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Sentenza

L’incapace di intendere e di volere può commettere reati a dolo diretto.
L’incapace di intendere e di volere può commettere reati a dolo diretto.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 27 febbraio – 23 aprile 2014, n. 17645
Presidente Siotto – Relatore Caprioglio

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 22.1.2013, la corte d'appello di Bari confermava la affermazione di colpevolezza di L.R. per il reato di omicidio in danno di C.A.M. e violazione art. 4 L. 110/1975, contenuta nella sentenza del gip del Tribunale di Foggia in data 16.2.2012, con cui il menzionato era stato condannato, ritenuta la diminuente di cui all'art. 89 cod.pen., alla pena di anni dieci di reclusione. La corte territoriale modificava la sentenza di primo grado solo in punto condanna al pagamento di provvisionale a favore delle parti civili.
Il fatto occorse il (omissis) ; il L. si era portato dai Carabinieri a bordo della sua auto chiedendo di essere arrestato e ammettendo di aver ucciso una donna che i carabinieri rinvenivano ancora con il coltello conficcato all'altezza del cuore, all'interno dell'auto, sul sedile lato passeggero. L'imputato aveva ammesso di aver ucciso la C. , con cui aveva una relazione da dieci anni, che gli aveva detto di essere rimasta incinta, pretendendo il matrimonio riparatore; peraltro egli era andato con un coltello all'incontro con lei, perché voleva spaventarla ed indurla ad abortire, salvo ammettere di aver colpito più volte perché la stessa non moriva. In sede di esame autoptico, era risultato che la vittima era morta a seguito di undici fendenti che cagionarono anemia acuta metaemorragica secondaria a ferita da punta e taglio penetrante la parete del ventricolo destro ed il tetto dell'atrio sinistro; presentava plurime ferite da punta e da taglio al collo, al torace e all'addome. In sede di perizia psichiatrica veniva accertato che il L. era affetto da gravi disturbi di personalità, caratterizzata da marcata immaturità ideo-affettiva e che erano presenti note di iniziale deterioramento mentale, con reazioni abnormi nevrotiche, ragion per cui era stata riconosciuta la diminuente di cui all'art. 89 cod.pen..
La corte riteneva che detta diminuente (di cui all'art. 89 cod.pen.) era assolutamente compatibile con il dolo omicidiario, richiamando arresti dei giudici di legittimità; il dolo diretto era stato desunto da indici obiettivi quali la natura del mezzo (coltello ben affilato), la pluralità dei colpi inferti, le zone attinte (tutte vitali), poiché imputabilità e colpevolezza costituiscono nozioni autonome ed operanti su diversi piani. Veniva quindi ribadito che sulla base degli elementi sopra riportati doveva ritenersi che il L. fosse stato animato da una volontà di morte, volontà confermata dalle sue stesse indicazioni, secondo cui desistette dall'infierire quando si accorse che la donna non si muoveva più. Circostanza che portava ad escludere l'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale.
Veniva esclusa l'attenuante della provocazione, poiché non risultava adeguatamente provato che il L. fosse stato offeso dalla vittima, gli epiteti riportati dall'imputato come indirizzati a lui dalla fidanzata, non venivano considerati causa scatenante di un accumulo di rabbia sfociato nell'omicidio, tanto più che lo stesso imputato disse di aver agito quando la C. gli disse di essere incinta e non volendo abortire, aveva insistito nel chiedere il matrimonio riparatore, cosicché egli si sentì come intrappolato.
La Corte quindi rigettava l'appello dell'imputato sul merito e sulla entità della pena che era stata quantificata nella misura intermedia tra il minimo ed il massimo, mentre accoglieva quello delle parti civili sulla provvisionale che veniva liquidata.
