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Sentenza

Una donna concorda con una extracomunitaria clandestina e in gravidanza la cessione per soldi della nascitura.
Una donna concorda con una extracomunitaria clandestina e in gravidanza la cessione per soldi della nascitura.
Autorità:  Cassazione penale  sez. VI
Data udienza:  09 ottobre 2012
Numero:  n. 40610
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE SESTA PENALE                         
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. DE ROBERTO Giovanni       -  Presidente   -                    
Dott. CORTESE    Arturo         -  Consigliere  -                    
Dott. CARCANO    Domenico       -  Consigliere  -                    
Dott. CAPOZZI    Angelo         -  Consigliere  -                    
Dott. DI SALVO   Emanuele       -  Consigliere  -                    
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sui ricorsi proposti da: 
         C.A. e                Cu.Vi.; 
avverso   la   sentenza  19  luglio  2010  della  Corte  di   appello 
dell'Aquila; 
Visti gli atti, la sentenza denunciata ed i ricorsi; 
Udita  in  pubblica  udienza la relazione  fatta  dal  Presidente  De 
Roberto; 
Udite  le  conclusioni  del  Pubblico ministero,  nella  persona  del 
Sostituto  Procuratore Generale, Dott. VIOLA Alfredo Pompeo,  che  ha 
concluso per la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi.  Uditi 
i  difensori, avvocati Vincenzo Retico per il          Cu. e  Aldo 
Silvio  Pascale, in sostituzione dell'avvocato Fernando Romolo Longo, 
per la       C.. 
Fatto
OSSERVA
1. Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Avezzano, in esito a giudizio abbreviato, affermava la penale responsabilità di Cu.Vi., Z.S. e C.A. in ordine al reato di cui all'art. 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, e art. 567 c.p., comma 2, commesso in concorso tra loro nonchè con K.I. e D.M., separatamente giudicati;
più precisamente, la K., concordando con la Z. - cittadina extracomunitaria clandestina e in stato di gravidanza - la cessione venale della nascitura alla coppia di cittadini italiani D.- C., e la K., a sua volta, concordando con la coppia la cessione della nascitura, assicurandola, durante la gestazione, del buon esito dell'"affare", ponendoli in contatto con Cu.Vi. (dal quale aveva fatto illegalmente assumere la Z. presso cui costei dimorava) e rassicurando ancora quest'ultima che il Cu. non si sarebbe appropriato della somma pattuita per la cessione, il Cu., intervenendo nella cessione mediante richiesta alla coppia della iniziale somma di almeno 3.000 Euro, gestendo in proprio la cessione della nascitura, avvisando il D. della nascita della neonata ed attendendo in ospedale, quindi consegnando materialmente la neonata stessa alla coppia D.- C., col condurla a casa della coppia stessa, la Z., dichiarando in ospedale che il padre della neonata era il D. e consegnando materialmente la bimba al Cu. perchè la affidasse alla coppia, la C. consegnando la somma di almeno 2.000 Euro al Cu. per la cessione della neonata e mantenendo tutti i contatti tanto con la K. quanto con il Cu., il D. riconoscendo falsamente la paternità della neonata, circostanza nota e concordata fra tutti gli imputati; in concorso, fra loro, dunque, mediante i comportamenti sopra descritti, alteravano lo stato civile della neonata partorita il (OMISSIS) dalla Z., facendo risultare negli atti dello stato civile il D. come padre naturale della bambina, attribuendole il falso nome di D.M.E.; con la stessa sentenza i predetti imputati venivano condannati altresì per il delitto di cui all'art. 110, art. 112, n. 1, L. n. 184 del 1983, art. 71, commi 1 e 5, ed il Cu. anche del delitto di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, perchè, al fine di trarre profitto dalla condizione di clandestinità delle cittadine extracomunitarie Z.S., tale " L.", " La." e altre donne non meglio individuate che faceva servire presso il proprio ristorante, cucinare, pulire le abitazioni dei terzi, da cui si faceva coadiuvare nel lavoro edile in qualità di operaie senza corrisponderle quanto dovuto e comunque retribuendole sporadicamente e in difetto promettendo la loro regolarizzazione, ne favoriva la permanenza nel territorio dello Stato.
