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Sentenza

Compravendita di neonato. Riduzione in schiavitù o alterazione di stato?
Compravendita di neonato. Riduzione in schiavitù o alterazione di stato?
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 luglio 2015 – 18 gennaio 2016, n. 1795
Presidente Lapalorcia – Relatore Fumo

Ritenuto in fatto

1.I1 PM presso la direzione distrettuale antimafia di Messina ricorre avverso il provvedimento in epigrafe riportato, con il quale il TdR di Messina, in parziale accoglimento della richiesta di riesame proposta nell'interesse di G.R.F., ha riqualificato l'originaria provvisoria imputazione in quella ex artt. 110, 56, 495 cpv. n. 1 cp, sostituendo la custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari.
2.La originaria richiesta dell'Ufficio di Procura faceva riferimento ai delitti ex artt. 416 comma VI cp (capo A) e 110, 56. 600 cp (capo B) articolati come segue: capo Al perché si associava con i soggetti sotto indicati e con altri allo scopo di commettere una serie indeterminata di reati di cui all'art. 600 c.p. In particolare C.N.C. e C.N. L.M., per il tramite di N.V., si avvalevano della intermediazione di G.R. A., G.R.F. e C. V. per procurarsi minori provenienti dal territorio nazionale o da paesi esteri (in particolare Romania) con lo scopo dì acquistarli uti fi/ii verso il pagamento di una somma di denaro, così esercitando sugli stessi minori poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà. In tale attività si avvalevano del contributo di R. J. e R. I.R., madre naturale e fratello dei minore R. F.L., oggetto di compravendita. capo BI perché, in concorso come sopra, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a esercitare su un minore poteri corrispondenti al diritto dì proprietà In particolare C.N.C. e C.N. L.M., per il tramite di N.V., si avvalevano della intermediazione di G.R. A., G.R.F. e C. V. per procurarsi un minore proveniente dalla Romania con lo scopo di acquistarlo uti filius verso pagamento di una somma di denaro, minore ceduto dalla madre naturale R. J. e con il concorso del fratello R. L. R..
3.I1 competente GIP, tuttavia, non ravvisando gli estremi del delitto associativo e riqualificato il delitto del capo B) ai sensi dell'art. 602 cp, emetteva ordinanza custodiale solo con riferimento a tale ultimo capo.
4.L'Organo dell'accusa ricorrente deduce violazione di legge per erronea qualificazione giuridica della condotta dell'indagato, sostenendo che il TdR ha fatto proprio un orientamento del giudice di legittimità che, alla luce della littera legis, delle recenti modifiche normative e degli impegni assunti dall'Italia in sede comunitaria e internazionale, non può essere condivisa. Invero recentemente la stessa corte di cassazione ha chiarito che la condizione analoga alla schiavitù, di cui all'art. 600 cp, non indica una situazione disciplinata in tassative previsioni legislative, ma lo stato di una persona sulla quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà. Quando, nei rapporti interpersonali, un individuo ha un potere pieno e incontrollato su di un altro, la fattispecie di cui all'art. 600 cp resta integrata. Tale è stata la condotta degli indagati nei confronti del minore rumeno R. Fernando, che, contro pagamento di un prezzo, sarebbe stato ceduto ai coniugi C.N..
S. Conseguentemente, il PM chiede l'annullamento della ordinanza impugnata "con ogni consequenziale provvedimento"

Considerato in diritto

1.I1 ricorso è infondato e va rigettato.
2.Questa sezione, già sette anni addietro, ebbe a chiarire (ASN 200832986-RV 241160) che non integra gli estremi del delitto di riduzione in schiavitù - ma quello di alterazione di stato (art. 567, comma secondo, cod. pen.) - la "cessione", uti filius, di un neonato ad una coppia di coniugi, in quanto la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 600 cp è connotata dalla finalità di sfruttamento dell'uomo sull'uomo, nel senso che, in tal caso, il soggetto attivo, non solo esercita un potere corrispondente al diritto di proprietà, ma deve anche realizzare la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione del soggetto passivo ed entrambe le condotte sono preordinate allo scopo di ottenere prestazioni lavorative, sessuali, di accattonaggio nelle quali si concreta lo sfruttamento dello schiavo: il che non ricorre nell'ipotesi in cui i soggetti attivi si propongono di inserire, sia pure contra legem, il neonato "compravenduto" in una famiglia che non è quella naturale. E invero, se pure si può convenire che il minore sia "venduto" alla stregua di una cosa, lo stesso certamente non è "comprato" con la medesima finalità, ma è "acquisito" da coloro che vogliono atteggiarsi a suoi genitori, appunto uti filius e dunque per essere considerato (e trattato) come un essere umano, anzi come un membro della famiglia che si appresta ad accoglierlo. Orbene, la lettera della legge restringe l'applicabilità dell'art. 567 cp all'ipotesi della sostituzione di un neonato, laddove, nel caso in esame, il giovane R. F.L., per quel che si apprende dalla sentenza impugnata, è un bambino di circa 10 anni. Resta l'attività preparatoria dell'inganno e della falsificazione della identità dei minore (non erroneamente rubricata ai sensi degli artt. 56, 495 cp), né può escludersi che i coniugi C.N. e i loro complici, nel momento in cui ottennero il rilascio del certificato di nascita di un figlio mai nato (la cui identità avrebbe poi dovuto essere attribuita al minore rumeno), abbiano consumato il delitto di supposizione di stato (art. 566 cp). La finalità di sfruttamento comunque deve ritenersi del tutto estranea alla condotta come descritta nella ordinanza impugnata) Invero, la nozione di riduzione in schiavitù, alla base dei reato di cui all'art. 600 cp, è connotata, non solo e non tanto dal concetto di proprietà in sé dell'uomo sull'uomo, ma dalla finalità di sfruttamento di tale proprietà, per il perseguimento di prestazioni lavorative forzate o inumane, di prestazioni sessuali, pure non libere, di accattonaggio coatto, tutti "obblighi di fare" imposti mediante violenza fisica o psichica (ASN 200439044-RV 230130). Per altro, l'esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà (jus utendi et abutendi) costituisce "un di più" rispetto al (semplice) mantenimento di una persona in stato di soggezione, sia pur continuativa. Sembra dunque del tutto logico che, in tale seconda ipotesi (e non anche nella prima), sia richiesta - esplicitamente - per la integrazione del delitto ex articolo 600 cp, l'attività di sfruttamento. La stessa struttura della norma, d'altra parte, sembra fondarsi su due (ben distinte) previsioni comportamentali: a) l'esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà, b) la riduzione o il mantenimento della vittima in uno stato di soggezione continuativa. Le due richiamate ipotesi normative sono poi formalmente distinte dalla particella disgiuntiva, "ovvero" ; ma anche dalla ripetizione della indicazione dell'agente ("chiunque'); di modo che la proposizione subordinata "costringendola a prestazioni lavorative ... che ne comportino lo sfruttamento ecc." è sintatticamente collegabile solo alla seconda ipotesi. Ne consegue che l'ulteriore elemento della imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima è, in realtà, richiesto esplicitamente solo per la seconda ipotesi prevista dall'articolo 600 e non anche nella prima. La ragione è evidente in quanto la reificazione di un soggetto ne comporta ex se lo sfruttamento, sfruttamento che può assumere le forme più diverse. Nulla di tutto ciò, per quel che si è sopra scritto, è ravvisabile nel caso in esame.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.
Avv. Antonino Sugamele

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