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Sentenza

L'imputato non si limita a sostenere l'insussistenza dell'accusa nei suoi confronti ed accusa altri che sa innocenti.
L'imputato non si limita a sostenere l'insussistenza dell'accusa nei suoi confronti ed accusa altri che sa innocenti.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 17 novembre – 21 dicembre 2016, n. 54457
Presidente Ippolito – Relatore Villoni

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Messina ha ribadito la responsabilità, già affermata in primo grado, di M.G. in ordine al reato di calunnia in danno di R.N. e L.M. (artt. 368, 61 n. 9 cod. pen., capo 3 dell'imputazione) e di D.S.N. per violazione delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale (art. 9, comma 2 legge n. 1423 del 1956, capo 5), rideterminando la pena nei confronti del primo imputato a motivo dell'assoluzione dal concorrente reato di cui all'art. 326 cod. pen. ed applicando nei confronti del secondo la misura di sicurezza della libertà vigilata di un anno in relazione alla ritenuta violazione dell'art. 115, comma 2 cod. pen. (accordo per commettere un delitto).2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, che deducono rispettivamente i seguenti motivi.
2.1 M. Il ricorrente deduce di essere stato condannato già in primo grado per fatto diverso da quello contestatogli, atteso che l'originaria imputazione mossa a suo carico era quella di abuso d'ufficio aggravato, commesso in concorso con S.M. (artt. 110, 323, 61 comma 1 n. 2 cod. pen.).Allega anche di avere tempestivamente dedotto con l'atto di appello (pagg. 24 e 26-27) che il Tribunale non avrebbe potuto condannarlo per il diverso titolo di reato, implicando l'operazione un radicale mutamento del fatto storico, ciò nonostante dovendo registrare l'affermazione della Corte territoriale secondo cui la difesa non aveva contestato “sotto il profilo processuale l'avvenuta riqualificazione del delitto originariamente contestato di cui all'art. 323 cod. pen.” (pag. 4 sentenza impugnata).Il ricorrente ribadisce che il reato per cui è intervenuta condanna è diverso da quello originariamente contestatogli, tenuto conto dei differenti elementi costituitivi delle due fattispecie e che i giudici di merito hanno surrettiziamente modificato l'originaria imputazione, violando gli artt. 521 e 522 cod. pen. oltre che varie norme del diritto dell'Unione Europea e convenzionali internazionali.
L'originaria imputazione di abuso d'ufficio non contiene, infatti, gli elementi costitutivi del delitto di calunnia né quelli della circostanza aggravante di cui all'art. 61, comma 9 cod. pen..
Con riferimento alla calunnia manca, inoltre, l'elemento costitutivo della denuncia di un reato determinato, atteso che l'esposto indicato nell'originaria imputazione fa generico riferimento a presunti illeciti; nella stessa imputazione figurava, altresì, l'avvenuta produzione di un danno ingiusto che non rappresenta, invece, elemento costitutivo della calunnia; gli si contestava, inoltre, di avere commesso il fatto nello svolgimento delle funzioni, elemento per contro non richiesto ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante di cui all'art. 61, comma 1 n. 9 cod. pen., secondo la corrente interpretazione fornitane dalla giurisprudenza.
Sempre con riferimento alla calunnia, mancava poi nell'imputazione originaria l'indicazione della consapevolezza da parte dell'imputato dell'innocenza delle persone asseritamente accusate, che connota l'essenza del relativo dolo.
In via subordinata e per l'ipotesi in cui venga stabilito che le sentenze di merito hanno proceduto ad una mera riqualificazione giuridica del fatto, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 6 § 3 lett. a) della Convenzione EDU alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo formatasi sul tema del diritto dell'imputato ad essere informato in maniera dettagliata ed in tempo utile, non soltanto dei fatti materiali che gli vengono contestati e sui quali l'accusa si fonda, ma anche della qualificazione giuridica dei fatti medesimi, nel rispetto del diritto ad un equo pro-cesso garantito dal citato art. 6.Sotto detto profilo deduce, pertanto, la violazione degli artt. 521, comma 1 e 597, comma 3 cod. proc. pen. in relazione all'omessa informazione, preventiva e tempestiva, ricevuta della modifica dell'accusa in maniera atta a consentirgli l'esercizio di un'adeguata difesa.