A seguito di impugnazione di tutti gli imputati giudicati con rito abbreviato, la Corte d'appello dell'Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva Cu.Vi., Z.S. e C.A. dal delitto di cui all'art. 110, art. 112, n. 1, L. n. 184 del 1983, art. 71, commi 1 e 5, con conseguente riduzione della pena, confermando nel resto.
2. Ora ricorrono per cassazione il Cu. e la C..
2.1. Il Ch. ha articolato cinque ordini di motivi.
Con il primo lamenta violazione dell'art. 191 c.p.p., comma 2, art. 405 c.p.p., comma 2, e art. 407 c.p.p., comma 3, sia per la tardiva iscrizione del ricorrente nel registro delle notizie di reato sia per il superamento del termine per le indagini dopo l'avvenuta iscrizione, senza che alcuna proroga fosse stata richiesta, con conseguente inutilizzabilità di tutte le prove raccolte a suo carico a far data dal 4 novembre 2004 e, più in particolare, delle conversazioni intercettate con riferimento ad entrambi i reati per cui è intervenuta condanna.
Con il secondo denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità per l'addebitato concorso nell'alterazione di stato, fondato esclusivamente su interessate dichiarazioni confessorie dei coimputati (relativamente alla cui attendibilità intrinseca mancherebbe ogni verifica, e prive di riscontri), su intercettazioni telefoniche risalenti ad un periodo antecedente alla consumazione del reato, su indagini bancarie sprovviste di rilevanza (erano stati riscontrati, soltanto prelievi da parte della C.) senza assegnare immotivatamente alcun credito alle discolpe del Ch., coinvolto nella vicenda solo al fine di indebolire la posizione dei chiamanti in correità.
Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e mancanza di motivazione in punto di responsabilità per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5.
Con un quarto motivo si deduce omessa motivazione quanto alla mancata applicazione dell'art. 114 c.p., comma 1, e, con un quinto motivo ci si lamenta del diniego delle circostanze attenuanti generiche e dalla misura della pena.
2.2. La C. deduce violazione dell'art. 567 c.p., per l'assenza di ogni elemento di prova sulla compartecipazione della ricorrente al reato, che si sarebbe comunque consumato con la falsa dichiarazione così, oltre tutto, omettendo di qualificare il contegno addebitato come di mera connivenza. Al più, la condotta della C. si sarebbe dovuta qualificare alla stregua del precetto di cui al L. n. 184 del 1983, art. 71.
I ricorsi sono inammissibili.
3. Con riferimento al Ch., la doglianza concernente l'omessa tempestiva iscrizione della notitia criminis riferita alla sua persona nel registro delle notizie di reato è manifestamente priva di fondamento. Costituisce, infatti, ius reception nella giurisprudenza di questa Corte Suprema il principio secondo cui l'omessa annotazione della notitia criminis nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p., con l'indicazione del nome della persona raggiunta da indizi di colpevolezza e sottoposta ad indagini "contestualmente ovvero dal momento in cui esso risulta", non determina l'inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti sino al momento dell'effettiva iscrizione nel registro, poichè, in tal caso, il termine di durata massima delle indagini preliminari, previsto dall'art. 407 c.p.p., al cui scadere consegue l'inutilizzabilità degli atti di indagine successivi, decorre per l'indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie di reato, e non dalla presunta data nella quale il pubblico ministero avrebbe dovuto iscriverla; precisandosi che l'apprezzamento della tempestività dell'iscrizione, il cui obbligo nasce solo ove a carico di una persona emerga l'esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti, rientra nell'esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è sottratto, in ordine all'an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando l'ipotizzabilità di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del pubblico ministero negligente (Sez. un., 21 giugno 2000, Tammaro; cfr., altresì, Sez. 5^, 18 ottobre 1993, Croci; Sez. 6^, 24 ottobre 1997, Todini; nonchè Sez. un., 11 luglio 2001, Chirico; Sez. 6^, 18 maggio 2005, Romeo).
