesioni gravi, la vigente normativa, imponendo di tener conto dell'aggravante ad effetto speciale, avrebbe infatti determinato la scadenza del termine prescrizionale massimo in epoca successiva, e cioè al 7-4-2011, mentre quella precedente, che prevedeva l'applicazione dell'art. 69 cp - nella specie le generiche sono state valutate equivalenti alle aggravanti-, ha comportato il verificarsi della prescrizione, tenuto conto della pena prevista per le lesioni semplici, al 20-5-2010. Tanto premesso, la questione controversa, non affrontata ex professo né nella sentenza né nel ricorso, è se la durata della sospensione della prescrizione debba essere computata in misura pari a quella della sospensione del dibattimento per malattia del difensore -nella specie sei mesi e tredici giorni-, oppure se, in ossequio al principio della lex mitior, sia soggetta al limite di sessanta giorni previsto dall'art. 159 cp, nella formulazione frutto della novella del 2005 (L. 251/2005). Ad avviso di questa corte, non sono ammissibili commistioni tra vecchia e nuova disciplina (Cass. I 2126/2008), nel senso che, nel caso di sentenze di primo grado successive all'entrata in vigore alla legge richiamata, una volta individuata la normativa secondo la quale il termine prescrizionale è più breve, essa va applicata in toto, e quindi anche sotto il profilo delle cause di sospensione. Tale soluzione non si pone in contrasto con la sentenza di questa sezione (n. 48042/2009) che aveva invece concluso per la possibilità della simultanea applicazione delle due normative, in quanto la stessa si riferiva ad un caso in cui, essendosi la causa di sospensione verificata nel vigore della nuova normativa, la scelta di campo era giustificata, tra l'altro, dall'esigenza di non violare il principio del tempus regit actum, applicando una norma non più in vigore. Esigenza estranea al caso di specie in cui la causa di sospensione aveva iniziato a decorrere dal 8-6-2005, nel vigore della normativa precedente. Né va trascurato che, in base al disposto del secondo comma dell'art. 10 della L. 251/2005, le disposizioni dell'art. 6 -ivi comprese le limitazioni introdotte al computo delle cause di sospensione- non si applicano se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi. Il che avverrebbe nella specie, in quanto il termine di sette anni dalla commissione del fatto, più un quarto (anni otto e mesi nove), più sessanta giorni di sospensione, comporterebbe la prescrizione al 7-4-2011, mentre il termine di sette anni e mezzo più i sei mesi e tredici giorni di sospensione, ne ha determinato il maturare al 20-5-2010. A fronte di che non si verifica la conseguenza che la citata decisione di questa corte ha pure inteso evitare, e cioè che, per effetto del computo delle cause di sospensione secondo la vecchia normativa, questa possa rivelarsi meno favorevole. Ne consegue l'inammissibilità della doglianza per manifesta infondatezza. B) Il secondo profilo di doglianza, sotto l'apparente deduzione di erronea applicazione dell'art. 612 cp, reitera sostanzialmente censura di analogo contenuto, già sollevata in appello, motivatamente ritenuta infondata dalla corte territoriale sul rilievo che il comportamento della M. la quale si era fatta riaccompagnare a casa in autovettura, non aveva chiesto aiuto né in occasione delle soste ai distributori avvenute durante il viaggio, né tramite il proprio cellulare, prestando per di più soccorso al compagno che era stato colto da lieve malore, non escludeva lo stato di timore o turbamento della sua libertà psichica, ben potendo essere stato determinato dal timore di conseguenze peggiori, stante il contesto di violenze fisiche e di minacce nell'occasione posto in essere dal compagno, notoriamente molto geloso. Esso è quindi inammissibile perché generico, e comunque manifestamente infondato. C) Tale è pure la censura di erronea applicazione dell'art. 599 cp, essendo già stata fornita in sentenza adeguata e ragionata contezza dell'impossibilità di configurare come fatto illecito la menzogna della p.o, circa l'identità di colui che le aveva telefonato, menzogna giustificata dall'esigenza di non suscitare la, a lei ben nota, gelosia dell'imputato, di fatto puntualmente scatenatasi con le gravi conseguenze oggetto del processo.
2) Del pari inammissibili le doglianze articolate con il secondo motivo. A) La corte perugina ha infatti già fornito adeguata risposta, con motivazione che si sottrae al vizio di illogicità - Ia quale tra l'altro deve essere manifesta -, in primo luogo alla questione della durata della malattia conseguente alle lesioni, che il ricorrente vorrebbe cessata al momento della rimozione della fasciatura dal polso, ignorandone gli ulteriori esiti, alla base delle successive certificazioni, puntualmente richiamate in sentenza, per un periodo di durata della malattia superiore ai quaranta giorni. In secondo luogo alla configurabilità dell'eccesso colposo, a fronte della ricostruzione della vicenda, fondata sulle dichiarazioni della p.o., ritenute attendibili e corroborate da altri elementi di prova, da cui esula la possibilità di ritenere sussistenti, anche solo dal punto di vista soggettivo, scriminanti alla quali correlare un possibile eccesso colposo. Aspetti sui quali il ricorrente non ha aggiunto elementi o considerazioni atte ad inficiare le conclusioni raggiunte dal giudice di secondo grado. B) Né è affetta da manifesta illogicità la motivazione alla base del rigetto del motivo di appello inerente al mancato riconoscimento della prevalenza delle generiche sulle aggravanti, che fa correttamente leva sulla considerazione della personalità del prevenuto, desunta dalle modalità commissive della condotta, sintomo di violenta aggressività verso la compagna, a fronte di che il richiamo alla vita anteatta e al comportamento processuale collaborativo - concetti generici e imprecisati - resta del tutto recessivo. C) L'ultima doglianza attiene infine a provvedimento - quello con il quale la corte territoriale aveva respinto, prima del giudizio di secondo grado, la richiesta di sospensione dell'esecutività della provvisionale - assorbito dalla successiva integrale conferma della sentenza di prime cure, in assenza di motivi di ricorso sulle statuizioni civili.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile e tale declaratoria rende irrilevante il decorso del termine prescrizionale successivamente alla sentenza di secondo grado, sul rilievo che l'intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido, preclude ogni possibilità di far valere una causa di non punibilità successivamente maturata, sia di rilevarla d'ufficio, in quanto, laddove non si forma un valido rapporto di impugnazione, le cause estintive sono relegate a fatti storici, giuridicamente irrilevanti.
Seguono le statuizioni di cui all'art. 616 c.p.p.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000 in favore della Cassa delle Ammende.
Depositata in Cancelleria il 08.02.2012
12-02-2012 00:00
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