TRUFFA E PROVE ATIPICHE: È LECITA LA VIDEOREGISTRAZIONE?
TRUFFA E PROVE ATIPICHE: È LECITA LA VIDEOREGISTRAZIONE?
Cassazione, Sez. II, 9 agosto 2011, n. 31630
Nell'ambio delle videoregistrazioni occorre distinguere fra quelle che implicano l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni, disciplinate dagli artt. 266 ss. c.p.p., e quelle relative a comportamenti "non comunicativi", sprovviste di apposita disciplina e non equiparabili alle prime in quanto queste ultime non pongono un problema di limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni. Consegue che le riprese video di comportamenti "non comunicativi" - anche se eseguite dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa - vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, sono soggette alla disciplina dettata dall'art. 189 c.p.p. ed incontrano l'unico limite di non pregiudicare la libertà morale della persona. In particolare, tali videoregistrazioni non possono essere eseguite all'interno del "domicilio", in quanto l'invasione della sfera della libertà domiciliare è lesiva dell'art. 14 Cost.; ove invece effettuate altrove, esse sono lecite e, costituendo prova irripetibile, sono utilizzabili e possono essere validamente acquisite anche al fascicolo del dibattimento
In sostanza, il discrimine della liceità delle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi ruota intorno alla nozione di "domicilio" rilevante ex art. 14 Cost. Al riguardo questa Corte ha precisato che il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza. Per l'effetto, non possono essere considerati luoghi privati quelli che difettano dei caratteri dell'esclusività e della stabilità del godimento da parte della persona videoripresa. In particolare, non presentano queste caratteristiche, e quindi non possono essere considerati quale privata dimora, i locali di un ufficio pubblico, ove pure questo costituisca il luogo di lavoro dell'indagato
Cassazione, Sez. II, 9 agosto 2011, n. 31630
(Pres. Cosentino – Rel. D'Arrigo)
Osserva
Con l'ordinanza impugnata il Tribunale di Lecce, provvedendo sull'istanza di riesame proposta da L.L., in parziale accoglimento, ha sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei suoi confronti dal g.i.p. del Tribunale di Brindisi con ordinanza dell'11 novembre 2010 per il reato di truffa aggravata ai danni della A.s.l. di … con la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio delle funzioni di medico convenzionato con enti pubblici.
Avverso l'affievolimento del regime cautelare ha proposto ricorso il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi, deducendo la manifesta illogicità della motivazione ed evidenziando che la decisione di sostituire la misura cautelare degli arresti domiciliari con altra meno afflittiva sarebbe in netto contrasto con la gravità della condotta criminosa, ritenuta in vari passaggi della motivazione dallo stesso tribunale del riesame. In particolare, nell'ordinanza impugnata, con riferimento al pericolo di reiterazione del reato, si da risalto alla “elevatissima intensità del dolo”, desunta da molteplici circostanze, e ciò sarebbe in contraddizione, secondo i criteri di proporzionalità, adeguatezza e gradualità delle misure cautelari, con la decisione di sostituire gli arresti domiciliari con la riferita misura interdittiva. Il p.m. ha inoltre censurato il provvedimento impugnato, sempre sub specie di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui ha escluso il pericolo di inquinamento delle prove, in considerazione dell'imponenza del materiale già raccolto a carico del prevenuto, senza considerare che persisterebbe tuttora il rischio di alterazione della genuinità di una prova dichiarativa resa da soggetto in condizioni di soggezione psicologica.
Ha proposto ricorso pure la medesima L., allegando tre motivi. Col primo, censura il provvedimento impugnato nella parte in cui ha ritenuto utilizzabile come prova le videoregistrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria all'interno dei locali dell'A.s.l. di …, da cui risulta visibile la falsa marcatura del badge d'ingresso; sostiene al riguardo che, essendo il luogo di lavoro equiparabile al privato domicilio, le videoregistrazioni dovevano essere motivatamente autorizzate dall'autorità giudiziaria. Col secondo motivo si duole dell'inesistenza di gravi indizi di colpevolezza, avuto riguardo al limitato numero di ore di illegittima assenza contestate, che avrebbero determinato un danno patrimoniale di modestissimo rilievo e nessun effettivo disservizio. Col terzo ed ultimo motivo, afferma l'inesistenza delle esigenze cautelari prospettate, con particolare riguardo al pericolo di reiterazione del reato.
Entrambi i ricorsi sono inammissibili.
Conviene, in ordine logico, esaminare per primo quello proposto dalla L..
