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Sentenza

La responsabilità del pubblico ufficiale sussiste anche se formalmente la richiesta di compiere l’atto non sia direttamente rivolta allo stesso.
La responsabilità del pubblico ufficiale sussiste anche se formalmente la richiesta di compiere l’atto non sia direttamente rivolta allo stesso.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 – 22 ottobre 2015, n. 42610
Presidente Agrò – Relatore De Amicis

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 27 ottobre 2014 la Corte d'appello di Messina, in riforma della sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Barcellona P.G. in data 25 febbraio 2010, ha dichiarato C. D., nella sua qualità di responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Santa Lucia del Mela, colpevole del delitto di cui all'art. 328, comma 2, c.p., per avere omesso di comunicare a M. S. l'esito di analisi chimiche effettuate sulla natura inquinante delle acque di scolo che attraversavano un fondo di sua proprietà, malgrado la richiesta del 27.12.2007 e la successiva diffida del 21.4.2008, condannandolo alla pena di euro 400,00 di multa.
2. Avverso la su indicata decisione ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell'imputato, deducendo quattro motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 328, comma 2, c.p., 35, comma 4, l. n. 241/90, per avere la Corte d'appello acriticamente accolto le argomentazioni svolte dal P.M. appellante riguardo alla configurabilità dell'ipotizzata fattispecie incriminatrice, senza chiarire le ragioni poste alla base dell'indirizzo giurisprudenziale da lui propugnato, di segno contrario rispetto a quello richiamato e fatto proprio dal Tribunale nella sentenza assolutoria di primo grado. Ad ogni modo la questione, oggetto di un contrasto giurisprudenziale, potrebbe essere rimessa alle Sezioni Unite ex art. 618 c.p.p. .
2.2. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 192 c.p.p., per avere la Corte d'appello ignorato quanto evidenziato dall'imputato nella memoria difensiva dei 22 ottobre 2014, riguardo all'assenza di prova non solo in merito alla sua condizione di responsabile dell'ufficio tecnico comunale, ma anche sulla sua effettiva conoscenza delle richieste avanzate dalla persona offesa M. S..
2.3. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 328, comma 2, c.p., non avendo la Corte d'appello considerato che, a seguito della riforma introdotta dalla l. n. 15/2005, il meccanismo previsto dalla norma incriminatrice è utilizzabile solo quando il termine di novanta giorni fissato per l'emanazione dell'atto sia già decorso, avendo quella modifica legislativa attribuito ai pubblici ufficiali uno spatium deliberandi di novanta giorni, con la possibilità per la P.A. di darsi un termine maggiore.
Nel caso di specie, la diffida e messa in mora del 21 aprile 2008 è stata fatta da parte dei M. oltre novanta giorni dalla prima istanza del 27 dicembre 2007, ma mentre quest'ultima è stata rivolta sia al Sindaco che al responsabile del servizio tecnico, la prima, ossia la diffida a provvedere, è stata effettuata solo nei confronti dei Sindaco, dunque non è pervenuta al medesimo amministratore o funzionario compulsato in precedenza, con la conseguenza che non è ravvisabile il doppio interpello rivolto al medesimo soggetto che in ipotesi sarebbe rimasto inerte.
2.4. Violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 43 c.p., per difetto di dolo, avuto riguardo alle diverse pronunzie intervenute sull'efficacia dei silenzio dell'amministrazione a seguito di una richiesta di accesso agli atti ed al fatto che l'imputato avrebbe potuto restare inerte sulla richiesta, confidando su un'opzione ermeneutica avallata dalla giurisprudenza della Suprema Corte.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è in parte fondato e va pertanto accolto nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.
2. Il primo, il terzo ed il quarto motivo di doglianza sono inammissibili per manifesta infondatezza, poiché le relative censure sono state prospettate sulla base del richiamo ad un isolato precedente dei 1998, rimasto dei tutto superato dalla successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
Al riguardo, invero, deve ribadirsi la pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, che ha ormai da tempo stabilito il principio secondo cui, in tema di delitto di omissione di atti d'ufficio, il formarsi dei silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta dei privato costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 45629 dei 17/10/2013, dep. 13/11/2013, Rv. 257706; Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
Rispetto a tale indirizzo dominante, l'unico precedente giurisprudenziale contrario, cui ha fatto riferimento il ricorrente, non può essere sotto alcun profilo condiviso in quanto, come più volte evidenziato in questa Sede, sovrappone la questione del rimedio apprestato dall'ordinamento contro l'inerzia della pubblica amministrazione - consentendo con la finzione del silenzio-rifiuto che il cittadino possa procedere ad impugnazione - con i diversi aspetti problematici inerenti la responsabilità penale del pubblico funzionario. Senza dire che, con l'esperibilità dei rimedi giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto, non soddisfano neppure interamente le esigenze di tutela nei confronti della pubblica amministrazione (basti pensare al vizio di merito dell'atto amministrativo).
La fattispecie di cui all'art. 328, comma 2, c.p., incrimina non tanto l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall'istanza di chi vi abbia interesse. L'omissione dell'atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell'agente, poichè questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l'atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l'attività amministrativa. In tal senso, la stessa formulazione della norma, che utilizza la congiunzione "e", delinea una equiparazione ex lege dell'omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell'atto richiesto (v., in motivazione, Sez. 6, 22 giugno 2011, n. 43647).
Ne discende, conclusivamente, che la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono, con il logico corollario che il reato si "consuma" quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato (Sez. 6, 15 gennaio 2014 - 20 gennaio 2014, n. 2331).
Con riferimento ai su indicati motivi di doglianza, pertanto, la decisione impugnata ha fatto buon governo delle regole stabilite da questa Suprema Corte, ritenendo la condotta in contestazione idonea ad integrare gli estremi del reato omissivo sul pacifico rilievo, in punto di fatto, che la lettera di diffida e messa in mora del 21 aprile 2008, nonostante fosse direttamente rivolta al Sindaco, era stata da questi inoltrata, il successivo 30 aprile 2008, al responsabile del Servizio urbanistico tecnico, con l'esplicito "invito a darne immediato riscontro e relativa comunicazione al sottoscritto", così ponendolo in condizione di conoscere l'oggetto dell'incarico da adempiere, a lui affidato nella rispettiva qualità.
3. Fondato, di contro, deve ritenersi il secondo motivo di doglianza, là dove i Giudici di merito non hanno adeguatamente affrontato e risolto, in punto di fatto, un aspetto decisivo ai fini della configurazione della responsabilità penale, atteso che già in sede di gravame (v. pag. 5 della memoria difensiva in data 22 ottobre 2014) era stato posto in dubbio il connesso profilo inerente l'accertamento della effettiva riconducibilità dei comportamento omissivo alla persona dell'imputato, con riferimento alla necessaria verifica della sua formale condizione soggettiva di responsabile del servizio tecnico comunale al momento della ricezione della diffida da parte dei Sindaco, con le relative implicazioni in tema di competenza a provvedere sull'oggetto della richiesta inoltrata al dirigente di quell'Ufficio.
Su tali punti, specificamente contestati in sede di gravame, non emerge dalla motivazione della decisione impugnata una precisa ed argomentata risposta a confutazione delle censure mosse dalla difesa.
4. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, la sentenza impugnata va annullata con rinvio alla Corte d'appello di Reggio Calabria, affinché provveda, alla stregua delle regole di giudizio affermate, a colmare le su indicate lacune, uniformandosi al quadro dei principii in questa Sede stabiliti.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Reggio Calabria.
Avv. Antonino Sugamele

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