Il ricorrente deduce, inoltre, la violazione dell'art. 6 della Direttiva 2012/13/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell'Unione Europea del 22 maggio 2012 sul diritto all'informazione nei procedimenti penali che stabilisce prescrizioni analoghe a quelle stabilite dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dello Uomo, testo normativo di cui invoca l'applicabilità diretta, atteso il grado di sufficiente precisione delle previsioni ivi contenute e il carattere incondizionato degli obblighi in tal senso imposti agli Stati membri dell'Unione.
Si deduce, infine, l'erronea applicazione dell'art. 368 cod. pen. e l'inosservanza dell'art. 49 cod. pen., evidenziandosi che l'esposto inoltrato all'autorità giudiziaria era stato subito archiviato, non avendo in alcun modo messo in pericolo il bene giuridico protetto poiché del tutto inidoneo a determinare l'apertura di un procedimento penale.
Residui profili di censura riguardano nuovamente il dolo del ritenuto delitto di calunnia, denunciandosi la mancata acquisizione di prove sufficienti a stabilire la falsità delle accuse mosse con l'esposto ovvero la sussistenza della consapevolezza di detta falsità nonché dell'innocenza delle persone accusate, profili sui quali la Corte territoriale ha, peraltro, omesso del tutto di argomentare o ha svolto considerazioni palesemente contraddittorie.
2.2 D.S. .
Tale ricorrente deduce difetto totale di motivazione riguardo ai criteri di determinazione della pena, nonostante l'espresso motivo di gravame articolato con l'atto di appello e l'entità di una sanzione che si discosta in maniera sensibile dal limite minimo edittale; deduce, inoltre, difetto di motivazione in ordine ai presupposti dell'applicazione della misura di sicurezza di cui all'art. 115, comma 2 cod. pen., non avendo la Corte territoriale svolto alcuna argomentazione riferita né alla sua personalità né alla sussistenza di aspetti di pericolosità sociale, sola atta a giustificare l'imposizione della misura.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono entrambi fondati per le ragioni indicate in motivazione.
2. Ricorso M. .
Tutte le doglianze formulate dal ricorrente riguardo alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza espresso dall'art. 521 cod. proc. pen. risultano pertinenti e fondate.
L'imputato è stato originariamente accusato del reato di abuso d'ufficio aggravato in concorso con S.M. (artt. 61, comma 1, 110, 323 cod. pen.), abuso consumatosi con il redigere unitamente a quest'ultimo un falso esposto anonimo concernente il laboratorio di analisi gestito dalle d.sse R.N. e L.M. (dalla cui gestione lo S. era stato estromesso) in cui si denunziavano presunti illeciti ivi commessi e con l'allegare tale esposto ad una nota a sua firma inoltrata alla Procura della Repubblica di Messina, così cagionando alle parti offese un danno ingiusto di rilevante gravità.
Il Tribunale e la Corte d'appello hanno, invece, ravvisato nella condotta il diverso delitto di calunnia, osservando i giudici sia di primo che di secondo grado che il fatto storico in addebito è rimasto inalterato e sostenendo, altresì, la Corte d'Appello che l'imputato non avrebbe contestato “sotto il profilo processuale la avvenuta riqualificazione del delitto originariamente contestato di cui all'art. 323 cod. pen.”, imperniando le proprie censure “su una mancanza di consapevolezza della falsità delle accuse e comunque sull'inidoneità offensiva dell'azione” (pag. 4 sent. impugnata).
Entrambi gli assunti sono destituiti di fondamento.
Va in primo luogo rilevato che alla fine della pag. 26 ed all'inizio della pag. 27 dell'atto di appello, veniva espressamente dedotto che “la riqualificazione del reato appare una forzatura, tanto che dalle risultanze probatorie emerge chiaro che (...) nel fatto (sic), né la condotta, né l'evento e né la psiche risultano aderenti al fatto così come contestato nei capi d'imputazione e pertanto se ne fa specifica doglianza”.
Ferma restando, perciò, la tempestività dell'eccezione, non può essere per nulla condiviso l'assunto che il fatto storico per cui è stata pronunciata condanna sia rimasto inalterato.
