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Sentenza

Trapanese condannato per oltraggio a pubblico ufficiale.- In luogo pubblico dice a due vigili urbani, nell'esercizio ed a causa delle loro funzioni istituzionali, la frase: che cazzo volete, non mi rompete la minchia.
Trapanese condannato per oltraggio a pubblico ufficiale.- In luogo pubblico dice a due vigili urbani, nell'esercizio ed a causa delle loro funzioni istituzionali, la frase: che cazzo volete, non mi rompete la minchia.
Cassazione Penale Sent. Sez. 6   Num. 9200  Anno 2020Presidente: COSTANZO ANGELO Relatore: ROSATI MARTINO Data Udienza: 03/03/2020
SENTENZA sul ricorso proposto da S.F. , nato a T.   il ........... avverso la sentenza del 21/02/2019 della Corte di Appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Martino Rosati; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Kate Tassone, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con atto del proprio difensore, F.S. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo, nella parte in cui ne ha confermato la condanna per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, per avere, in luogo pubblico ed alla presenza di più persone, proferito all'indirizzo di due agenti della polizia municipale, nell'esercizio ed a causa delle loro funzioni istituzionali, la frase: «che cazzo volete, non mi rompete la minchia». Sostiene il ricorrente che tale condotta non integri l'ipotizzato reato, in quanto: non attiene alle qualità morali delle persone esercenti l'ufficio pubblico, e perciò non ne lede l'onore; non riveste una valenza obiettivamente denigratoria della funzione svolta da costoro, e quindi non ne compromette il prestigio; non v'è prova dell'avvenuta percezione di essa da più di due persone. 
2. Il motivo di ricorso è manifestamente destituito di fondamento giuridico. 2.1. La frase pronunciata dal ricorrente è obiettivamente lesiva dell'altrui onore, rappresentando incontestabile manifestazione di disprezzo verso la persona del destinatario, indipendentemente dal ruolo sociale da questi ricoperto. Nel caso specifico, inoltre, non v'è dubbio che essa sia stata rivolta agli agenti della polizia municipale, non soltanto nell'esercizio delle loro funzioni istituzionali, ma altresì in ragione di tale loro ruolo, avendo essa rappresentato l'immediata reazione tenuta dall'imputato all'attività autoritativa da essi doverosamente esplicata e consistita nell'intimazione a rallentare la velocità di guida del suo veicolo. Tale frase, pertanto, si presenta lesiva anche del prestigio del pubblico ufficiale, da intendersi quale rispetto e considerazione dovuti a chi eserciti legittimamente una pubblica funzione.
 2.2. Ai fini della sussistenza del reato, inoltre, non è necessario che l'offesa sia stata percepita da più persone, oltre ai destinatari. E' sufficiente, infatti, che le espressioni offensive possano essere udite dai presenti, poiché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico, che può compromettere l'attività del pubblico ufficiale, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per l'amministrazione di cui fa parte, ulteriori rispetto a quelle ordinarie (Sez. 6, n. 19010 del 28/03/2017, Trombetta, Rv. 269828). Pertanto, è necessaria soltanto la prova della presenza di più persone e, ove questa risulti accertata, sarà sufficiente a far ritenere integrato il reato la mera possibilità della percezione dell'offesa da parte dei presenti (Sez. 6, n. 29406 del 06/06/2018, Rannondo, Rv. 273466). Nel caso specifico, è indiscusso che il fatto sia avvenuto in una pubblica piazza e nel corso di una manifestazione religiosa, in presenza di una moltitudine di persone: talché la prova logica della mera possibilità di percezione dell'offesa può ritenersi ampiamente soddisfatta. 
3. Il ricorso dev'essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Tanto comporta obbligatoriamente - ai sensi dell'art. 616, cod. proc. pen. - la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d'inammissibilità (yds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila euro. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 3 marzo 2020.
Avv. Antonino Sugamele

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