Manifestamente infondato è anche il secondo profilo di censura, incentrato sul superamento del termine per le indagini. Occorre, in proposito rammentare che la giurisprudenza di questa Corte è costante nel senso che l'inutilizzabilità prevista dall'art. 407 c.p.p., comma 3, non può essere equiparata a quella di cui all'art. 191 c.p.p.; con la conseguenza che, con riferimento agli atti di indagine preliminare compiuti dopo la scadenza del termine non opera il principio della rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ma il diverso principio della rilevabilità su eccezione di parte, la quale potrebbe avere anche un interesse opposto alla inutilizzabilità (Cass., 17 marzo 1992, Ballerini;
Cass., 28 aprile 1998, Maggi). Con la conseguenza che la scelta del giudizio abbreviato preclude all'imputato la possibilità di eccepire l'inutilizzabilità degli atti di investigazione compiuti dopo la scadenza dei termini per le indagini preliminari; ed infatti, l'inutilizzabilità prevista dall'art. 407 c.p.p., comma 3, non è equiparabile alla inutilizzabilità di cui all'art. 191 c.p.p., poichè l'una è riferita agli atti di indagine e l'altra è riferita alle prove; con riguardo, dunque, agli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari non opera il principio della rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, bensì il diverso principio della rilevabilità su eccezione di parte, la quale potrebbe avere anche interesse alla loro utilizzabilità (v. Sez. 6^, 19 dicembre 2011, Inzitari; Sez. 6^, 24 febbraio 2009, Abis). La conseguenza è, dunque, nel senso che l'inutilizzabilità degli atti di indagine prevista per il caso in cui tali atti siano stati effettuati dopo la scadenza dei termini prescritti non opera nel giudizio abbreviato nel quale la scelta dell'imputato di essere giudicato allo stato degli atti in cambio di un più favorevole trattamento sanzionatorio in caso di condanna comporta l'accettazione di tutte quelle situazioni patologiche che non coincidano con l'inutilizzabilità assoluta (cfr.
Sez. 6^, 15 dicembre 2011, Barba; ma anche la ratio decidendi di Sez. un. 30 giugno 2000, Tammaro).
Il secondo motivo del Ch., con il quale lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità per l'addebitato concorso nell'alterazione di stato è davvero non consentito, tendendo ad una diversa ricostruzione dei fatti e delle prove ampiamente scrutinate dal giudice a quo, così da essere annoverato fra le cause di inammissibilità previste dall'art. 606 c.p.p., comma 3.
Altrettanto inammissibili si rivelano le censure, per giunta talora neppure provviste del necessario requisito della specificità, concernenti la mancata applicazione dell'art. 114 c.p., la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la misura della pena, in ordine alle quali si sono ampiamente diffuse sia la sentenza di primo grado sia la sentenza di appello.
4. Una identica sorte va assegnata al ricorso della C.: il suo attivo ruolo causale alla realizzazione del fatto di reato vale a confinare la censura fra quelle che impongono una vera e propria absolutio ab instantia, essendo risultata la donna, come emerge dalla sentenza impugnata (oltre che dalla decisione di primo grado), parte attiva della seriazione comportamentale conclusasi con il fatto criminoso di cui all'art. 567 c.p.. Quanto poi all'ipotizzabilità del meno grave reato di cui alla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 71, appare decisiva la considerazione che la condotta di chi riceve un minore uti filius attraverso il falso riconoscimento di paternità naturale, sia pure attraverso il pagamento di una somma di danaro od altra utilità integra il reato di alterazione di stato e non quella prevista dalla norma di cui al ricordato precetto della L. n. 184 del 1983, il quale - pur configurando una ipotesi di reato "proprio", sanziona non l'attività che consiste nel "ricevere" ma quella che consiste nel cedere in affidamento il minore o nell'avviarlo all'estero, mentre la previsione dell'art. 71, comma 5, che estende la sanzione a chi "riceve" il minore in illecito affidamento con carattere di definitività, ha per oggetto soltanto l'attività di fatto preordinata ad una futura adozione (cfr. Sez. Fer., 10 settembre 2004, Braidich). Oltre tutto, le conversazioni intercettate che descrivono il contributo causale della C., escludono, come si ricava dalle argomentazioni dei giudici di merito, non censurabili in sede di legittimità, che le doglianze possano eccedere la richiesta di una rivalutazione dei fatti e delle prove, come tale, inaccessibile al giudizio di legittimità.
5. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di ciascuno di essi al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in Euro mille.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2012
Avv. Antonino Sugamele

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