2. Avverso tale decisione, interponeva ricorso per cassazione l'imputato pel tramite del suo difensore, per dedurre violazione di legge e vizi motivazionali: veniva lamentato che il reato non fosse stato qualificato in termini di omicidio preterintenzionale, considerato che la patologia mentale alterata contribuì ad incidere negativamente sulle capacità di volizione, determinando uno scardinamento delle labili capacità di controllo della propria impulsività. L'accertamento del dolo solo sulla base dei parametri obiettivi suindicati non era condivisibile, non potendo essere sostenuto che l'indagine svolta in detti termini avesse offerto dimostrazione certa della volontà omicidiaria. Il ricorso a schemi presuntivi non sarebbe stato consentito in una situazione quale quella di specie, in cui vi erano circostanze che lasciavano supporre una deviazione dal modo in cui andavano normalmente le cose. Secondo la difesa andavano considerati altri dati soggettivi, quali il movente, l'indole del reo, i rapporti con la vittima, il comportamento antecedente e contemporaneo all'azione di entrambi i soggetti coinvolti, le condizioni psicofisiche dell'imputato. Per contro, l'accertamento condotto avrebbe portato ad una spersonalizzazione della responsabilità penale e ad una oggettivizzazione della misura del dolo, in evidente violazione dei principi cardine del sistema penale. Conducendo un'indagine ad ampio spettro, si sarebbe dovuto giungere a stabilire una chiara connessione tra disturbo di personalità del L. , disarmonia strutturale ed omicidio. In tale prospettiva, la reazione del ricorrente doveva apparire sproporzionata, immotivata, espressione del disturbo mentale da cui andava affetto, non essendo stato in grado di gestire la nuova situazione che gli si profilava davanti. Pertanto, il tipo di disturbo di personalità di cui era sofferente l'imputato andava considerato di natura tale da interferire sulla capacità di intendere e volere, essendo incidente sul nesso eziologico nella condotta criminosa, poiché per effetto dei disturbi, il reato andava ritenuto causalmente determinato.
Veniva rilevato che non sarebbe stato adeguatamente motivato quanto al mancato riconoscimento dell'attenuante della provocazione, atteso che detta attenuante discendeva non solo dagli epiteti profferiti all'indirizzo dell'imputato dalla C. , ma il riferimento avrebbe dovuto andare alle globali condizioni in cui si sviluppò il rapporto tra i due (imputato e vittima) ed all'impossibilità di prescindere dalla valutazione di alcune circostanze, quali il basso livello culturale, che avrebbe influenzato non poco il modo di relazionarsi dei due, che avvenne per anni in segreto. Il turbamento psichico dell'imputato fu tale da portarlo ad agire in una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che determinò in lui la perdita di controllo, generando un turbamento connotato da impulsi aggressivi.
Veniva quindi obiettato che i giudici del merito avrebbero dovuto evitare un'eccessiva rigidità in tema di imputabilità ed avrebbero dovuto ampliare la valutazione quanto all'opportunità di punire in misura proporzionata alla particolare sensibilità dell'imputato nei confronti della sanzione; veniva insistito che sarebbe stata preferibile una scelta sanzionatoria più mite, di contenimento della pena entro i limiti edittali.
3. È stata medio tempore depositata memoria difensiva delle parti civili, con cui è stata contestata la prospettazione difensiva, secondo cui il reato dovrebbe essere riguardato sotto la rubrica dell'omicidio preterintenzionale; la difesa di parte civile ribadisce che la corte barese ha correttamente ricondotto la violenta azione nell'alveo dell'omicidio volontario, attesa la consapevole volontà del L. di procurare alla vittima non solo una lesione nel corpo, ma la morte. Tanto è vero che ebbe a portare la donna in luogo appartato, distante dal centro abitato e fingendo un rapporto sessuale estrasse all'improvviso il coltello e pugnalò per ben undici volte la donna perché non voleva morire, lasciando conficcato nel cuore il coltello usato.
Viene ribadito che corretta sono state la valutazione sulle condizioni mentali dell'imputato da un lato e l'esclusione della provocazione dall'altro, atteso che la reazione del L. fu sotto ogni profilo talmente inadeguata ed eccessiva, da fare correttamente escludere la sussistenza del nesso causale tra offesa, sia pure potenziata dall'accumulo, e reazione.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Corretta è stata la qualificazione della condotta in termini di omicidio volontario fondato su un dolo diretto e non di omicidio preterintenzionale, considerato che come è stato spiegato a pag. 15 della sentenza, il numero delle coltellate (sette), il tipo di arma usata (un coltello con lama lunga 16 centimetri, ben affilata), la sede attinta (collo, emitorace, regione mammaria e quadranti addominali), le conseguenze arrecate, le stesse dichiarazioni rese dall'imputato sull'aver continuato a colpire perché la donna non moriva e quindi di aver infierito fino a che questa non si muoveva più, erano tutti dati inequivocabilmente dimostrativi di una volontà diretta ad uccidere, assolutamente distinta dall'animus di colui che voglia solo colpire e che per colpa abbia a provocare la morte. La valutazione di tali elementi alla stregua di segnali inequivocabili del dolo omicidiario, appare dunque incensurabile in questa sede, perché accurata e plausibile. Le ragioni dell'insano gesto erano state disvelate dallo stesso imputato, che aveva dichiarato che la giovane donna gli aveva rivelato di essere incinta ed aveva chiesto il matrimonio riparatore, cosicché egli si era sentito come in trappola, incapace di gestire la situazione difficile che si andava profilando, soprattutto con la sua famiglia, all'oscuro della relazione che egli intratteneva in segreto con la vittima.
