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Sentenza

Induce una donna dalla psiche debole a fare testamento a suo favore e a prelevare 10.000 euro in banca, poi finiti nelle sue tasche.
Induce una donna dalla psiche debole a fare testamento a suo favore e a prelevare 10.000 euro in banca, poi finiti nelle sue tasche.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 9 settembre – 21 dicembre 2015, n. 50139
Presidente Cammino – Relatore Cervadoro

Svolgimento del processo

Con sentenza del 3.7.2014, la Corte d'Appello di Lecce confermava la decisione di primo grado che aveva condannato R.G. alla pena di anni due mesi due di reclusione e € 600,00 di multa per il reato di cui agli artt.81, 643 c.p.
Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato deducendo: 1) l'erronea applicazione dell'art. 643 c.p. e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett.b) ed e) c.p.p. in riferimento allo stato di infermità psichiatrica della parte offesa, all'abuso di tale stato da parte dell'imputato, all'attività di induzione, alla natura pregiudizievole per sé o per terzi dell'atto giuridico posto in essere ed alla sussistenza del fine dell'ingiusto profitto, risultante dal testo della sentenza impugnata e dai verbali del dibattimento specificatamente indicati. In particolare, osserva come la consulenza di parte abbia posto seri dubbi sul tipo di patologia e sul comportamento dell'anziana, e che analoghi dubbi pongono le dichiarazioni dei testi qualificati quali il notaio ed il parroco. Infatti, la parte offesa, nonostante la patologia psichiatrica, aveva spazi anche lunghi di lucidità, e al momento dei testamento e del prelievo delle somme in banca era "compos sui". Né era tipo da farsi condizionare. Tanto è vero che non accolse neppure i consigli pratici dei notaio. Non vi è prova poi degli effetti dannosi dell'atto. Sia la natura che il contenuto del testamento con apposizione di una impegnativa clausola di assistenza escludono il verificarsi di effetti dannosi. Lo stesso dicasi per il profitto ingiusto, escluso dalla presenza di una clausola modale impegnativa. Irrilevante il prelievo di circa €10.000,00 in sei mesi, in considerazione del fatto che la donna aveva ben due badanti e si era sottoposta a costose cure dentistiche. Del tutto apodittica, e senza riscontro alcuno nelle dichiarazioni del teste notaio M.T.S., l'affermazione della Corte nella parte in cui attribuisce allo stesso notaio, e non alla parte offesa, l'iniziativa di introdurre la clausola modale. 2) l'erronea applicazione dell'art.62 bis c.p. e dell'art.163 c.p. in relazione al diniego delle attenuanti generiche; la Corte ha infatti trascurato un'analisi della personalità dell'imputato anche alla luce della sua condotta successiva alla commissione del reato.
Chiede pertanto l'annullamento della sentenza.