Com'è noto, nell'ambio delle videoregistrazioni occorre distinguere fra quelle che implicano l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni, disciplinate dagli artt. 266 ss. c.p.p., e quelle relative a comportamenti "non comunicativi", sprovviste di apposita disciplina e non equiparabili alle prime in quanto queste ultime non pongono un problema di limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni (Corte cost. 13 febbraio 2002, n. 135; v. pure Corte cost. 16 aprile 2008, n. 149). Consegue che le riprese video di comportamenti "non comunicativi" - anche se eseguite dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa - vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, sono soggette alla disciplina dettata dall'art. 189 c.p.p. ed incontrano l'unico limite di non pregiudicare la libertà morale della persona. In particolare, tali videoregistrazioni non possono essere eseguite all'interno del "domicilio", in quanto l'invasione della sfera della libertà domiciliare è lesiva dell'art. 14 Cost.; ove invece effettuate altrove, esse sono lecite e, costituendo prova irripetibile, sono utilizzabili e possono essere validamente acquisite anche al fascicolo del dibattimento (Cass. sez. un. 28 marzo 2006, n. 26795).
In sostanza, il discrimine della liceità delle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi ruota intorno alla nozione di "domicilio" rilevante ex art. 14 Cost. Al riguardo questa Corte ha precisato che il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza (Cass. sez. un. 28 marzo 2006, n. 26795). Per l'effetto, non possono essere considerati luoghi privati quelli che difettano dei caratteri dell'esclusività e della stabilità del godimento da parte della persona videoripresa. In particolare, non presentano queste caratteristiche, e quindi non possono essere considerati quale privata dimora, i locali di un ufficio pubblico, ove pure questo costituisca il luogo di lavoro dell'indagato (Cass. 28 settembre 2010, n. 37751; Cass. 10 gennaio 2003, n. 3443).
Tale equipollenza, nel caso di specie, deve essere esclusa a fortiori appena si consideri che le videoregistrazioni sono state effettate dalla polizia giudiziaria all'ingresso dei locali dell'A.s.l. di …, quindi in un punto di transito quantomeno di tutti gli impiegati, se non anche degli utenti dei servizi sanitari.
Sotto questo profilo il ricorso dell'indagata è quindi infondato.
La seconda e la terza censura sono in punto di fatto e quindi inammissibili. Vale in proposito quanto a breve si dirà per il ricorso del P.M., che è parimenti inammissibile per la medesima ragione.
Il ricorso proposto dalla L. deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile con conseguente condanna alle spese processuali ed alla pena pecuniaria, potendosi ravvisare profili di colpa nella causa di inammissibilità.
Passando all'esame del ricorso del p.m., si deve rilevare che le doglianze dallo stesso rassegnate attengono unicamente al merito della decisione e non danno luogo a censure che possano trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).
Tale vizio non ricorre nel caso di specie, dal momento che il giudice di appello ha esposto un ragionamento argomentativo coerente, completo e privo di macroscopiche discontinuità logiche.
Il tribunale del riesame ha, in particolare, escluso il rischio di inquinamento delle prove, essendo stato ormai raggiunto un abbondante supporto probatorio a sostegno dell'accusa. La valutazione circa la ricorrenza dell'esigenza cautelare di specie trova fondamento nell'apprezzamento di merito sull'adeguatezza e la solidità del materiale probatorio acquisito e, pertanto, non è suscettibile di censure in sede di legittimità, se non negli stringenti limiti sopra rappresentati.
Il p.m. sostiene che il tribunale del riesame avrebbe sottovalutato il rischio di alterazione della genuinità della prova dichiarativa resa da alcuni dipendenti di una ditta di pulizia esterna alla struttura sanitaria, che hanno sostenuto di essere stati in condizione di soggezione rispetto al personale dipendente ed ai medici dell'A.s.l., tanto da non poter negare la "cortesia" di marcare il badge per loro conto. In realtà, tale atteggiamento reverenziale è stato indicato dagli stessi dichiaranti a parziale giustificazione della condotta agevolatrice da loro posta in essere, a suo tempo, a favore del personale strutturato dell'A.s.l.; non vi è, quindi, alcun argomento per inferire che quell'atteggiamento di compiacenza (piuttosto che di sudditanza psicologica) si perpetui tutt'oggi, in relazione alla prova assunta, e si traduca nel concreto rischio di alterazione della stessa.
Il tribunale del riesame ha invece affermato il rischio di reiterazione del reato, sottolineando la sistematicità della falsa marcatura del badge e la particolare accondiscendenza del prevenuto nei confronti di chiunque fra i dipendenti intendesse adottare la medesima condotta, nel quadro di una sorta di mercato di scambio di favori illeciti e di condotte agevolatrici reciproche. In ordine alla graduazione della misura cautelare, si è limitato ad un generico richiamo ai criteri di proporzionalità, adeguatezza e gradualità.
Ma dal corpo dell'intera motivazione si ricava comunque che la condotta incriminata, pur se apostrofata in termini di gravità, evidentemente non è apparsa idonea a generare un allarme sociale talmente serio da giustificare l'adozione di una misura restrittiva della libertà personale: la circostanza che il reato si sia consumato nel contesto di un rapporto di prestazione d'opera alle dipendenze della struttura sanitaria pubblica fa si che per scongiurare la reiterazione del reato risulta sufficiente la recisione di quel rapporto mediante l'adozione della sola misura interdittiva.
Anche il ricorso del p.m. va, pertanto, dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso del p.m. Dichiara inammissibile il ricorso della L. e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
24-09-2011 00:00
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