Non poteva portare ad opinare diversamente il solo fatto che il L. fosse soggetto con limitata capacità di intendere e volere, considerato che è principio pacifico quello secondo cui la seminfermità mentale è compatibile con il dolo generico, in tema di omicidio volontario (Sez. I, 8.10.2009, n. 41357, Rv 245043, Sez. VI, 13.10.2011, n. 47379). Con detto arresto è stato chiarito che seminfermità e dolo sono due concetti che operano su piani diversi, atteso che il primo attiene all'imputabilità del soggetto, secondo la nozione fornita dall'art. 85 c.p. e cioè ad una condizione personale, il cui contenuto è la capacità d'intendere e volere, mentre il secondo afferisce al rapporto fra la volontà del soggetto ed un determinato atto, previsto dalla legge come reato. Il reato commesso da un seminfermo di mente del resto non si sottrae all'indagine relativa alla sussistenza dell'elemento psicologico, per accertare se il fatto sia o meno attribuibile alla volontà dell'agente. È stato infatti ripetuto che non vi è contrasto logico tra l'ammettere la seminfermità mentale e il ritenere provati la coscienza e volontà del fatto, ancorché diminuite. È stato detto (da ultimo vedi anche Sez. VI, 9 aprile 2010, n. 34333) che "il rapporto tra l'imputabilità ed il reato è di assoluta indipendenza, nel senso cioè che il reato è configurabile a prescindere dalla capacità d'intendere e di volere del suo autore, dal che consegue coerentemente la piena autonomia tra le nozioni di imputabilità e di colpevolezza". Peraltro deve essere rilevato che ciò detto, i giudici del merito non hanno affatto trascurato, come sostenuto dalla difesa, l'indagine in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in relazione al comportamento in concreto tenuto dall'agente e all'eventuale incidenza che la condizione alterata può avere avuto sulla sua rappresentazione delle conseguenze di detto comportamento, posto che la sentenza impugnata ha esaurientemente valutato l'azione all'atto del suo manifestarsi, concludendo ragionevolmente nel senso che la situazione mentale disturbata del ricorrente, pur avendo inciso, diminuendola, sull'imputabilità, non era tale da alterare del tutto la capacità di riconoscere la gravità dell'atto compiuto, in un contesto in cui ebbero a prevalere esigenze di rimozione definitiva del problema che si andava delineando, che spinsero l'imputato ad una reazione nevrotica abnorme, direttamente collegata alla minorata capacità. Veniva sul punto ribadito che era stato lo stesso imputato ad aver riferito di aver colpito fino a che non intervenne il decesso della donna, per cui non poteva essere messa in discussione la volontà omicidiaria confessata dallo stesso interessato.
Quanto all'incidenza dei rilevati disturbi mentali in misura totalmente obnubilante, i giudici del merito seguivano le indicazioni del consulente del pm che aveva escluso tale ipotesi, evidenziando un quadro di immaturità ideo affettiva, tratti dipendenti di personalità, note psicodiagnostiche di iniziale deterioramento mentale che scemavano, ma non escludevano la capacità.
Corretto è stato avere escluso la ricorrenza dell'invocata attenuante della provocazione, atteso che le indicazioni fornite dall'imputato sull'aver accumulato frustrazione ed ira dal fatto di essere stato svillaneggiato dalla vittima con epiteti, quali "scemo" o "mongoloide", erano ritenute correttamente del tutto prive di riscontro ed in aperto contrasto con il fatto che lo stesso imputato aveva rivelato che la sollecitazione all'omicidio fu rappresentata dalla manifestata volontà di non abortire e di pretendere il matrimonio riparatore ("Non voleva abortire, sono passato subito ai fatti, ho preso il coltello che stava dietro"). Pertanto corretta è stata l'impostazione dei giudici a quibus che hanno escluso l'incidenza nella spinta omicidiaria degli epiteti offensivi, in ipotesi indirizzatigli dalla vittima.
Per quanto poi attiene alla misura della pena, nessun rilievo critico è consentito avanzare in questa sede, atteso che i giudici del merito hanno motivato in modo assolutamente adeguato e completo, evidenziando il contemperamento tra gli opposti profili (condizioni soggettive dell'imputato, gravità del fatto), ritenendo congrua una pena base pari alla misura intermedia tra il minimo ed il massimo, valutazione che rientra nella plausibile opinabilità di apprezzamento e che non può essere rivista in sede di legittimità.
Al rigetto del ricorso deve seguire la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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