Motivi della decisione

Le doglianze del ricorrente, laddove censurano l'erronea applicazione della norma di cui all'art.643 c.p. e la congruità dell'argomentare del giudicante, sono infondate e non possono pertanto trovare accoglimento.
La Corte territoriale ha , infatti, risposto esaurientemente a tutti i rilievi sollevati dalla difesa, e ha illustrato con motivazione ampia ed esente da evidenti vizi logici le ragioni per le quali è giunta all'affermazione di responsabilità, all'esito di un approfondimento del quadro probatorio, e degli elementi che avrebbero potuto essere oggetto di interpretazione alternativa, in base a un corretto esame del contenuto degli atti processuali e considerazione del complessivo contesto probatorio, puntualmente descritto in sentenza.
La parte offesa, nell'epoca in cui ha compiuto gli atti patrimoniali e dispositivi di cui al capo di imputazione era affetta da una grave patologia psichiatrica; la natura e la gravità di tale patologia si evincono non solo dalle valutazioni dei consulente del p.m., ma anche dalla documentazione sanitaria in atti, dalla quale emerge che la G. è stata ricoverata nell'arco di tempo tra il 1960 ed il 2006 in diverse strutture sanitarie con diagnosi caratterizzate tutte, indipendentemente dalla precisa definizione clinica, dalla contemporanea presenza, sia pure a fasi alterne, di disturbi della dimensione psicotica di tipo depressivo e disturbi dell'umore di tipo prevalentemente maniacale (v.pag.5 della sentenza impugnata). II dott. N.S., e il dott.G.R., medici che hanno avuto in cura la parte offesa, hanno quindi riferito delle patologie sofferte dalla donna, dei medicinali alla stessa somministrati e delle terapie effettuate. In particolare, il dott.Stoppelli ha riferito che, nel febbraio 2008, aveva dovuto modificare la terapia, in quanto la G. era in fase di sintomatologia caratterizzata da irritabilità e depressione (v.pag. 5 della sentenza di primo grado e pag.7 della sentenza d'appello). Tali circostanze sono pacifiche, e non contestate dal consulente della difesa, il quale si è limitato ad evidenziare che, se astrattamente il disturbo bipolare di cui soffriva la parte offesa può consentire la circonvenzione, "nel contesto in cui si sono svolti i fatti sembrerebbe escluderla" (v.pag.7 della sentenza di primo grado).
Sulla scorta delle dichiarazioni dei medici curanti e degli altri testi escussi, la Corte ha quindi ritenuto, in perfetta adesione logica alle risultanze processuali e ai principi dettati in materia da questa Corte, che non sussistesse motivo alcuno per discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuto (attraverso una rigorosa analisi di dati clinici in perfetta sintonia con quanto rilevato dallo psichiatra curante) il consulente del pubblico ministero, e che le condizioni in cui da anni versava la donna rientrassero senz'altro nella nozione di "deficienza psichica" di cui all'art.643 c.p., che ricomprende qualsiasi minorazione della sfera volitiva ed intellettiva che agevoli la suggestiona biIità della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie (v.Cass.Sez.II, sent.n.24192/2010,Rv. v. 247463). Detta condizione di infermità era poi percepibile "a colpo d'occhio"a causa della "stranezza" della condotta della G., come riferito dal sindaco di Castrignano dei Greci, dall'impiegata della banca e dalla Fiorentino, che lavorava all'epoca in un bar frequentato dalla G. nelle rispettive deposizioni testimoniali (v.pag.6 della sentenza di primo grado).
In tema di circonvenzione di incapace, la prova dell'induzione non deve necessariamente essere raggiunta attraverso episodi specifici, ben potendo essere anche indiretta, indiziaria e presunta, cioè risultare da elementi gravi, precisi e concordanti come la natura degli atti compiuti e l'incontestabile pregiudizio da essi derivato (v.Cass.Sez.II, Sent. n. 48302/2004 Rv. 231275); e la sentenza è sul punto adeguatamente motivata avendo la Corte d'appello ampiamente illustrato la condotta dell'imputato posta in essere, prima e dopo il testamento della G. in suo favore fino al decesso della stessa. Il R., che la G. riteneva erroneamente un poliziotto, si era interessato della situazione patrimoniale della donna chiedendo delle visure catastali (v.dichiarazioni del teste Scordari a pag.6 della sentenza di primo grado) e fino alla stipula del testamento e ai primi mesi del 2008 aveva frequentato assiduamente la parte offesa (v.dichiarazioni R., C. e G. alle pagine 4, 5 e 6 della sentenza di primo grado); dopo il febbraio del 2008, si era quindi disinteressato completamento della donna e ciò nonostante le sue continue chiamate. Dal giorno successivo al decesso della G. si era poi adoperato con la massima solerzia per svolgere tutti gli adempimenti burocratici necessari per ottenere la più rapida esecuzione della volontà testamentaria (v.pag.11 della sentenza d'appello). L'attività di induzione del R. ha quindi avuto come risultato certo il compimento da parte della G. di atti con effetti giuridici dannosi per lei stessa e per i terzi: i prelievi dal conto corrente (mai eseguiti in passato con tale frequenza, e privi di qualsivoglia giustificazione) di somme rilevanti versate al R., unica persona all'epoca con un rapporto privilegiato (e che nello stesso periodo aveva fatto acquisti in contanti, come quello relativo a una pistola, compatibili con i prelievi effettuati), e il testamento. Circa il contestato carattere pregiudizievole dei testamento, basti rammentare che, ai sensi del tenore letterale dell'art. 643 c.p., il pregiudizio dell'atto può attingerne tanto l'autore (colpito dalla menomazione inferta alla propria libertà di testare) quanto altri ed è innegabile l'idoneità pregiudizievole, verso i successibili legittimi, del testamento che istituiva come erede universale l'odierno ricorrente (v.Cass.Sez. II, Sent. n. 6054/2012 Rv. 252705, citata anche dalla Corte territoriale).
Alla luce delle logiche e complete considerazioni svolte dalla Corte in ordine alla sussistenza di tutti gli elementi del reato di circonvenzione di incapace, del tutto irrilevante appare l'inciso circa la supposta attribuibilità (da parte del giudice del gravame) al notaio, anziché alla parte offesa, della clausola di cautela introdotta nel testamento.
L'assoluta genericità della clausola medesima fa pensare piuttosto che la stessa fu voluta proprio dalla parte offesa, e non dal professionista; ma l'argomento è del tutto irrilevante e inidoneo a intaccare la logicità delle argomentazioni sia in ordine alla capacità della parte offesa che all'attività di sfruttamento della debolezza della G. per raggiungere i suoi lucrosi fini da parte dell'imputato.
Anche il motivo sulla pena è infondato. La Corte, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, ha ben preso in esame la personalità dell'imputato sia alla luce del precedente per falsi materiali commessi tra il gennaio e il marzo 2011, sia delle modalità dei fatti (particolarmente insidiosi e protrattisi nel tempo) e dell'intensità dei dolo; evidenziando, altresì, come non potesse essere presa in considerazione in suo favore nemmeno la condotta processuale asseritamente consistita nell'aver indicato agli organi inquirenti il deposito presso l'ufficio postale di somme riconducibili alla vittima del reato. Trattasi di considerazioni esenti da evidenti vizi logici e ampiamente giustificative del diniego delle attenuanti generiche, che le censure del ricorrente, ai limiti della genericità, non valgono minimamente a scalfire.
Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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