Il delitto di abuso d'ufficio implica, infatti, la compresenza di due elementi costitutivi indefettibili, il primo rappresentato dalla condotta abusiva, che può atteggiarsi in termini vari ed articolati, ferma restando la violazione di un parametro di natura normativa o regolamentare e l'altro dall'evento costituito dallo ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o a terzi ovvero dal danno ingiusto arrecato ad altri.
Delitto di evento, dunque, tale conformato dalla radicale modifica apportata dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997 n. 234 con il deliberato intento di impedire che l'intervento del giudice penale si trasformasse in una indebita valutazione della discrezionalità spettante alla Pubblica Amministrazione, sindacabile come tale e a determinate condizioni in distinta sede processuale.
Del tutto diversa è evidentemente la struttura del delitto di calunnia (art. 368 cod. pen.), reato di pericolo e non di evento che postula la deliberata attribuzione a taluno di un reato con la consapevolezza della sua innocenza ovvero la simulazione a suo carico di tracce del reato stesso.
Già il mero confronto tra gli elementi costitutivi dei due reati ne evidenzia la differenza strutturale e fa giustizia dell'affermazione dei giudici di merito che il fatto storico in addebito sarebbe rimasto inalterato.
Secondo l'originaria imputazione di abuso d'ufficio, infatti, le parti offese d.sse N. e L. sarebbero state danneggiate mediante denunzia anonima con cui si evidenziavano presunti illeciti - di natura e attribuzione specifica imprecisata stando all'imputazione - asseritamente consumatisi all'interno del laboratorio analisi dalle stesse gestito.
Secondo la sentenza impugnata, invece, l'esposto anonimo non enunciava mere irregolarità ma adombrava “gravi e concreti illeciti penali, soprattutto quanto alla falsità di esami per mancato acquisto dei materiali necessari alle analisi ed alla conseguente truffa in danno del SSN e dei privati” (pag. 4).
È dunque sufficiente evocare tale precisazione, impiegata per definire i contorni della condotta calunniosa, per evidenziare il mutamento sostanziale della accusa, come ricordato, invece, del tutto generica nel riferimento a non meglio indicati illeciti.
Né poi è dato dimenticare l'ulteriore e fondamentale profilo per cui, ai fini della consumazione della calunnia, occorre la specifica e circostanziata attribuzione di un fatto costituente reato a persona identificata o facilmente identificabile di cui sia nota l'innocenza. L'elemento indefettibile del delitto di calunnia consiste, infatti, nell'incolpazione, specifica e circostanziata, di taluno di cui si conosce l'innocenza di un fatto concreto, da cui derivi la possibilità di inizio di un'indagine penale a suo carico da parte dell'autorità (Sez. 6, sent. n. 5574 del 19/03/1998, Ruggeri, Rv. 210652), elemento, invece, del tutto assente nella fattispecie contestata.
Dal punto di vista dell'imputazione originaria di abuso d'ufficio, va pure rilevato che in essa figurava la descrizione di un elemento (il danno ingiusto) che non rappresenta evidentemente elemento costitutivo della calunnia e che di conseguenza ha finito inevitabilmente per eclissarsi dallo scenario della verifica giudiziale.
Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, inoltre, difettava in tale imputazione l'indicazione della consapevolezza da parte dell'imputato dell'innocenza delle persone asseritamente accusate, che connota, invece, l'essenza del dolo della calunnia.
Per il complesso delle superiori considerazioni, deve concludersi che stando alla nozione elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione riguardo al concetto di identità del fatto, considerato nei suoi tradizionali elementi costitutivi di condotta, evento e nesso causale - concetto unitario tanto se evocato in funzione preclusiva di un secondo giudizio ex art. 649 cod. proc. pen. (è d'uopo il richiamo a Sez. U, sent. n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799) quanto ai fini del rispetto del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 521, commi 1 e 2 cod. proc. pen. - l'operazione condotta dalla Corte territoriale si pone al di fuori dei canoni interpretativi condivisi.
Se, infatti,  (Sez. 1, sent. n. 24213 del 13/03/2013, Pacchiarotti e altri, Rv. 255825; Sez. 6, sent. n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo e altri, Rv. 241189; Sez. 6, sent. n. 2925 del 18/11/1999, dep. 2000, Baragiani, Rv. 21733301), con lo speculare corollario secondo cui
Avv. Antonino Sugamele

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